Saggi critici/«L'Ebreo di Verona» del padre Bresciani
Questo testo è completo. |
◄ | «Beatrice Cenci». Storia del secolo XVI, di F.D. Guerrazzi | «Satana e le Grazie». Leggenda di Giovanni Prati | ► |
[ 4 ]
«L’EBREO DI VERONA»
del padre Bresciani1.
Vedi lá un accorrer di popolo, un interrogarsi ansioso, e gruppi e capannelli per le vie, e voci concitate, minacce, bestemmie, invettive, applausi, un baccano, un finimondo, «un inferno», come direbbe il padre Bresciani. Che è questo? È la rivoluzione, ti dice l’uom della plebe. In uno di quei giorni tumultuosi, che non si possono dimenticare, io mi avvenni in un popolano che gridava a piena gola: — Viva Gioberti! — E chi è questo Gioberti? — dimandai io, soffermandomi d’improvviso. — Gioberti? — ripetè il buon uomo, spalancando tanto di occhi e fermandosi a sua volta. — Eh! è colui che ha fatto tutto questo, — soggiunse ammiccando e chinandomisi all’orecchio, con quel timido atto di servitú non ancora potuto smettere. E cosí è. L’uomo della plebe non va di lá dei suoi occhi e dei suoi orecchi; e quando chiedi una spiegazione di quello che pare di fuori, ignaro com’è delle forze naturali e spirituali che muovono il mondo, e vedendo sotto di ogni cosa una mano d’uomo, di cui si fa un Iddio, il popolano ti dirá: — Tutto questo lo ha fatto’ Gioberti. — Chi è che tuona? — È Giove, — rispondevano gli antichi, che avevano provveduto il loro Dio di una fucina e di un armaiuolo. Concetto pagano, che la plebe cattolica ha ancora del nostro Dio spirituale, il quale, a sentirla, s’intromette curiosamente nelle nostre minime faccende, spesso per guastarle e mandarle a male. Quell’uomo della plebe è il padre Bresciani, quel popolano di Napoli è il padre Bresciani. La rivoluzione egli l’ha studiata per le piazze, ne’ trivii, nei caffè, nelle gazzette, nelle sale degli oziosi. E chi fa la rivoluzione? — È Mazzini, sono le societá segrete che hanno fatto tutto questo, — ti risponde il padre Bresciani con la stessa sapienza di quel tale, salvo che egli denunzia a suon di tromba pe’ quattro canti d’Europa quello che l’onesto popolano mi dicea a voce bassa e guardandosi d’attorno inquieto.
Poco poi la reazione si vestiva de’ panni della rivoluzione, e la scimmieggiava. Simulò quegli assembramenti, quelle grida, quell’entusiasmo; noi avemmo le dimostrazioni, le petizioni ed i battimano, e l’avresti detta proprio dessa, se, cessata la paura, non vi avesse coraggiosamente aggiunto di suo i patiboli, gli ergastoli e l’Ebreo di Verona. Cosi un pazzo d’imperatore si tenne un bel di Alessandro il Grande bello e redivivo, perché vestiva alla sua foggia; ma sotto il mutato pelo il lupo mostrava la sua natura addentando ed inferocendo. — Che cosa è la reazione? — Grida, crocchi, tumulti, un misto di — Viva! — e di — Muoia! — con un coro incitatore di gesuiti, di sgherri e di soldati che battono le mani, — risponde l’uom della plebe. — E chi ha fatto la reazione? — La camarilla, — risponde sentenziosamente qualche dabben popolano. Ma — alto lá! — interrompe il padre Bresciani. Come può egli essere che tutte le camarille del mondo generino una resistenza si generale, una resistenza europea? La reazione l’ha fatta la religione, che vive ancora nel cuore de’ molti e che voi volevate schiantare. L’ha fatta la fede a’ príncipi e la reverenza ai trattati, che voi non siete potuti riuscire a sbarbicare dall’animo delle moltitudini. L’ha fatta la vera libertá, che, a marcio dispetto di voi libertini o fautori di falsa libertá, ora regna e governa, con quella soddisfazione e felicitá de’ popoli che tutti sanno. — Sta bene. E noi risponderemo a nostra volta: — Una rivoluzione si generale, una rivoluzione europea non l’hanno fatta le societá segrete, le quali sarebbero spente da un pezzo, dopo tanta rabbia di persecuzione, se non avessero la loro ragion d’essere nella natura delle cose. La rivoluzione l’ha fatta la decrepitezza delle vostre istituzioni rimase pura forma, da cui è partito lo spirito. L’ha fatta la liberta, tanto possente sugli animi, che voi, maledicendo alla cosa, vi appropriate la parola e chiamate voi liberali, gratificando noi del titolo di libertini. L’ha fatta la coscienza ridesta di un popolo che voi vi siete forzati di scindere senza poter cancellare il sentimento della sua unitá: sono le membra straziate di un corpo non ancora morto, che sentono ancora il dolore e tendono a ricongiungersi. Ma non è questa la vostra opinione. La rivoluzione l’ha fatta, secondo che pare a voi, l’irreligione, il dispregio de’ príncipi e de’ trattati, la falsa libertá; ella non ha in sé niente di positivo: è una negazione come scienza, un’anarchia come fatto.
