Saggi critici/Le «Ricordanze» del Settembrini
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LE «RICORDANZE»
del Settembrini.
Il ’48 e il ’60 sono giá lontani, e quelli stessi che sopravvivono, non veggono giá piú quei tempi che a guisa di una storia antica come quella di Napoleone o di Robespierre. Si è fatto tanto cammino, che anche i principali attori non li comprendono piú e non li sentono. L’indirizzo delle opinioni è mutato, i bisogni sociali preoccupano tutti, una nuova generazione, che si dice positiva, c’incalza; e quando vogliamo cercare un rifugio in que’ bei tempi eroici, li troviamo vacillanti nella memoria, irrigiditi nel cuore. Mancata è quella poesia e non è sorta ancora la storia.
Queste Ricordanze non sono una storia. La storia è di lá da venire; e il predestinato storico, se vuole non solo comprendere ma sentire quei tempi, li cercherá nei documenti contemporanei, gazzette, polemiche, ricordi, storie. Tra questi documenti quello che gliene dará il sentimento piú vivo e piú sincero sono le Ricordanze di Luigi Settembrini. Ivi troverá un frammento, un episodio della sua futura istoria, ma tale, che gli sforza l’immaginazione, e lo gitta in quel passato, come fosse gli uomini vivi e presenti.
Queste pagine sono scritte giorno per giorno, a poca distanza, secondo le impressioni momentanee, e in momenti di concitazione geniale; sono un vero giornale della vita. Scritte da un uomo eroico, che, narrando sé stesso, piglia una viva partecipazione agli avvenimenti, attore e testimonio. La sua bonarietá, la sua semplicitá, la sua fede viva, i suoi affetti di padre e di marito, le stesse sue esagerazioni che non hanno fiele, e nascono da cuore amante, te lo rendono simpatico, ti ammaliano, e tu prendi interesse insieme per le cose e per la sua persona.
Luigi Settembrini fu innanzi tutto un patriota. Trovò nella sua famiglia le memorie del Novantanove e l’immagine piú fresca del Ventuno, carbonari, patriotti, martiri, oppressori, Borboni e austriaci. Rifece in sé suo padre, ebbe quegli amori e quegli odii, giovinetto ancora. Nell’età adulta, la coltura e l’ambiente lo ringagliardí in quell’indirizzo. Crebbe nemico di preti, di tiranni, e di stranieri, con un amore impaziente della unitá e indipendenza nazionale. Fece suo Dio la patria, e da quello presero norma e misura tutti i suoi sentimenti. Cosí si andò formando il suo carattere; cosí si preparava attore convinto e appassionato nel Quarantotto e nel Sessanta, continuando suo padre.
Si può dire che questa sia la storia più o meno simile di tutti gl’italiani colti e onesti in quell’epoca memorabile. Era il colore del tempo. Si leggeva in tutti i volti la ribellione, l’odio alla tirannide e allo straniero, l’Italia una e libera, non so che cupo e settario. Settembrini rassomigliava a molti; e molti rassomigliavano a Settembrini. Voglio dire che questo era il carattere del secolo, e se vogliamo intendere Settembrini, dobbiamo cercarlo in quello che gli era proprio.
Chi legge queste pagine si sente subito innanzi a un galantuomo. Un bel titolo, di cui si poterono allora gloriare Vittorio Emanuele e il marchese d’Azeglio. Oggi s’è fatto progresso, e se sei un galantuomo ti battezzano un bonomo, uno scemo, un uomo di buona fede; e i bricconi si vantano di canzonarti, come se non fosse maggior vergogna a loro, e confessione di bricconeria. Settembrini aveva un po’ aria di scemo, di bonomo; e se ne inquieta e se ne difende, e dice piú d’una volta che faceva lo scemo; come volesse dire: — Poteva parer cosí; ma non era; anzi... — . Si vede che quella sua aria di scemo gli dava noia un pochino.
