Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Nota
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NOTA
I
Di Vincenzo Cuoco e del suo mirabile Saggio storico si è, in questi ultimi tempi, scritto tanto (e da taluno anche assai bene1, che si potrebbe quasi, per questo volume, far di meno di Nota bibliografica. Mi limiterò quindi ai punti piú importanti.
Delle due parti, onde consta l’opera che ora si ripubblica, pare assodato che la seconda, le Lettere a Vincenzio Russo, le quali, piú che appendice, sono, per dir cosí, la chiave del Saggio in quanto dánno, con la perspicuitá e ordine peculiari dell’esposizione teorica, il sistema politico, e non politico soltanto, da cui moveva l’autore nella sua critica storica; pare assodato, dunque, che siffatte lettere, nonché essere suppositizie e composte dopo il Saggio, siano state scritte per davvero, almeno in abbozzo, durante gli ultimi tempi della breve esistenza della sventurata repubblica partenopea2. Altrimente, come mai avrebbe potuto il Cuoco, senza incorrere in una sciocca bugia, asserire d’esser «dolente di non aver potuto conservare la lettera che gli scrisse Mario Pagano, dopo che Russo gli ebbe comunicate le idee di lui»3?
Circa il Saggio propriamente detto, ci sarebbe l’asserzione del medesimo Cuoco, sulla quale si è fondato anche qualche biografo4, di averlo scritto «sul cader del 1799»5. Senonché contro di essa è stato osservato6 che «sul cader del 1799» il Cuoco era ancora a Napoli in carcere, sotto gli artigli dello Speciale, del Guidobaldi e simile genia, e non poteva quindi scrivere per «raddolcire l’ozio e la noia dell’emigrazione», com’egli dice in un altro luogo7; emigrazione che per lui ebbe principio soltanto dalla seconda metá dell’aprile 1800.
A rigor di termini, l’obiezione è giusta. Ma non c’è proprio modo di conciliare le due diverse asserzioni del Cuoco, supponendo, per esempio, che egli abbia incominciato ad abbozzare il Saggio in carcere e lo abbia poi proseguito durante l’esilio? Sembra forse cosa troppo inverisimile che un reo di Stato sotto processo abbia potuto godere in prigione di tanta libertá, da aver agio, scrivendo tutto quel che c’è nel Saggio, di incorrere in novello delitto di maestá? Ma non si dimentichi che, trascorso il primo furore della reazione, le condizion dei prigionieri politici divennero assai piú miti; e poi, fra tutto il gran da fare che dava quell’immensa folla d’indiziati, quali miracoli non avrebbe compiuti una «piastra» abilmente deposta nelle mani di un pietoso secondino? Che se poi si vuole assolutamente escludere che al Cuoco sia riuscito, durante i dieci mesi di prigionia, di mettere materialmente sulla carta le idee che gli tumultuavano nel cervello, niente vieta di credere che egli abbia potuto pensarle, ruminarle, approfondirle, ossia scrivere mentalmente l’opera sua. Chiunque abbia un po’ di pratica del rude mestiere dello scrittore sa assai bene che quello stile facile, rapido, serrato; quell’andare avanti quasi a passo di carica, superando trionfalmente tutti gli ostacoli che s’incontrano sulla strada; quell’omogeneitá ed equilibrio fra le parti; quella sobrietá, lucidezza e drammaticitá di esposizione; insomma tutti gli squisiti pregi letterari che ammiriamo nel Saggio storico, si possono conseguire non giá da un brillante improvvisatore, ma soltanto da chi, oltre all’aver conquistato, dopo lunga meditazione e talvolta aspra lotta, il filo conduttore che deve guidarlo nella diffícile via, possegga cosí pienanemente, anche nei particolari, il proprio argomento, da potersi porre a tavolino, secondo la frase volgare, col libro bello e scritto nel cervello. E qual cosa, piú che gli ozi del carcere, e i discorsi, i ricordi, i rimpianti di tanti attori, grandi e piccoli, dell’immane tragedia, potevano invitare il Cuoco a meditare sugli avvenimenti di cui era stato spettatore silente ma riflessivo, e a coordinare in un tutto organico le critiche che al suo finissimo senso storico s’erano presentate spontanee, ogni qual volta la traballante repubblica partenopea commetteva qualcuno di quella lunga serie di errori, che dovevano trarla alla rovina?