Sia pure. Io non voglio discutere con voi né della veritá de’ vostri principii, né della veritá de’ vostri fatti: è cosa giudicata da un pezzo: il vostro racconto è famoso per l’impudenza e sciocchezza delle menzogne; quando voi v’interrompete a volta a volta, gridando al lettore: — questa non è poesia, ma storia: credetemi; io dico la veritá; — mi avete proprio l’aria del bugiardo, che ti sfodera ad ogni tratto un giuramento. Io dunque non vi dirò che il vostro libro è una cattiv’azione, una vile azione; non voglio considerare in voi né l’uomo religioso, né il cittadino, né l’uomo dabbene; considero lo scrittore. Sia la reazione, sia la rivoluzione quello che voi pretendete: in che modo me le avete rappresentate? —
Chi ha fatto la reazione? La religione, la fedeltá, la vera libertá. Con questi nobilissimi fattori si possono bene accompagnare gl’interessi e le passioni; poiché, avendosi a fare con uomini, non vi è partito tanto puro, che possa cansare affatto questa ignobile mescolanza. Ma il Bresciani, scrittore classico, intende a fare un ritratto tipico, di una perfezione ideale. Niente nella reazione esser dee di terreno: la è cosa tutta celeste. Da banda dunque gl’interessi, gl’intrighi, le calunnie, la superstizione, la ferocia, l’ignoranza: sono qualitá diaboliche che non si convengono agli amici di Dio. E se talora essi sdrucciolano in qualche atto poco scusabile, ponete ben mente e troverete che la colpa è degli avversari. Se i tedeschi disertarono Vicenza, la colpa, osserva giudiziosamente il Bresciani, non fu degl’italiani, che ebbero l’audacia di contenderla alle loro armi? Commisero atti non credibili d’immanitá in Castelnuovo; ma perché Agostino Noaro vi si chiuse entro e vi fece tant’arrabbiata difesa? Di che incolpare quei buoni tedeschi, i quali in mezzo a tanto sangue e tante fiamme, fuggita una capretta saltando il fosso, la portano in fretta fuori della battaglia, e ciascuno a carezzarla e darle dell’erba a mangiare, e dire: — Oh povera bestiolina! — Tanta compassione delle bestie, pensate degli uomini! Di che accagionare gl’intemerati svizzeri, che trucidavano i congiurati, «perseguendoli di camera in camera, di gabinetto in gabinetto»? Questi congiurati che ebbero la temeritá di lor contrastare, che erano infine? un branco di «facinorosi» e di «mariuoli». Uccisero, è vero, la gentil giovinetta Costanza, figliuola del Vasaturo: ma poi «sollevarono l’infelice di terra, posaronla sopra un letto, la composero sui guanciali», e piangevano quei buoni svizzeri! Eh, mio Dio! e perché dunque i congiurati chiudevano loro le porte sul viso, e li ponevano cosí nella dura nenecessitá di trarre alla ventura e di colpire uomini e donne? Vostra colpa, messeri. — Egregiamente, padre Bresciani; voi sapete ben giustificare; e soprattutto voi sapete ben tacere; ve ne fo le mie congratulazioni: non vi manca malizia. Voi che ficcate il naso in tutt’i caffè ed in tutt’i ritrovi, quando si tratta di libertini, non vi attentate mai di gittare un’occhiata curiosa nella reggia di Napoli, nel Vaticano, nel congresso di Gaeta. Voi avete saputo ben tacere. Il vostro partito è incolpevole; possiam gridare in coro: Sanctus, sanctus, sanctus!