Era un galantuomo, e vuol dire ch’era uomo sincero. La sinceritá è il pudore dell’uomo, come il pudore è la sincerità della donna. Sincera è la sua parola e il suo sentire e il suo pensiero; e dietro non c’è fine e non c’è interesse che si vergogni di comparire. Quest’assenza compiuta di fini e interessi personali, questa puritá lo innalza fra’ contemporanei. Vedete le Memorie del Montanelli. Ivi è una pretensione, una vanitá che vuole gonfiare la persona, e riesce al fine opposto. Settembrini non si accorge neppure di esser grande e di esser buono. Questo gli par cosa naturale. Ed era davvero in lui natura. La sua modestia non è virtú, è innocenza, una inconsapevolezza spensierata del suo valore. Se gli stranieri sparlano di Ferdinando secondo, si sente pungere. Se liberali impazienti mettono innanzi Murat, se ne sdegna. Se vogliono domandi grazia al re, sorride. Il suo Raffaele, la sua Giulia, la sua compagna lo inteneriscono, solo a nominarli. Non domandate i perché. Non li dice, perché non li sa, e non ci pensa, e gli pare che non potea essere che cosí, e che tutti farebbero a quel modo.
Di qui nasce l’infinita semplicitá e spontaneitá del suo dire, quasi fanciullesca ingenuitá. Rara è l’analisi. Piglia le cose cosí come gli si porgono a prima guardatura e a prima impressione, e le rende intere, con quel calore, e con quella luce che gli viene dall’anima. Ed è soddisfatto, non ci torna piú, non ci si ferma, non analizza, non accarezza, non ricama. Di questa maniera semplice e rapida era perduta la memoria. Settembrini la trova senza cercarla, e non la trova già nell’«aureo» Trecento, e non in questo o quello scrittore; la trova nella sua natura, nel suo modo di sentire e di concepire. Vero è che lo studio de’ trecentisti gli ha dato il materiale tecnico. Ma quella forma lí non è imitazione, non è scuola, è lui. E non si scrive a quel modo se non da uomo tutto impressione e non uso a riflettersi, a pensarvi su. Questo è quel fanciullesco e quasi primitivo, così caro ne’ trecentisti, e che in lui è la grazia della sua natura. Scarsa era la seconda vista, la riflessione, e usava chiamare trivella quell’approfondire e analizzare le cose; di che non sentiva bisogno. Suppliva con alcune qualitá geniali, concesse a pochi: intuizione pronta, sicuro buon senso, o buon senno come dice lui, rettitudine di gusto e di giudizio. Cosí tutto gli esce vivo e vero; vita di superficie, ma vita. Molti dotti getterebbero a mare le loro dottrine, pur d’avere quel secreto lí. Che ne dice il mio amico De Gubernatis?
Questo naturale eccellente era illuminato da un cotal mezzo riso che stava tra la bonomia e la canzonatura, ed era tutt’altro che di uomo scemo, come pareva a’ piú. Vero è che non conosceva l’individuo nel suo particolare, e perciò gli mancava la profonditá dell’odio o del disgusto; subiti sdegni placabili, frizzi, antipatie, erano i suoi modi; spesso un motto era una pittura.La sua bontá lo tirava a giudicare buono il primo che gli si offriva, e leggermente lo faceva suo familiare, anzi confidente. Di rado si pentí; perché quelli co’ quali aveva a fare, erano gli uomini piú eletti del paese. E, come in quell’uomo semplice e modesto non entrava invidia, e volentieri prendeva il secondo posto, il suo animo si apriva a’ più dolci affetti, all’ammirazione e all’amicizia. La sua moderazione nel dir male si volgeva in entusiasmo, quando parlava degli amici. Perciò molti gli furono affezionatissimi, nessuno gli fu nemico. Sentiamo che in quell’anima non c’era fiele.