Comunque, e senza piú insistere su questo particolare, certo è che il Cuoco, non appena riacquistò la libertá e fin da quando si trovava sul vascello che da Napoli lo trasportava a Marsiglia (dove sbarcò il 5 maggio 18008, si mise o si rimise a stendere quell’opera, sulla quale egli stesso diceva di fondare tutte le sue speranze; che la proseguí nei ritagli di tempo fra le sue peregrinazioni per la Francia, che la compié a Milano, ove era giunto l’11 decembre 18009. Poco verisimile mi sembra quindi l’opinione espressa da taluno10, che incentivo al Cuoco per iscrivere il Saggio sia stato il successo ottenuto dal Rapporto al cittadino Carnot del Lomonaco; per quanto sia possibile che del Rapporto (e anche forse della familiare convivenza col Lomonaco) il Cuoco si sia nell’opera sua utilmente giovato11.
Senonché, averla scritta non bastava: bisognava ora pubblicarla; e al Cuoco, che non aveva un soldo e tirava avanti Dio sa come la vita, ciò riusciva impossibile.
Se ne parla una sera — egli narra con la sua consueta candidezza12. — Un amico [un tal Robalia], il quale non mi conosceva, sentendo parlare con vantaggio di me, domanda: — E perché dunque non la stampa? — Ed i denari? — Quanto ci vuole? — Circa ottocento lire. — Ditegli che venga da me. — Vado: quest’uomo mi conta ottocento lire, e non mi dá nemmeno il tempo di ringraziarlo. Volea fargli una ricevuta: non vuole. — Stampate l’opera — mi dice: — quando l’avrete venduta e non avrete bisogno, mi restituirete le ottocento lire... Io volea partire, ed egli mi trattiene ancora: tira fuori due luigi (62 lire), e mi dice: — Tenete: le ottocento lire vi servono per la stampa. Ma voi avete bisogni: servitevi di questi due luigi. Se vi occorre altro, venite da me. —
Si può bene immaginare con quanta gioia il giovane molisano si affrettasse a portare il suo bravo manoscritto a una «tipografia milanese» alla Strada nuova. Dalla quale, pochi mesi dopo (non piú tardi dell’agosto 180113), compariva per la prima volta, in tre volumetti, senza il nome dell’autore, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, preceduto da una Lettera a N. Q. seguito dai Frammenti di lettere a Vincenzio Russo. Venti esemplari dell’ opera furon donati al buon Robalia, che non volle mai sentir parlare di restituzione della somma anticipata: gli altri, messi in commercio, ebbero tanta fortuna, che non solamente l’edizione (diventata oggi una raritá bibliografica assai preziosa14) fu in breve tempo esaurita, ma l’autore, oltre un certo lucro immediato, conseguí, non ostante l’anonimo, tanto ampia reputazione, da ottenere, un paio di mesi dopo, un impiego con circa trecento lire mensili15.
