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litá, una seconda natura; e diventa carattere e può resistere all’ambiente.

Or vediamo un poco questa buona Gervasia cosa era stata e che cosa poteva essere.

Gervasia era nata in Plassans, figlia di padre vagabondo ed ubbriaco e di madre che digeriva le mazzate del marito ubbriaco, bevendo anisetta e dandone pure un goccetto a lei: e lei, tra le mazzate e l’anisetta, viveva per le pubbliche vie facendo la lavandaia.

A quattordici anni si lasciò rapire da quel bel mobile, e quando ebbero ben bene svaligiato le due famiglie, pigliarono la via di Parigi. Ha questa giovane una personalitá, ha quella energia interiore che si chiama forza di resistenza e che fa sí che non solo noi non ci lasciamo assorbire, ma siamo potenti ad assorbire gli altri? No.

La sua nascita, la sua educazione, tutto annunzia un difetto di energia interiore. — «Je me laisse faire», — dice. Povera giovane! Lui prima la tradisce, poi il marito diviene un ubbriaco e la bastona, e poi in mezzo a quell’ambiente è come una fogliolina trasportata dalla corrente. Tirata in qua e in lá, non ha volontá, ha velleitá: ci si vede sul viso e nello sguardo l’indecisione, ciò che mostra la vittoria possibile all’avversario; e vittoria possibile è vittoria sicura.

Cosi, di caduta in caduta, di sconfítta in sconfitta, lentamente va a finire nell’ultima miseria, nell’ultima degradazione.

Ecco il concetto dell’autore. Voi mi direte: — E questo è arte? Voi mi demolite l’umanitá, voi mi create un ambiente ove ogni idealitá è distrutta, e qui c’è arte? — .

Dunque, vediamo questo racconto dirimpetto all’arte.

Perché arte ci sia, è necessario che la cosa che si vuole rappresentare abbia una ripercussione nel nostro cervello. Le cose ottuse non hanno ripercussione, e perciò non hanno interesse; vivono per sé, non vivono per noi, e l’arte siamo noi. Quando la cosa fa impressione in noi, produce nel nostro petto sensazioni, osservazioni, emozioni; e noi riproduciamo non solo la vita sua, ma in essa una parte della nostra vita.