Poiché avete purgata la reazione di ogni parte terrestre, bisogna ora soffiarvi un alito celeste. Ma qui non basta piú il tacere: mano alla penna! Religione, fedeltá, vera libertá. Voi avete giá i vostri personaggi dinanzi alla fantasia. Scegliete. Pio IX, per esempio, o il piissimo Ferdinando II può essere il campione della fede, la vostra croata Olga può essere un tipo di devota sudditanza, ed esemplare della vera libertá Orioli. Ma noi ci eravamo dimenticati il meglio, e siamo stati poco sagaci. Della fedeltá ai principi dite bene per le condizioni de’ tempi qua e colá alcuna cosa in astratto; ma non ce ne date alcuna rappresentazione, forse perché questa virtú in certi casi non può convenirvi. La vera libertá è una sciarada che voi proponete a’ vostri lettori, e metto pegno che nessuno giungerá a indovinarla. È forse quella che godevano i romani sotto il pontificato di Gregorio che voi ci vantate, principe di cosí miti sensi, che avrebbe mandato in America i sediziosi da tanti anni seppelliti nelle sue orribili carceri, se la morte non avesse impedita, ohimè! tanta clemenza? O è quella che Odilon Barrot prometteva a Roma col magnanimo aiuto dei francesi a suon di bombe e di cannoni, e di cui oggi ancora si veggono i dolcissimi frutti? O forse è quella che un commissario di polizia, come in Napoli si chiama siffatta gente, spiegava paternamente ad un povero giovane ignorante capitatogli nelle unghie? «Che amor di patria! che Italia! che libertá mi vai tu predicando? Non mi far piú sentire queste brutte parole. La vera libertá è quella di mangiare, bere, dormire e qualche altra cosa.» Diciamo la veritá. La libertá per il padre Bresciani è una parola d’occasione, della quale è costretto a valersi temporaneamente, insino a che il due dicembre conceda vi si possa sostituire la parola piú simpatica di autoritá. Non della fedeltá, non della vera libertá è qui alcuna rappresentazione. Resta la religione. Qui veramente non gli manca la buona intenzione, ma la fede e l’ingegno.
La fede schietta e natia, la semplicitá, l’unzione, di cui un’immagine sf amabile ci resta negli scritti dei trecentisti, oggi è impossibile. Leggi i Fioretti di San Francesco e il Prato Spirituale, e tu ti senti tentato di dare un bacio al candido narratore, come si fa con un fanciullo, che ti conta con la piú ingenua sicurezza le piú sperticate cose del mondo: egli non sa concepire neppure la possibilitá del dubbio: il maestro, il papá. il confessore, la nutrice è il suo papa infallibile. Beata etá! Ma il padre Bresciani non può parlar di pater e ave senza che involontariamente non gli comparisca innanzi alla fantasia il ghigno di qualche insolente che gli dá la baia. Questa turba la sua immaginativa, preoccupa il suo spirito, lo tira pei capelli dalle contemplazioni celesti in mezzo alla nostra prosa, si che egli rinvia a quel maledetto la sua baia, e disputa, e contende, e si arrovella, e gli dá del settario, del ladro e dell’assassino. Curioso stato in cui si trova l’animo del padre Bresciani! — Vanne di qua, maledetto: tu sei un settario. — E tu un gesuita. — Vanne di qua, importuno: tu sei un ladro. — E tu un gesuita. — Vanne di qua, ostinato: tu sei un assassino. — E tu un gesuita.— Padre Bresciani, la tua anima non è serena, la tua fede non è pura. Tu non puoi aprire il breviario, recitare un pater, pensare a Dio, che quel demonio del dubbio co’ suoi cachinni non ti tiri a sé e non ti dica: — Disputiamo. — Si fe’ sparger voce nella plebe, che la Madonna Santissima, capo supremo, come ognun sa, dell’esercito napoletano, sia stata veduta il 15 maggio innanzi innanzi agli svizzeri, armata di spada e lancia, che sbarattava, sgominava, annichilava i ribelli. Un trecentista avrebbe immaginate, anzi vedute legioni di angeli togliere il vedere ai liberali ed accompagnare Pio IX trionfante in Gaeta. Il padre Bresciani appena appena pone in iscena un arcangelo che legge nell’avvenire il ritorno del gran Pio, ma questo di volo, con timidezza; è l’ombra terribile di Banco trasmutatasi nella comica ombra di Nino sotto la timida penna del Voltaire. Che farci? Il Bresciani fa ridere, perché