Cosí rapida diffusione del Saggio obbligò il Cuoco a darne nel 1806, presso Francesco di Giovan Battista Sonzogno di Milano, una seconda edizione16 (tipograficamente assai piú brutta e scorretta della prima). Nella quale mi sembra cosa affatto naturale che l’autore, tornando dopo cinque anni (ciascuno dei quali, in quel periodo cosí fecondo di mutamenti, valeva per dieci) sull’opera sua, v’introducesse non soltanto alcuni ritocchi di forma e non poche giunte, ma ancora parecchie correzioni sostanziali, particolarmente nei giudizi. E non so davvero spiegarmi come da taluno si sia potuto attribuire tutto ciò a brutta incostanza, o, per dir la parola esatta, a opportunismo politico, che avrebbe fatto diventare il Cuoco, da repubblicano, monarchico; tanto monarchico, anzi, da aver voluto anche lui bruciare un granello d’incenso all’idolo che allora si venerava su tutti gli altari. Non è certo il caso di riaprire un dibattito (chiuso assai efficacemente dal Romano17) sul voluto «repubblicanismo» del Cuoco. Per quel che riguarda la seconda redazione del Saggio, dar dell’adulatore al Cuoco sol perché parli a Napoleone col linguaggio dovuto a tanto uomo (egli che, invece di calcar la mano, com’è avrebbe fatto un adulatore per davvero, su Ferdinando e Carolina, attenua, almeno nella forma, i giudizi precedentemente espressi su di loro), mi sembra una piccineria; — dargli del voltabandiere, sol perché tenne a far sparire dalla seconda edizione anche la piú piccola traccia di quel gergo tribunizio, di cui si abusò tanto durante la Rivoluzione, mi sembra un confondere le parole con le cose; — maravigliarsi infine perché dopo cinque anni si possa parlare e giudicare di una catastrofe con animo ben diverso da quello con cui se ne parla e giudica nell’immediatezza (che è sempre un po’ tumultuaria) del dolore e dello schianto da essa suscitati, mi sembra ignorare che cosa sia il cuore umano. Insomma, io non so come si possa non aderire pienamente alle conclusioni assai sennate del Romano18: che, cioè, solo scopo del Cuoco, nel fare quei mutamenti, fosse stato quello di «togliere alla sua opera ogni traccia di passionalitá personale e, con piú esatto giudizio, colpire il malgoverno del suo paese in tutte le sue manifestazioni, nel re e nella regina, similmente che ne’ perfidi consiglieri, in tutto il suo congegno»; e che «a lui doveva repugnare, dopo la solenne dichiarazione di occuparsi piú dei fatti e meno delle persone, quella impressione di cruda personalitá, che il Saggio della prima maniera non poteva non fare».
Dal 1806 fin oggi, oltre la traduzione francese del Barrère (1807)19, il Saggio è stato ripubblicato, giusta la seconda redazione, cinque volte: a Milano, presso il Sonzogno, nel 182020; a Parigi (presso il Didot?) nel 184221; a Torino, presso il Pomba (insieme col Rapporto del Lomonaco), nel 1852; a Napoli, presso Mariano Lombardi (anche insieme col Rapporto del Lomonaco), nel 1861; a Firenze, presso il Barbèra, in uno dei volumetti della Collezione Diamante, nel 186522. Le ultime due ristampe vennero curate da Mariano d’Ayala, il quale premise ad entrambe la sua breve biografia del Cuoco, e, alla seconda, come saggio delle varianti della redazione del 1801, il capitolo sul Progetto di Girardon, che nella redazione del 1806 fu completamente soppresso.
Nella presente ristampa ho riprodotto, naturalmente, il testo del 1806, correggendo molti errori tipografici, non indicati nell’errata-corrige, ma rispettando per converso le parecchie incostanze grafiche del Cuoco (p. e., «Macchiavelli» sempre nel Saggio e «Machiavelli» nelle Lettere al Russo), nonché l’ortografia caratteristicamente errata (e comune anche ad altri scritti napoletani del tempo, p. e. al Diario del De Nicola) di alcuni cognomi stranieri (p. e. «Laubert» per «Lauberg», «Magdonald» per «Macdonald», «Mégeant» per «Méjean», «Food» per «Foote», ecc.). Di piú, in appendice, ho dato, per la prima volta completamente, tutte le varianti dell’edizione del 1801. Tutte, s’intende bene, quelle non meramente formali, ed escludendo anche (per avvertirlo qui una sola volta tanto) quelle altre, troppo frequenti, in cui, invece di «Acton» o «corte di Napoli» o «governo » o di qualche altra ancora piú vaga indicazione della seconda redazione, si trovano, nella prima, i nomi di Ferdinando e Carolina, accompagnati talvolta da epiteti oppure indicati con perifrasi, che non si può dire pecchino di eccessiva cortesia.