Ma la conoscenza leggiera dell’individuo era in lui congiunta con la viva apprensione dell’uomo in genere, come era in Leopardi, osservatore originale della natura umana, inetto a giudicare dell’individuo. Anche Settembrini aveva un talento raro di osservazione, che gli faceva cogliere le parti fisiche e morali di un individuo, riferendole a questo o a quel tipo d’uomo, con vivacità d’artista, anzi che con severitá di storico. E in queste Ricordanze abbondano ritratti geniali, avvezzo a fare come il pittore, a porsi innanzi gl’individui come modelli, e a spassarcisi un poco. Questa disposizione di spirito si rivelò principalmente nell’ergastolo, dove traduceva Luciano e dipingeva compagni. L’individuo, guardato a quel modo di artista, non gli poteva ispirare altro che un’amabile indulgenza. Indi quel suo mezzo riso canzonatorio, che voleva dire: — Ti ho capito — ; non iscompagnato mai dalla bonomia. Gli sembrava un fare lucianesco, ed era il suo fare, quel suo ridere a mezzo, che gli errava perpetuamente tra le labbra, e che è spesso l’impronta di quell’uomo contemplativo che dicesi artista.
Vedete nell’ergastolo. Si spassa a fare ritratti. Dico «si spassa», perché ci mette un piacere di artista, anche a dipingere ladri e omicidi. E come ne afferra bene i tratti caratteristici! con parole impressionate, pregne di caricatura, di sarcasmo, d’ironia, di disgusto. Il Nasone (un contadino abruzzese) è
Pure, il disgusto non è tale che gli vieti quell’allegria artistica che viene dalla caricatura. Si mette innanzi i suoi compagni di stanza, e li squadra con quel cotal riso, e foggia de’ tipi. Spesso li coglie nel parlare, e con vivezza napoletana li contraffá, e li fa parlare con le loro frasi e con i loro modi e gesti e intonazioni, sí che è un gusto a sentirli, e dimentichi l’ergastolo come lo dimenticava dipingendo o traducendo il povero Luigi. Il ritorno era più crudele, e gridava:
La morte fa paura; e a me fa paura la vita, e troverei un po’ di quiete nel nulla donde sono uscito, e dove ritornerò... Io fo come Giobbe, mi siedo sul mio letamaio.
E, dopo di essersi sfogato, conchiude: «Ma seguitiamo a dipingere i compagni della mia cella». Con questi intermezzi ripigliava i ritratti, e ci sentiva piacere, e ci gustava l’obblio. Ecco «il giudice», un contadino abruzzese, un allegro matto, «secco, asciutto, senza barba, con l’aria, il contegno, il sussiego, la cravatta, e le labbra strette del giudice criminale Scudieri mio parente». Ecco «l’omicciattolino di civile condizione,... bruno, acceso, butterato, facile ad accendersi come un solfanello, pronto come una vespa». E quel «bestione, rosso di peli, con tre denti in bocca»! Ma il prediletto è Pasquale, «il calzolaio», giovanotto pervertito dallo zio e dai compagni, innamorato di Lucia, ladro, omicida, «camorrista, diede ed ebbe di brave coltellate», e ora mansuefatto conosce i suoi errori e li piange. Il ritratto è tirato giú d’un fiato, e conchiuso con questo tratto di bonomia:
Mentre scrivo... egli mi sta vicino, seduto innanzi al suo bischetto, e tira lo spago; né potrebbe mai immaginare che io scrivo di lui, e della sua bella Lucia.
Come ci si vede il piacere dell’artista e del brav’omo! Pure, quel Pasquale gli martellava il cervello per tutto il giorno; e «quando cominciavo a dormire, ei mi svegliava con lo spietato martello che mi ammaccava e mi lacerava tutte le membra del corpo». Fu un refrigerio quando, attenuati i rigori, ebbe compagnia di soli politici. E venne il «caro Gennarino», col «signor zio», «un galantuomo di Cosenza», e il «festevole» Bellantonio, che Settembrini fece suo siniscalco:
Io sono Napoleone di Reggio, venite a Reggio, dimandate chi è Napoleone: e tutti vi risponderanno: — È Francesco Bellantonio... — . Una sera la signora e la servetta sole sole passeggiavano, io le vedo, mi salta il pensiero di «rubarmi la criata», me l’afferro tra le braccia, che pareva una piuma, e scappo, e me ne vo dietro certi scogli. Poi mi ritirai al forno, e mi posi a dormire sopra una tavola. Stava facendo un sonno saporitissimo, quando mi sento rompere le ossa: apro gli occhi e vedo la signora che con una pala del forno mi menava forte, ed io strillavo più forte per farle capire che mi facea male assai... — . Sapete chi è Bellantonio? È più di Poerio, che fu condannato a ventiquattro anni, e Bellantonio all’ergastolo.
