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rarono nei castelli dell’Ovo e Nuovo e nel palazzo reale, quale per mezzo di un ponte comunica con quest’ultimo castello. I calabresi, resi padroni della cittá, incominciarono a battere il Castel dell’Ovo, piantando i cannoni in un fortino che stava allora fuori della Villa reale, propriamente dove c’era il boschetto. Il cannone di questo fortino, per esser a fior d’acqua, incomodava molto il suddetto castello: quindi i patrioti rinchiusi in Castel Nuovo ed in Palazzo pensarono inchiodare i cannoni di detto fortino. Per far ciò, vollero l’aiuto de’ francesi, che chiesero a Méjan ed ottennero per mezzo di ducati 14000; a’ quali si unirono ancora i patrioti che eransi rifugiati in un barraccone temporaneamente costruito intorno al castello di Sant’Elmo e sotto al suo cannone. Il convenuto fu che i patrioti di Sant’Elmo con que’ francesi ottenuti da Méjan sarebbero discesi sul Petraio, e al largo del Vasto1 si sarebbero riuniti con gli altri patrioti del Castel Nuovo, dell’Ovo e di Palazzo, ed iti sarebbero uniti alla spedizione d’inchiodare i cannoni alla Villa. Questa riunione far si dovea al punto di mezzanotte. Uscirono i patrioti da’ due castelli e da Palazzo, e per la strada di Chiaia s’incamminarono al luogo convenuto. Arrivati al ponte di Chiaia, un posto di calabresi gli die’ la voce del «Chi viva?». Essi risposero: — Il re. — La fazione gl’intimo l’«alto», e chiamò il capoposto per contare questa creduta pattuglia. Intrepido si avanza un patriota funzionante da sergente, con altri due funzionanti da soldati; un pari numero si avanza di calabresi: ma questi ultimi in men d’un baleno furono trucidati, e l’istessa sorte corsero gli altri, che sonnacchiosi stavansi al posto di guardia dentro la porteria del monistero di Sant’Ursula. Superato quest’incontro da’ patrioti, giunsero al luogo convenuto, ove in pari tempo arrivarono quegli discesi da Sant’Elmo con i francesi; ma, equivocatosi il «santo», vi fu tra di loro una fucilata, con la morte di vari di essi. Ma, riconosciutisi, giunsero al loro destino, inchiodarono i cannoni e ritiraronsi ne’ loro rispettivi asili.


A quanto io sappia, il Rapporto (non contando la traduzione del Barrère) non fu piú ristampato fino al 1836, nel quale anno apparve nel vi volume delle Opere del Lomonaco, pubblicate a Lugano dal Ruggia, insieme col Discorso inaugurale. Se ne ebbero poi le ristampe del Pomba, 1852, e del Lombardi, 1861, alle quali si è accennato. A proposito dell’ultima debbo avvertire che il D’Ayala commise qua e lá qualche arbitrio: p. e. corresse alcuni francesismi, comunissimi al tempo in cui il Lomonaco scriveva («travaglio», «rappresentazione», «Elisei», «deboscia», ecc.); attenuò in modo piú pudico l’accenno ai pregi fisici che bisognava possedere per dar nel genio a Maria Carolina; con piccoli

  1. Ossia il largo ov’era il palazzo del marchese del Vasto, ora via dei Mille.