II
Il nome di Francesco23 Lomonaco è cosí strettamente congiunto con quello di Vincenzo Cuoco, col quale fu legato da fraterna amicizia (fu appunto il Lomonaco che presentò il Cuoco al Manzoni), e il Rapporto al cittadino Carnot integra cosí bene il Saggio storico, insieme col quale è stato giá pubblicato tre volte (nella traduzione del Barrère, nell’ediz. Pomba e nell’ediz. Lombardi); che non c’è da maravigliarsi se, nel recente risveglio di studi sullo storico per eccellenza del Novantanove, si sia vòlta l’attenzione anche su chi, dopo quella catastrofe, s’assunse, contro colui il quale ne era stato non ultima tra le cause, la parte assai coraggiosa dell’accusatore. Né, d’altra parte, si poteva senza manifesta ingiustizia dimenticare, in occasione del cinquantenario della costituzione del regno d’Italia, quel breve Colpo d’occhio sull’Italia, che segue al Rapporto propriamente detto, in cui l’unitá italiana veniva non solamente vagheggiata, ma esplicitamente ed efficacemente propugnata24 come sola áncora di salvezza per la penisola, anzi come conditio sine qua non dell’equilibrio europeo. Anche sul Lomonaco c’è dunque una discreta letteratura: senonché non infastidirò il lettore con lunghe citazioni, limitandomi a rimandare a una buona monografia del dottor Giulio Natali25, pubblicata in questi giorni, nella quale, fornita in principio di un’ampia bibliografia, si potranno agevolmente rintracciare tutte le indicazioni occorrenti.
Quando fu scritto e pubblicato per la prima volta il Rapporto? Certamente nel 1800; ma fissare la data con maggiore precisione non è possibile, per la ragione che né al Natali, né a me, né a quanti si sono occupati del Lomonaco è stato dato di rintracciare un esemplare della prima edizione. Il Natali (come già prima il Bertaux26) pone la data di composizione e pubblicazione dopo il 14 giugno 1800, fondandosi sull’accenno che è nel Rapporto alla vittoria di Marengo (e avrebbe anche potuto porla dopo il 19 giugno, per l’altro accenno alla vittoria del Moreau ad Hochstet). La cosa è assai probabile: si potrebbe anzi agevolmente congetturare che il Rapporto sia frutto di quel movimento degli esuli napoletani contro il Méjean, che Cesare Paribelli riattivò verso l’agosto 180027. Senonché potrebbe anche darsi che l’accenno a Marengo e a Hochstet fosse proprio una delle aggiunte, annunziate nel frontespizio, della seconda edizione, e (cosa assai meno verisimile) che il Lomonaco scrivesse indipendentemente dall’impulso del Paribelli. Arzigogolare quando mancano i documenti è tempo perso: sicché bisogna contentarsi, prudentemente, di asserire che il Rapporto non è anteriore al maggio 1800, epoca in cui il Carnot successe al Berthier nel ministero della guerra.
Della seconda edizione del Rapporto «corretta ed accresciuta dall’autore» (rarissima) conosco tre esemplari: uno dell’Ambrosiana di Milano, un altro della Vittorio Emanuele di Roma, il terzo della Società napoletana di storia patria. Sono centoventi paginette in 8°, che recano, come la prima ediz. del Saggio del Cuoco, la data: «Milano, anno ix repubblicano» (22 sett. 1800-21 sett. 1801). Senonché , se, pel Saggio, si deve protrarre la data di pubblicazione fino forse all’agosto 1801, credo che, per questa seconda edizione del Rapporto, non si possa non collocarla nel secondo semestre (se non nel settembre) del 1800. Il Lomonaco infatti pone la povera Luisa Sanfelice nell’elenco dei condannati a morte cui s’era commutata la pena in quella della fossa della Favignana28; mostrando, per tal modo, d’ignorare ancora quale orrendo scempio, l’11 settembre 1800, il carnefice avesse fatto del corpo di quella sventurata. Ora, che a lui, amico del Cuoco, la notizia della decapitazione, anzi dello scannamento, possa essere giunta con uno, due mesi di ritardo, in modo da non permettergli piú di fare la necessaria correzione, è cosa che, stiracchiando, si riesce anche ad ammettere; ma supporre che egli, p. es., nel marzo o aprile 1801 potesse ancora credere alla diceria della commutazione di pena, è contro ogni verisimiglianza.