Giorni fa gli capitarono fra mani non so come le lettere di Annibal Caro: ed egli dopo di aver letto un pezzo, venne da me, e mostrandomi il libro, ed a stenti compitando la parola «conciossiacosacché»; mi dimandò: — Che significa questa santa diavola di parola? — . Io non sapendo che rispondergli per farglielo capire, me ne uscii pel rotto della cuffia: — È una cosa simile al tuo santo diavolo — .
Queste memorie non parlano quasi di altro che di carceri e di carcerati. Sono i ricordi del prigioniero. C’è la Vicaria, e Santa Maria Apparente, e San Francesco, e Santo Stefano. E sarebbe insopportabile, se il prigioniero non avesse questa divina libertá dello spirito, che ci sforza e ci tira e ci distrae appresso a lui, e talora ci fa dimenticare le pene, e talora anche ci rallegra. Questo Bellantonio è un capolavoro di brio comico; e si fa voler bene; e Settembrini conchiude: «Povero Francesco! quanta pena mi fa a vederlo nell’ergastolo».
Le narrazioni e i dialoghi sono cose vive come i ritratti Ridotto con soli politici, racconta la loro vita quotidiana con lepore e con brio. Leggete quella parte che comincia: «L’ergastolo è la casa dei sogni». Con acutezza è notata l’influenza di quella vita ergastolana sui costumi e sui caratteri. Nasce una specie di uomo nuovo, l’ergastolano. E la novitá gli è come un solletico all’ immaginazione, lo rallegra nella pena.
Si ricomincia parlare, passeggiare (passeggiare mo’, si passeggia come il leone nella gabbia, si danno sei o sette passi e si dá la volta)... Com’è gustosa questa parentesi! Lo vedi con quel suo risolino bonario e canzonatorio nella pena! La poesia operava in lui quello che il carattere nel signor Michele Aletta, un vecchietto di sessantadue anni, arzillo e allegro. Udite questo dialoghetto:
— Io voglio uscire, debbo uscire, ed uscirò. — Non usciremo, don Michele. — Ed io vi dico che usciremo subito. — Usciremo morti. — No, vivi, per Dio: mi han veduto nel mio paese due volte con la bandiera in mano, nel 1821 e nel 1848; mi rivedranno cosí la terza volta, e diranno come dissero: costui non muore piú. — Sí, ne usciremo dopo trent’anni. — No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a prenderci. Il mondo cangia in un momento.
E Settembrini conchiude: «Egli non pensa, ma spera. Che disgrazia è pensare!». In quella vita tutta artistica, evocata e abbellita dall’immaginazione, s’insinua un filo di mestizia. Lo svago è grande, ma con frequenti ritorni sopra di sé. E inchina la fronte e pensa. «Che disgrazia è pensare!»
E Settembrini aveva questa disgrazia. Non era solo un artista. Ci era in lui l’uomo. C’era fede e sentimento.
Credeva in Dio, e più nella patria e nella libertà. Era la fede del secolo. Ma ne’ più era un credere ozioso e pigro. In lui era la sua vita. Giovane, prese moglie; aveva in vista la famiglia, era avido di affetti domestici, aveva per concorso una cattedra; tutto lo consigliava a starsi quieto. Ma che? Aveva nel cervello il catechismo di quel capo ameno di Musolino, battezzato catechismo di Mazzini, e cercava proseliti, e cospirava. Aveva fede di santo e di martire, disposto piú a soffrire fortemente che a vincere; gli mancavano tutte le qualitá che assicurano il buon successo. Cospiratore inabile, per poco discernimento degli uomini e per soverchia buona fede, cadde presto nelle unghie della polizia, tirandosi appresso i suoi amici.