non può celare il timore di far ridere; è un povero studente che entra per la prima volta in una sala di eleganti, con una gran paura addosso che i vicini si susurrino all’orecchio: — Ecco un provinciale! — ed entra col passo avviluppato, tutto impaccio ne’ movimenti, gli occhi incerti, turbato il volto: la sua paura manifesta appunto quello che vorrebbe nascondere. Il padre Bresciani qualifica tutti quasi i liberali di settarii, e tutti quasi i settarii di assassini. Eppure non teme egli, no, il pugnale del settario, egli non vi crede; teme il suo riso: è l’Europa liberale che lo sgomenta. E tu lo vedi procedere con cautele oratorie, temperar questa frase, cancellare quell’altra, timido, sospettoso, con sempre innanzi a sé quel formidabile spettro e quei sonori cachinni. Se egli avesse avuto un pochino solo della fede e dell’ingegno del Manzoni, sarebbe stato ben altrimenti ardito. Il Manzoni può pronunciare a voce alta i nomi del padre Cristoforo, del padre Felice, di Federigo Borromeo, può pronunziarli anche innanzi al Voltaire, sicuro di non far mai ridere: anzi egli ha sempre a fior di labbra un cotal suo risolino, che lo tiene al di sopra del lettore. E perché ne’ Promessi Sposi induce rispetto ed ammirazione quello che fa stomaco nell’Ebreo di Verona? Perché la religione per il Manzoni non è solo vuota forma, ma sostanza, spirito di caritá e d’amore; non è credenza astratta e senza esame, ma è amore operoso e quasi passione, vita militante, quotidiano e magnanimo olocausto di sé al bene de’ prossimi. Perché i suoi personaggi non sono i divoti del papa che gridano: — Volemo er Papa, volemo; — e se ne stanno rannicchiati o scappano per le vie gridando: — Madonna Santissima! — Non sono Bartolo, Luisella, Alisa, creature volgari, cacciate in mezzo alla rivoluzione per tremare, imprecare, chiacchierare, guaiolare, assordarci l’orecchio di lamentazioni, e che cessano di annoiare e di annoiarsi quando prendono la nobile risoluzione del fuge rumores, e vanno allegramente diportandosi pe’ golfi di Napoli e di Salerno; non è Pio IX, le cui magnanime geste sono una visita alla Basilica Lateranense ed al Collegio romano, e la famosa fuga sotto la protezione dell’Arcangelo e di madama Spaur, con un’intramessa di orazioni e di picchiate di petto. Che hanno di comune queste sconciature, questi caratteri vuoti ed oziosi con le figure eroiche del padre Cristoforo e del Cardinal Borromeo; con quella viva fede, che può render sublime anche una donnicciuola, anche Lucia? Il Manzoni non fa un libello politico, ma un’opera di coscienza; non è costretto a coprir questo, a palliar quest’altro; non è costretto ad intromettere a quando a quando le parole «libertá», «patria», «Italia», come una specie di passaporto per dar luogo a tutto il resto. La religione ridotta a vacua forma cadde sotto il sarcasmo e l’ironia del secolo passato; il Manzoni, restituendo a quelle forme lo spirito ed il significato, la ritornò nella sua prisca dignitá e venerazione; voi la rigettate, padre Bresciani, in pieno secolo decimottavo. A voi manca il coraggio, perché manca la fede. Se voi credete veramente che santa fu l’opera di Pio quando disdisse il principio del suo pontificato, difensore intrepido della religione pericolante, alla quale fece olocausto della sua popolaritá e del suo principato, osate, osate di mostrarmelo infiammato di questo santissimo affetto. In luogo di mostrarmi il rubicondo pontefice dal regale palagio di Portici contemplante l’amenissimo golfo di Napoli con una plebea effusione di gioia: «o terra benedetta, o soggiorno tranquillo, o caro albergo di pace», mostratemelo nel congresso di Gaeta, quando a salvezza della religione invoca sopra i suoi figliuoli le armi straniere: mostratemelo, quando scrive l’enciclica. Italiano, dee sottoscrivere la sentenza di morte della sua patria, ch’egli ha benedetta; cittadino, dee porre il piede sulle giurate libertá da lui donate; principe, sará tanto disprezzato ed abbominato, quanto riverito ed adorato un tempo da’ suoi romani; ma tu sei papa, o Pio; e se come uomo ti trema la mano, se ti ritornano dolorosamente in memoria