Il tono risolutamente anticlericale, anzi anticattolico, del Lomonaco non poteva non procurargli molte antipatie. Il Natali ha giá parlato di un esemplare del Rapporto (quello della V. E., che ho presente29), in cui un anonimo, cattolico assai fervente, appose qua e lá alcune postille tutt’altro che lusinghiere per l’autore («sciaurato fuoruscito», «doh! bestialitá», ecc.). Io ho rinvenuto nella Biblioteca municipale di Napoli (giá Cuomo) una copia ms. del Rapporto, che reca in fine l’annotazione: «Finito di copiare a dí 30 giugno 1810 da una copia scritta in 8° di pp. 120, e detta copia è stata fatta con tutta l’esattezza possibile da G. M. S. T. per vieppiú completare la sua raccolta», e qua e lá, in altro carattere, alcune postille, la prima delle quali ha la data del 1827 e la firma «E. P.». Anche codesto signore non sa tollerare l’anticattolicismo del Lomonaco: per altro non è antipatriota e, di piú, conosce bene la rivoluzione del Novantanove; quindi qualche postilla ha carattere storico, e non è priva d’importanza. Trascrivo l’ultima, relativa ai quattordicimila ducati pretesi dal Méjean dai patrioti napoletani:
Sconfitti i pochi patrioti, che al ponte della Maddalena da leoni si opposero all’armi reali, ed entrati i calabresi nella cittá, i primi si ritirarono nei castelli dell’Ovo e Nuovo e nel palazzo reale, quale per mezzo di un ponte comunica con quest’ultimo castello. I calabresi, resi padroni della cittá, incominciarono a battere il Castel dell’Ovo, piantando i cannoni in un fortino che stava allora fuori della Villa reale, propriamente dove c’era il boschetto. Il cannone di questo fortino, per esser a fior d’acqua, incomodava molto il suddetto castello: quindi i patrioti rinchiusi in Castel Nuovo ed in Palazzo pensarono inchiodare i cannoni di detto fortino. Per far ciò, vollero l’aiuto de’ francesi, che chiesero a Méjan ed ottennero per mezzo di ducati 14000; a’ quali si unirono ancora i patrioti che eransi rifugiati in un barraccone temporaneamente costruito intorno al castello di Sant’Elmo e sotto al suo cannone. Il convenuto fu che i patrioti di Sant’Elmo con que’ francesi ottenuti da Méjan sarebbero discesi sul Petraio, e al largo del Vasto30 si sarebbero riuniti con gli altri patrioti del Castel Nuovo, dell’Ovo e di Palazzo, ed iti sarebbero uniti alla spedizione d’inchiodare i cannoni alla Villa. Questa riunione far si dovea al punto di mezzanotte. Uscirono i patrioti da’ due castelli e da Palazzo, e per la strada di Chiaia s’incamminarono al luogo convenuto. Arrivati al ponte di Chiaia, un posto di calabresi gli die’ la voce del «Chi viva?». Essi risposero: — Il re. — La fazione gl’intimo l’«alto», e chiamò il capoposto per contare questa creduta pattuglia. Intrepido si avanza un patriota funzionante da sergente, con altri due funzionanti da soldati; un pari numero si avanza di calabresi: ma questi ultimi in men d’un baleno furono trucidati, e l’istessa sorte corsero gli altri, che sonnacchiosi stavansi al posto di guardia dentro la porteria del monistero di Sant’Ursula. Superato quest’incontro da’ patrioti, giunsero al luogo convenuto, ove in pari tempo arrivarono quegli discesi da Sant’Elmo con i francesi; ma, equivocatosi il «santo», vi fu tra di loro una fucilata, con la morte di vari di essi. Ma, riconosciutisi, giunsero al loro destino, inchiodarono i cannoni e ritiraronsi ne’ loro rispettivi asili.