La descrizione di quella prima prigionia è piena di brio e di lazzi, tutti giovani, spensierati, confidenti: si rivela già il suo talento artistico. Venuto il Quarantotto, non si fece innanzi a domandare il premio; rimase un «a parte», con la testa a posto; quando, in quel ribollimento di cupidigie e di passioni, la girava a’ più savi. Concesso appena lo Statuto, giá si voleva svolgerlo; e, tra svolgere e non svolgere, si venne alle fucilate.
Per quale idea s’è venuto a questo? — grida Settembrini — Pel giuramento, se si doveva svolgere o non svolgere lo Statuto. O avvocati, anzi «paglietti», voi meritate la servitú!.
Se Luigi fosse stato uomo di azione, scaldato da una buona ambizione, avrebbe preso i primi posti nel governo, lui autore della Protesta e popolarissimo. Ma era piú vago di vedere che di fare, e, contento di vedere le cose riuscite a bene, dice con semplicitá:
Tornai in casa mia;... tornai a la mia professione dell’insegnamento, tornai a la mia vita consueta lontano dalle adunanze e dai rumori, e raramente uscivo di sera.
Ecco perchè serbava la testa fredda, vedeva giusto e lungi, vedeva con chiarezza grande, tra quello svolgere e non svolgere, la quistione italiana. Fu un capo-divisione per due mesi, e dice:
In quei giorni ebbi un continuo capogiro; da professore diventato segretario, non mi raccapezzavo piú.
Vedeva la via torta, l’anarchia brutta, tutti quei «ministri avvocati, che, chiacchierando sempre di legalitá e di libertá, e avendo fede solo nelle chiacchiere, facevano andare ogni cosa a rotoli»; vedeva, e non era udito, e tornava a casa, senza nessuna influenza sull’andamento pubblico. Nella fatale notte del i4 maggio, quando si fiutava giá barricate e fucilate, dice:
Ero stanco di lavoro, di noia, di disgusto; mi sentivo un brivido di febbre; andai a casa, mi misi a letto, e mi addormentai. Si disputava sulla formola del giuramento, e quel capo scarico diceva tra sé:
Si verrá al partito più semplice, non giurare, e finiranno tutte queste voci.
Luigi, con quella fede e con quel buon senso, non fu che spettatore. Ma quale spettatore! come narra, come dipinge bene cose e uomini, con quale magia ci rimena avanti vivi que’ tempi! e come giuste, come gagliarde sono le impressioni! Sentite questa:
Tutti i ministri erano oppressi dalle petulanti e superbe dimande di uomini che parevano ubbriachi, e volevano essere uditi per forza, e credevano la libertá un banchetto a cui ciascuno dovesse sedere e farsi una scorpacciata. Salivano tutte le scale, strepitavano in tutte le case; era un’anarchia brutta.
Intanto la plebe diceva: — E se non si lavora e noi stiamo digiuni, che libertà è questa? Prima il re era uno e mangiava per uno; ora son mille e mangiano per mille. Bisogna che pensiamo ai fatti nostri, anche noi — .
Stavano cagneschi contro tutti i liberali; ma come conoscerli? dal vestito, e li chiamarono i nazionali.
Il «colore» era diventato il passaporto agli uffici. — Voi parlate sempre di colore, e non mai di sapore, — gridava Settembrini. E quando sentí la prima volta dalla plebe gridare: — Viva l’Italia!, — dice:
Quella parola «Italia», che prima era profferita da pochi ed in segreto, quella parola sentita da pochissimi, e che era stata l’ultima e sacra parola profferita da tanti generosi che morirono, udita allora profferire e gridare dal popolo mi faceva sentire un brivido per la schiena, pei visceri, pel petto, e mi sforzava alle lagrime.