i giorni passati, che non verranno mai piú, nei quali ti inebbriavi di una gloria unica al mondo, nei quali ti giungevano cosí gradito suono all’orecchio le benedizioni de’ popoli da te beneficati; tu sei papa, o Pio, e la religione è in pericolo; ministro di Dio, dopo una crudele agonia tu sottoscrivi. Di sotto alla vostra penna Pio sarebbe uscito grande, e noi non rideremmo, quando voi lo chiamate il gran Dio; epiteto ironico di un papa picchiapetto e visitatore di chiese: la sua grandezza nel vostro libro non è che un aggettivo. Perché parlate cosí di fuga dell’enciclica, cosí timidamente; perché cercate di attenuarne gli effetti? Perché non avete concepito Pio da questa altezza? Perché la vostra convinzione non è seria; perché la vostra religione è una ripetizione uniforme di atti esteriori divenuti consuetudine prosaica, che non vi scalda il cuore, non vi sveglia la fantasia; perché voi siete piccolo d’animo e di mente, e nel vostro angusto cervello non cape alcun concetto di verace grandezza. Vi manca la fede e l’ingegno. E perché ne avete coscienza, perché sentite la vostra debolezza, vi par che ciascuno ve la legga negli occhi dimessi, e temete ad ogni tratto d’incontrarvi in quel formidabile ghigno, e che quell’ostinato insolente vi tolga il cappello all’italiana che talora calcate sopra il vostro berretto, e gridi intorno: — È un gesuita! è un gesuita! — Ei sembra che ci sia un folletto che faccia mal governo delle vostre statue, e mentre voi avete in animo un eroe, vi sconci la immagine, e qui appicchi le orecchie di asino, qua una testa di zucca; o piuttosto è in voi stesso quasi una doppia anima, di cui l’una fa la baia e la caricatura dell’altra. Fatto psicologico importantissimo, che ci dá la spiegazione di molti fiacchi lavori estetici; e questo incontra agli uomini di mezzana levatura, che non hanno alcuna virilitá, senza fermezza di carattere, senza serietá di fede, i quali mentre ti parlano con veemenza di alcuna cosa e vi si scaldano ed alzano la voce; se tu li guardi un cotal poco con quello sguardo di scambievole intelligenza, che vuol dire: — Buffone! — , ridono essi prima, ed invano fanno una smorfia per tenersi in sul serio, ridono essi prima di sé medesimi; nella loro coscienza è una eterna parodia di tutto quello che concepiscono gravemente, una seconda voce che imita caricando la prima: la parte bestiale che fa le fiche all’umana; il riso che essi generano negli altri, lo hanno inestinguibilmente in sé stessi: concepiscono Ariel e n’esce fuori Bottoni. Ma mi dirá il padre Bresciani: — Perché averla con me? Che ci posso io? Scrivo storia; non fo poesia. Posso io rifare la storia? Il tempo degli Ambrogi e dei Borromei è passato. — Vero. Voi non potete rifare la storia, né rifare voi stesso; la realtá che avete innanzi, resiste alla vostra penna, e voi non avete ingegno da nobilitarla; piccoli i vostri uomini, piccolo voi: in veritá nessun vostro nemico ha fatto dei vostri e di voi una pittura tanto satirica, quanto voi stesso. Ma voi non vi accorgete che, stando le cose in questi termini, il vostro libro non solo non è lavoro d’arte, ma né eziandio una storia. Non ogni fatto è storico: non ogni personaggio è storico. E che cosa è di storico, in vostra fé, nelle risse de’ rivenduglioli, nelle dispute da caffè. nelle melensaggini delle gazzette, nelle plebee facezie di Ferdinando col Comandante di Gaeta, nelle passeggiate di Alisa e Luisella, in tutt’i nullissimi particolari onde infiorate il vostro racconto, che sono stati, solo perché sono stati? Vi sono popoli e partiti che, come avviene degli individui, vivono senza lasciare alcun vestigio di sé sulla terra.
Nos numerus sumus, et fruges consumere nati2. |
Ma allegramente, padre Bresciani; avete la vostra riscossa; ora tocca a noi. Rappresentateci la rivoluzione. Voi potete ora rimandarci le nostre beffe e rispondere ghigno per ghigno all’insolente contraffattore dei vostri quadri. — Quelle orecchie d’asino che voi volete appiccare a’ miei, sono le vostre orecchie: quella testa di zucca è la vostra testa. Avete riso; ora io riderò di voi. — È giusto. A ciascuno la sua volta.