A quanto io sappia, il Rapporto (non contando la traduzione del Barrère) non fu piú ristampato fino al 1836, nel quale anno apparve nel vi volume delle Opere del Lomonaco, pubblicate a Lugano dal Ruggia, insieme col Discorso inaugurale. Se ne ebbero poi le ristampe del Pomba, 1852, e del Lombardi, 1861, alle quali si è accennato. A proposito dell’ultima debbo avvertire che il D’Ayala commise qua e lá qualche arbitrio: p. e. corresse alcuni francesismi, comunissimi al tempo in cui il Lomonaco scriveva («travaglio», «rappresentazione», «Elisei», «deboscia», ecc.); attenuò in modo piú pudico l’accenno ai pregi fisici che bisognava possedere per dar nel genio a Maria Carolina; con piccoli ma sostanziali ritocchi fece diventare il Lomonaco, da fiero avversario di tutti i re in genere, nemico dei soli Borboni di Napoli; e infine manipolò non poco l’elenco dei giustiziati del Novantanove, supplendo alcuni nomi e qualche cognome dal Lomonaco lasciati in bianco, correggendone altri, aggiungendo per taluni il luogo dell’esecuzione, per altri brevi cenni biografici, e ciò non pertanto non riuscendo a rendere quella tavola immune da inesattezze. Naturalmente io ho riprodotto il testo del Lomonaco nella sua genuinitá, rispettando non solamente i francesismi, ma anche i molti errori nell’ortografia di nomi propri stranieri («Hochest» per «Hochstet», «Ampheld» per «Armfeld», «Rosmoski» per «Razomowsky», ecc.). Circa la tavola necrologica, tutto ciò che potevo fare nel testo era di aggiungere tra parentesi quadre, ove nell’originale erano puntini sospensivi, quei nomi o cognomi suppliti dal D’Ayala, e anche qualche altro da lui lasciato in bianco. Volevo poi dar qui, perché il lettore non ne restasse privo, le brevi giunte e correzioni del D’Ayala. Ma, poiché esse rappresentano lo stato degli studi di cinquant’anni fa, e d’allora in poi assai cammino si è fatto nella storia del Novantanove, ho creduto piú opportuno e proficuo ridare intero l’elenco dei giustiziati a Napoli e nelle isole secondo i risultati delle ultime indagini31.
Ciò anche perché si scorga che il Lomonaco, oltre ad avere il merito d’essere stato il primo a tramandare ai posteri quel pietoso elenco, ha anche l’altro d’averlo compilato con la maggiore diligenza che allora si poteva, incorrendo soltanto in quegli errori inevitabili per chi, non avendo certo a sua disposizione il registro mortuario dei Bianchi o altri documenti ufficiali, era costretto ad attingere all’assai infida fonte dei ricordi personali suoi e dei compagni di esilio32.
Note
- ↑ La migliore monografia sul Cuoco resta sempre quella di Michele Romano, Ricerche su V. C. politico, storiografo, romanziere, giornalista (Isernia, Colitti, 1904), sulla quale è da vedere l’importante recensione del Gentile, in Critica, iii, 39. Anteriore, ma anche inferiore, Nicola Ruggieri, V. C., Studio storico-critico con una appendice di decc. inediti (Rocca San Casciano, Cappelli, 1903: vol. ii delle Indagini di storia letteraria e artistica, dirette da Guido Mazzoni: cfr. Croce in Critica, i, 298). Si veda anche A. Butti, La fondazione del «Giornale italiano» e i suoi primi redattori (Milano, Cogliati, 1905, estr. dall’Arch. stor. lombardo), e principalmente Gaetano Cogo, V. C., note e docc. (Napoli, Iovene, 1909). Utili sempre a consultarsi i fondamentali Studi sulla rivoluz. napoletana del 1799 del Croce, di cui è uscita testè presso il Laterza la terza ediz,, piú che raddoppiata. Non cito gli eccellenti lavori del Gentile, perché, piú che il C. storico, riguardano il C. pedagogista. D’altronde, mercé i libri che ho menzionato, sará facile al lettore ricostruire completa la bibliografia del Cuoco.