Questo era l’uomo nato a patire piú che a fare, nato al martirio piú che alla vittoria, santo tra’ santi, di una fede tanto più ardente quanto più pura di ogni interesse personale. Andate le cose a male, i gridacchiatori, i piazzaiuoli si dileguarono, e chi s’è visto, s’è visto. Lui che stava a casa, si messe a cospirare di nuovo sotto al naso del Borbone vittorioso; lá sul Vomero, eravamo in cinque o sei, d’ogni risma. Fu la prima volta e sola che fui in convegni segreti: la natura non mi tira alle sette. Mi parve bello il pericolo, quando tutti si nascondevano. Guardavo lui sorridente, che trovava tutto facile. Si facevano i più matti delirii: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco. Mignogna era il più matto. E si finí con la bomba Faucitano. Questa era la setta dell’Unitá Italiana, che fece tanti martiri. Settembrini ci capitò per il primo, ed era naturale. Io lo chiamavo il facilone. Quando ci presentava un nuovo, e diceva: — Questi è dei nostri — , mi venivano i brividi. Uno di questi nostri mi si messe attorno, chiedendo quattrini; altrimenti, ehm! E non si saziava mai. E lo chiamavano il «cavaliere». Un dí gli volsi le spalle e avevo una gran paura non mi denunziasse. Ma non fiatò. E forse lo teneva peggiore che non era. Ma cosa c’entro io qui? Parliamo di Settembrini, il povero martire che ricominciò la via delle carceri. E ora ricorda e descrive, e dipinge, con quel viso sorridente.
Tanta serietá di fede era in lui accompagnata con molta vivacitá di sentire. Aveva la fede ed il sentimento degli spiriti religiosi. Leggete la sua lettera a Gigia, quando era in cappella. Quando il suo animo è al di fuori, ha il pennello in mano, e sorride. Ma quando torna in sé! quando si sente solo! quando non ne può proprio più! Hai innanzi i varii moti di quella ricca vita interiore. Ora è malinconia; ora è sdegno, e disdegno; ora è disperazione; ora cade in fantasia, e ritorna l’artista. Gigia, Raffaele, Giulia, gli uccelli, la marina, la sua casa di Posilipo, i giardini, il cielo, la tomba di Virgilio, tutto gli torna innanzi, tutto esce vivo dalla sua immaginazione.
Soprattutto quel Raffaele non lo lascia piú; è il più caro sogno tra i suoi sogni.
Sono stato lungamente a riguardare questo spazio di mare, quest’isoletta vicina, e quelle lontane, quei battelli dove vedevo muovere uomini, quel camposanto dove dormono per stanchezza di dolori alcuni disgraziati compagni, e le onde dell’«infecondo mare», e il cielo dipinto dalla benedetta luce del sole, e sentiva venirmi sul volto, entrarmi nei polmoni un filo d’aura vitale che mi ha ristorato le forze, mi ha messo nell’animo quella dolce malinconia che spesso ho sentito al suono d’uno strumento musicale. Mentre cosí stavo, io sognavo ad occhi aperti, e mi veniva a mente il mio caro figliuolo che ora va scorrendo i mari, e che non so dove ora sia;... e mi ricordavo quando lo vidi e lo benedissi l’ultima volta il 18 dicembre i85i prima ch’egli partisse per l’Inghilterra. Chi sa che fa ora il povero figliuol mio, che patisce e quanto patisce! chi sa se potrò più rivederlo! Egli ha giá diciotto anni; oh! quanto vorrei vederlo!... Mentre cosí pensavo e stavo per più profondarmi in questo doloroso pensiero, mi sono sentito una mano su la spalla, e Gennarino mi ha detto: — Che guardi? — Il mare ed il cielo, — ho risposto.
Questo non era «doloroso pensiero», come dice lui, ma tenera malinconia, madre de’ sogni. I dolorosi pensieri ci sono pur troppo. Si sente immalvagire tra malvagi, perde l’immagine della virtú e della bellezza. Poi compatisce a quei malvagi, e se la piglia con quelli che non li educarono, e fa sermoni. Poi viene la noia, la stizza.
Lo studio mi disgusta, il far niente mi pesa, il conversare coi compagni mi dispiace, e non vorrei udirli pure, non vorrei vederli; abborrisco tutti e me stesso, e tutto quello che è, che fu, che sará. Da prima io ero un uomo di buona pasta, ora sono di pasta di cantaridi: per nulla mi adiro, vo’ sulle furie. Gli si guasta il carattere, gli si inacerba il cuore, gli si oscura l’intelletto.