Cominciate, com’è vostro uso, dallo spogliare la rivoluzione di tutto ciò ch’è stato in lei nobile e serio: è un lavoro purgativo, necessario per tutt’i vostri quadri. Questa cosa passare in silenzio, toccar di sbieco quest’altra, confessare quell’altra, ma con un «se», con un «ma», con un «quantunque»; voi siete maestro in questa difficile arte dej. simulare e del dissimulare; ve ne ho giá fatto i miei rallegramenti. Si tratta del moto eroico di Milano? Corriamovi sopra. La difesa di Venezia? Tocca e passa. L’assalto di Vicenza? I Romani, è vero; ma gli Svizzeri; oh, gli Svizzeri poi! E la battaglia di Santa Lucia? e Curtatone? e i Piemontesi? Carlo Alberto? Si; ma si sentivano la messa; ma erano tanto divoti! Non si può meglio.
Via, osate, padre Bresciani, di dire la veritá nuda e cruda: nella rivoluzione tutto dee essere diabolico, tutto opera del diavolo; anzi vi è certamente venuta a mano qualche preziosa pergamena, nella quale avete scoperto, che Mazzini e Mamiani e Sterbini e Campello e Guerrazzi e Brofferio e compagni aveano abiurato il Cristo, prostrati innanzi all’altare di Satana, intorno a cui dodici lupe invereconde danzavano ogni notte. Su, dunque. — Tu un Gesuita! — E voi settarii, adoratori del demonio, ladri, assassini, e, per giunta, buffoni! — La parte liberale accoglie in sé, come ogni altro partito, gente d’ogni risma: ci ha gl’imbroglioni, gl’ipocriti, gli sciocchi ed i bricconi. Guardata da questo lato, quanto v’è di ridicolo! quanto di atroce! La materia questa volta non vi manca. Se avete spirito, fateci ridere; se avete bile, fateci fremere.
In quel tumultuare, in quella ebbrezza quasi febbrile di un popolo, che dicesi rivoluzione, tutte le passioni si sbrigliano, e la piú abbietta gente vien su: onde spesso, accanto al sublime trovi il grottesco, accanto alla piú eroica virtú la piú bassa scelleratezza. È un fiume di acqua limpidissima, che traripando s’insozza, traendosi appresso tutte le lordure de’ campi. Il Bresciani si è calato a raccogliere questa mota, ed ha detto: — Ecco la rivoluzione! un misto di ridicolo ed atroce.
Finché ci avrá plebe, avremo una fonte inesausta di ridicolo. Questo eterno fanciullo è l’inconscia parodia de’ piú gravi avvenimenti in mezzo a cui si trova, senza saper come. Stretta alle sue tradizioni, nutrita di errori e di pregiudizi che si trae appresso sino al sepolcro; bene ella, come mobile e leggiera, studia a novitá che rinfreschino le sue impressioni, ma non v’ingannate: ella non accoglie che la vuota apparenza, e, sotto alle nuove forme, conserva inalterate le sue vecchie idee: della Ragione ti fará una Dea, di Bruto ti fará un Cesare: Shakespeare l’avea meravigliosamente compresa. In questa opposizione tra la forma e l’idea, tra quello che pare e quello che è, sta in gran parte il segreto della commedia. La piú comun forma nella quale vien fuori questo contrasto, è lo storpiamento dei vocaboli, una specie di basso comico, di volgare buffoneria, che trovi in tutte le conversazioni, su tutte le bocche; perocché, facendosi ivi professione di ridere e di far ridere, pochi hanno spirito, e tutti vogliono far dello spirito. Di questo spirito a buon mercato è dovizioso il padre Bresciani; il quale, in luogo di studiare profondamente nella plebe questa contraddizione tra il fatto e l’idea, e farne scintillar fuori il comico in una situazione, in un’azione, in un carattere, in un motto, osservatore superficiale, è andato raccogliendo nel suo taccuino tutti gli equivoci, gli spropositi, gli storpiamenti dei trivii, e ce ne ha fatto un prezioso regalo. È il di della votazione: un acquavitaro si sente atterrare in petto: «Ferma: hai votato? — Ho votato pochino sinora; vedete le bottiglie si poco sceme... — Goffo! dico se hai votato per la Costituente? — La Consistente non la conosco, né l’ho veduta mai — ». Quante volte si è riso per le vie, ne’ caffè, di queste storpiature! Se ne parla per una giornata, poi si dimenticano. É proprio degli sciocchi intrattenere piacevolmente le brigate con queste asinerie, spropositi di geografía, strafalcioni di storia, trascorsi di lingua; ed è proprio di altri sciocchi rimanerne a bocca aperta, e dire di qualche plebeo buffone: — Gli è un uomo di spirito costui! Gli è un uomo di spirito il padre Bresciani! — Anzi non di rado incontra, che, passando di bocca in bocca alcuno di questi qui pro quo, ciascuno vi appicca alcun che, e, a poco a poco, n’esce un fatterello, un aneddoto spiritoso, materia grezza lavorata e trasfigurata da un artista collettivo; laddove il Bresciani ignora anche la volgare arte di bene apparecchiare un motto, si ch’ei ti colga quando il riso è irresistibile.
