giati in isquallidi deserti. Io n’era il solo abitatore; io, che atteggiato di nera melanconia, e quasi trasognato, sedeva sulla cima di ameno poggetto, facendo del gomito al capo sostegno, immemore di mia salute, e dell’ira celeste.
Tale, e cotanto si era il turbamento della mia anima, quando mi corse allo sguardo l’aspetto di ruinato castello, reliquia infame del reo abuso della forza, e della più vile sofferenza degli uomini. Quella vista tutti a mente tornommi i delitti, da cui lordate furono quelle mura, che avrieno dovuto sorgere a difesa della patria libertà, e che invece eransi cangiate in istromenti fatali della più abietta, e malvagia tirannide. Pareva, che il fato tolto mi avesse a perseguitare, porgendomi sott’occhio un monumento, che la nequizia mi ricordava delle passate generazioni, quando poco pago della presente, m’era in solitudine ritratto, sperando lontano dagli uomini, di ricovrare la perduta mia pace. Ma indarno aveva io accolta nel mio cuore sì dolce speranza: l’uomo per cangiare di sito non cangia però di passioni. Di vero, in tale vaneggiamento trovavasi immersa la mia mente, e sì debole vampa mandava la fiaccola di mia ragione, ch’io mi credeva scorgere fra quelle rovine l’om-