Io non sono piú uomo, ma la centesima parte di un uomo. il corpo è grave e stanco, nel capo non ho più lume ma una tenebra oscurissima, nel cuore molti squarci profondi e dolorosi mi fanno male assai assai.
Non son chi fui: di me perì gran parte; Questo che avanza è sol languore e pianto. |
Finisce con due versi del Petrarca! Ricominciano le nenie, e finisce con una terzina di Dante! E conclude: — Oh, vorrei non essere nato uomo! — .
C’era in lui una vena letteraria che lo assiste consolatrice nelle maggiori strette. Eccolo fantasticare sugli uomini nel più vivo del suo disdegno.
Siamo tutti una mistura sozza di moltissima sciocchezza, di alquanta malizia, e di poche goccioline di senno... Che cosa è il vero? L’ vero è quel punto, quel corpo, che non si sa se sia scuro o luminoso, mobile o immobile, se esista o non esista, intorno al quale dicono gli astronomi che gira il sole del nostro sistema planetario, e glì altri soli. Io l’ho cercato, e non l’ho trovato: io l’ho amato e son rimasto deluso e addolorato. Foss’egli il dolore? foss’egli la morte? Oh! dovrò saperlo una volta. Che cosa ho scritto? Io nol so, né voglio rileggerlo.
C’è del Leopardi. Sono fantasie ch’egli non prende sul serio, come Leopardi le sue. Sono fantasie da cui germogliano versi. Sicuro. Sente morire la sua mente, e fantastica e le fa il canto funebre: ciò che prova che la mente era piú viva che mai, mentr’egli grida: — «É morta, è morta» — . Sembra che quella fantasia sul Vero lo abbia fissato, e che gli sia parsa bella e nuova, e la continua in verso. Ricorda, quando l’anima e la mente giunsero nel sole, e bevvero il Vero e il Bello a due vive fontane:
Donde talor piovon spruzzi in terra. |
La spada del dolore È il solo Ver che esiste in mezzo al niente. |
Quanto riso mi move Questo genere umano! |
O mia mente perduta, dove sei? Salvami da costei. |
Quando leggo Silvio Pellico, talora mi casca il libro, per quella monotonia di carcere e di pazienza. Ma qui leggi e leggi, divori lo spazio. Bene intoppi qua e lá. Tutto non è uguale; ora senti la fretta, ora la negligenza, ora non so che soverchio e dottrinale; qui ti pare che qualche cosa manchi; qui senti che la corda non suona bene; qui il letterato mi guasta l’uomo. E che importa? Leggi e leggi, divori lo spazio. Ci è una malia per entro a queste pagine, che ti rende gli oggetti vivi, mobili, rapidi, e danzano e ti circondano, e non ti lasciano requie. E chiudi il libro, e quelli stanno lí, e non li puoi mandar via, e si fissano, prendono posto nella tua immaginazione. Aneddoti, fatterelli, motti, arguzie popolari, il plebeo nella reggia, l’entusiasmo nella plebe, la confusione delle lingue, le quarantottate, dolori e gioie, ingenuitá e malizie, ritratti, fantasie, sermoni, illusioni, disperazioni, tutto questo non è stato, è oggi, anzi proprio ora: cosí fresco vien fuori.
— Ma cosa ci s’impara? — dice uno. — Non ci è sugo, — dice un altro. — Fede, sentimento, sta bene; ma la vista è corta. Fantasie, benissimo; ma l’intelligenza, dov’è dov’è la trivella? In veritá, prese obbiettivamente, queste Memorie non hanno grande importanza per lo storico e per l’uomo di stato. —
Cosí dicono i critici oggettivi, e mi rassomigliano qualcuno che mi diceva candidamente: — Che sugo c’è nella poesia? cosa ci s’impara? — .
[Come prefazione alle Ricordanze, Napoli, Morano, i879.]