Questo contrasto tra la forma e l’idea, l’autore ce lo rappresenta ancora nella gente colta, e con la stessa felicitá! I discorsi ch’egli pone in bocca a questa gente sono concetti estremi accozzati senza legame e senza gradazione, ed espressi in una forma ampollosa. Udite Polissena: «Oh, amica, chi non sente scorrersi nelle vene un sangue italiano, non è degno di respirare queste aure vitali, che animavano i primi Pelasgi. Vedi Alba, vedi Cori, Ardea, Laurento e la prossima Arida: in quegli Opici, Ausoni, Rutuli, Aurunci ci bolliva in petto un’anima altera di si gran patria». Udite Gavazzi: «Romani, figli di eroi, sangue troiano, marciate audaci incontro a un nemico che fugge al solo nome di Roma. Ognuno di voi vai per mille di quei vigliacchi. Portate il valore romano su’ campi lombardi, veggano le donne romane brillarvi in petto le croci rosse, e ammirino la franchezza de’ vostri volti marziali, e sperino». Udite Mazzini: «Prima, via lo straniero dal sacro suolo d’Italia, poi via tutt’i re col Papa a capo della processione; poi l’Italia una e tutta a popolo. Il popolo, papa e re di sé medesimo, non ha chi lo vinca». Udite un altro: «Questo papaccio avrá d’ora innanzi a fare colle nostre baionette. V’infilzeremo i gesuiti come le quaglie, li condiremo col grasso dei frati e de’ prelati, che sará un arrosto squisito». Tutti i discorsi sono in su questo andare, tutti ad uno stampo; letto uno, letti tutti. Caricare i sentimenti, esagerare le forme, infilzare i concetti crudamente l’uno appresso l’altro, come una serie di avemarie, è il ridicolo in cui cápitano sovente gli sciocchi e gl’ipocriti: e nella rivoluzione ce ne fu in buon dato. Ma non tutti gli sciocchi sono ridicoli: spesso ristuccano e fanno stomaco. Perché ei destino il riso, bisogna che le loro parole sieno la loro satira, la parodia di quello ch’ei dicono in sul serio, e con la miglior buona fede. E però dovete farmeli parlare secondo natura, si che il riso rampolli dall’essenza stessa dei loro concetti, e non vi si richiegga altro che la semplice rappresentazione. Qui è la cima dell’arte comica, ed il Fischietto3 alcuna volta ce ne dá esempio. Si crede comunemente che il ridicolo stia ne’ maliziosi ravvicinamenti, nelle antitesi, nelle incongruenze, nelle false applicazioni, ecc.; ma questi non sono che artifizi esteriori per porre in mostra e dare spicco ad un ridicolo, giá preesistente nella cosa; sono le figure rettoriche della commedia; e porre ivi il comico gli è come porre il sublime ed il bello ne’ tropi e nelle frasi. Scrittore di spirito è colui che sa cogliere per una rapida intuizione il lato ridicolo di un argomento in apparenza serio, e sa coglierlo in quella forma che esso ha naturalmente, senza che nulla vi paia di subbiettivo, di appiccato, di venuto dal di fuori: perocché al vero artista lampeggia innanzi il ridicolo non nudo ed astrattamente, ma con una sua propria rappresentazione. L’ironia, il sarcasmo, la caricatura, il paragone, l’antitesi, ecc., non sono dunque forme libere che lo scrittore possa adoperare a sua voglia, fosse anche nel genere umoristico: concetto e forma nascono ad un parto. Ma come qui i concetti sono serii, né ci è gesuita al mondo che possa rendere ridicole le parole «Italia», «patria», «libertá», «indipendenza», ecc.; cosí il Bresciani è costretto di ricorrere a ripieghi grossolani, caricando la mano, o congiungendo un concetto serio con altri ridicoli. Quando Polissena dice: «Oh, amica, chi non sente scorrersi nelle vene un sangue italiano, non è degno di respirare queste aure vitali, che animavano i primi Pelasgi», qui il comico non è nel concetto, che è seriissimo, ma nella forma volgare e caricata onde è espresso, e nell’ultimo pensiero appiccatovi, parte non necessaria di quello: il che toglie l’illusione, scopre l’arte e rivolge il ridicolo in capo al derisore. Ridevole è Polissena che si esprime scioccamente, non il concetto; e nondimeno si odora nello scrittore la buona intenzione di tirare il concetto nello stessa ridicolo, senza che gli venga fatto. E questo è, perché la patria, la libertá, l’Italia fanno in lui una impressione odiosa, ma non ridicola, e se ne sdegna e sente una stizza seco stesso, e vorrebbe... ma non ci è verso; non si può ridere, né far ridere per forza: il riso è la cosa piú spontanea del mondo. Egli è come colui che si sente tentato di porre in caricatura un uomo, di cui ha paura o rispetto, e che mentre sta per lanciare il suo motto, ad un guardo di colui si sente morire il riso sul labbro. Cosi è, mio buon padre Bresciani: voi potete odiare, ma non potete ridere: i vostri concetti rimangono serii al di sopra della forma che voi lor date.