- ↑ Si veda Romano, op. cit., c. ii.
- ↑ Si veda sopra, p. 265.
- ↑ P. e. G. Ottone, V. C. e il risveglio della coscienza nazionale (Vigevano, 1903). p. 15.
- ↑ Si veda sopra, p. 211.
- ↑ Ruggieri, op. cit., pp. 33-4.
- ↑ Nella Lettera a N. Q. Si veda sopra p. 11.
- ↑ Per questa data si vedano gli Studi del Croce, p. 347 n.
- ↑ «Travaglio ad un’operetta che avea cominciata sopra la barca, che avea proseguita nel viaggio di Francia e su di cui fondava tutte le mie speranze». Lettera al fratello Michele Antonio, del 7 genn. 1803, pubbl. dal Cogo, op. cit., p. 127.
- ↑ Ruggieri, op. cit., p. 29.
- ↑ Si vedano a questo proposito le osservazioni del Natali, nell’opuscolo oltre citato. Senonché potrebbe anche darsi che della familiaritá col C. si sia giovato il Lomonaco, nello scrivere il Rapporto.
- ↑ Nella cit. lettera al fratello.
- ↑ Fisso questa data, perché dell’impiego ottenuto dal C. «due mesi» dopo la pubblicazione del Saggio egli fruiva giá anteriormente al 14 ottobre 1801 (si veda Cogo, op. cit., p. 57, nota 50). Ma non mi sembra verisimile quel che congettura il Cogo, 1. c., che cioè il Saggio fosse potuto uscire alla luce presso a poco due mesi prima del 16 marzo 1801, ossia a mezzo gennaio, quando si ricordi che il C. giunse a Milano a mezzo decembre 1800. In un mese dunque egli avrebbe terminata l’opera, trovato il danaro e curata la stampa, che allora procedeva assai meno sollecita che ai giorni nostri?
- ↑ A Napoli non ne esiste se non un solo esemplare, che, posseduto giá dal compianto bibliofilo Francescantonio Casella, si conserva ora nella ricca biblioteca di Benedetto Croce.
- ↑ Si veda la citata lettera al fratello. Per le ragioni precedentemente esposte, non credo che siffatto impiego possa essere quello di collaboratore del Redattore italiano, come opina il Cogo, l. c., se è vero che il Cuoco scrivesse in quel giornale fin dal 16 marzo 1801.
- ↑ Pp. 303-lxix, oltre l’indice e l’errata corrige.
- ↑ Op. cit., p. 55 sgg.
- ↑ Op. cit., p. 133 sgg.
- ↑ Io non l’ho vista, ma la cita il Natali, nell’opuscolo menzionato piú oltre.
- ↑ Il D’Ayala dice che la data di Milano è falsa e che l’ediz. venne clandestinamente pubblicata a Napoli per opera del Colletta. Per quanto di ciò egli non adduca prova, la cosa non è inverisimile.
- ↑ Neanche questa ristampa ho potuto trovare. E credo non l’abbia vista nemmeno il Ruggieri, che la cita con un punto interrogativo.
- ↑ Tra le carte del D’Ayala (ora conservate nella biblioteca della Societá napoletana di storia patria) è la seguente lettera a lui diretta dal Barbèra: — «Firenze, 24 aprile 1865, — Nella mia Collezione Diamante, che forse conoscerá, vorrei pubblicare il Saggio storico... Posseggo l’ediz. ch’Ella fece nel ’61 pei tipi del Lombardi. Credo quell’ediz. quasi esaurita; e perciò non esiterei ad arricchire la mia collezione di quel gioiello, dando anche il ritratto dell’autore. Prego lei di sapermi dire se la dichiarazione di proprietá apposta al volume suddetto riguarda il suo lavoro biografico, come parrebbe naturale, o se per caso riguardasse anche il lavoro del C. Aspetto dalla sua cortesia una risposta», ecc. — Alla quale il D’Ayala appose la poco benevola postilla: «Non solamente si vuole senza ringraziamento il lavoro, ma anche la sicurtá, che non posso dare». — Ringrazio il venerando prof. Giuseppe de Blasiis, che mi ha additato questo e qualche altro documentino, che avrò occasione di citare piú oltre.
- ↑ Francesco (cioè Francesco Saverio) era, a dir vero, il secondo nome del L. Il primo era Maurizio. Cfr. tra le citate carte del D’Ayala (a f. 128 del volume segn. iii corr., xiv, B, 1) la copia legale della fede di battesimo, in cui don Nicola Lomonaco dichiara di essergli nato, il 22 nov. 1772, da Margherita Fiorentino, un maschio, cui impone i nomi di Maurizio, Francesco Saverio, Bernardo, Gaetano, Donato.
- ↑ Inesattamente si suol dire che il L. sia stato il primo a propugnare idee unitarie, giacché, p. e., fin dal 1796 le esprimeva «il napoletano Matteo Caldi, esule del 1794, ed autore del libro: Sulla necessitá di stabilire una repubblica in Italia». (Croce, Studi cit., p. 330, in nota, in cui è anche la bibliografia sulla storia dell’idea unitaria). L’importanza del Colpo d’occhio sta in questo: che il L. vi si fa banditore di un’idea ormai diventata concreta e collettiva (Croce, l. c.).
- ↑ Giulio Natali, La vita e il pensiero di F. L., monografia premiata dalla R. Accademia di scienze morali e politiche della Soc. reale di Napoli (Napoli, 1912).
- ↑ Arch. stor. nap., xxiv, 476.
- ↑ Croce, p. 354 sgg.
- ↑ Si vedano per questo particolare gli Studi del Croce, p. 158, e l’opera piú oltre cit. del Fortunato, 1. c.
- ↑ Reca l’ex -libris: «Ferdinandi Cortesi καὶ τῶν φιλῶν».
- ↑ Ossia il largo ov’era il palazzo del marchese del Vasto, ora via dei Mille.
- ↑ Mi sono attenuto, per Napoli, al Fortunato, I giustiziati di Napoli (29 giugno-11 settembre 1800), 3a ediz. con correzioni ed aggiunte, in Scritti vari (Trani, Vecchi, 1900), pp. 138-164; per Procida e Ischia al Conforti, Napoli nel 1799, 2a ediz. con giunte ed altri docc. (Napoli, Anfossi, 1889), pp. 123-137; pel solo giustiziato di Ponza, ad Angelo Broccoli, in Albo campano dei martiri politici del 1799 (Caserta, 1899), fasc. 1.
- ↑ Tutto sommato, gli errori del L. si riducono, oltre a qualche lieve inesattezza nelle desinenze dei cognomi, ad avere mutato Andrea Vitaliani in Nicola, Luigi Bozzaotra in Bozzauti, Gaetano Russo in Rossi, il Tramaglia in Tremaglia, Giacinto Calise in Aniello, il Costagliola in Castagliola, Gasparo Pucci in Lucci, Michele Ciampriamo in Giampriano; ad aver mutato in cognome il luogo di nascita (Spaccone) di Cesare Albano; ad aver elencato tra i giustiziati un Morglies (probabile duplicato di Gaetano Morgera), un Antonio Perna (probabile duplicato di Domenico Perla), un Antonio Coppola, un Leopoldo de Gennaro e un Domenicantonio Ragni, di cui non discorrono né il registro dei Bianchi, né il Diario del Marinelli, né quello del De Nicola, né altre fonti; omettendo per converso Cristoforo Grossi e Carlo Romeo. Non colloco tra gli errori ciò che il L. dice della Sanfelice per le ragioni avanti addotte; — né l’aver posto fra i giustiziati il Velasco, suicida, sia perché, subito dopo il nome, egli stesso dá la notizia del suicidio, sia perché in fondo il Velasco non fece che compiere da se stesso ciò che ineluttabilmente avrebbe fatto messer Tommaso Paradisi da Montefusco (il boia); — né l’omissione del sacerdote Vincenzo Troise, dovuta a materiale dimenticanza, perché dell’esecuzione di lui il L. discorre in altra parte del Rapporto.