Fin qui abbiamo dunque un comico di bassa lega, formale ed estrinseco. Ma il comico, che non è nel concetto, può esser bene nella persona che lo adopera: allora non è il concetto ridicolo, ma il modo col quale è concepito. Il quale modo è variissimo secondo la natura delle persone, sciocchi, pedanti, poltroni, ipocriti, ambiziosi, ecc.: in questo caso cade sotto il ridicolo non l’idea, ma il carattere delle persone. E quanta ricchezza di materia! Quanti sciocchi che guastavano, smozzicavano, travisavano quello che non comprendevano! E pedanti, che applicavano a tutte le cose una forma anticipata ed immobile di scrivere, e non sapendo che le grandi cose vanno dette alla buona e con virile semplicitá, sconciavano goffamente ciò che credevano di abbellire, con quella che essi chiamavano «forma letteraria»; sf che i nostri piú cari ’sentimenti, le nostre piú nobili idee noi le vedemmo uscir fuori, ora saltellanti alla francese, ora affogate in uno strascico di compassati periodi, e quando addormentate in un nembo di fiori arcadici o classici, e quando evaporate in una nebbia mistica e romantica! Quanti poltroni, che davan fiato alla tromba e tagliavano montagne con tanta piú audacia di parole, quanto il cuore piú tremava lor dentro! Quanti ipocriti e ambiziosi, so verrinanti con la voce, co’ gesti, con le esagerazioni, con in bocca ad ogni ora tre o quattro parole alla moda, nastro tricolore al cappello, fazzoletto tricolore pendente al di dentro, mazzettino tricolore nell’occhiello dell’abito! Ma a che m’indugio a parlar di caratteri, di cui non è vestigio in questo romanzo? L’autore non ha pratica degli uomini, non conoscenza delle condizioni sociali, che esca dal comune; tanta ricchezza di caratteri e di situazioni è per lui la margarita della favola. «Romani, esclamava Gavazzi, figli di eroi, sangue troiano, marciate audaci incontro a un nemico che fugge al solo nome di Roma.» Qui è la stessa esagerazione, la stessa congiunzione di serio e di ridicolo, che abbiamo notato in Polissena, e che si trova dappertutto. Fin dalle prime pagine la vena comica del padre Bresciani è esausta, né vi è cosa piú noiosa di un ridicolo che ripete sé stesso, indizio di stanchezza e povertá di fantasia. E, come suole intervenire, aggirandosi l’autore entro lo stesso cerchio, e volendo pur dare alle stesse forme alcuna aria di novitá, le carica, e le conduce fino alla insipidezza ed alla freddura. «Pio IX s’avvisa di pascerci a confetti, d’addolcirne la bocca con qualche riforma; le ci dia pure, che noi le avremo in conto di antipasto. Ma se noi non saremo armati, non verremo mai al desinare, e tutto finirá in due crostini con una mano di burro, e sopravi un’alicetta trinciata, da bere a ciantellini una tazza di vermut. Noi vogliamo cioncare e tracannare a bigonci la libertá; divorarla, diluviarla a due mascelle, e Pio IX vuol darcene tanto che basti ad un canarino! Gnaff! L’ha colta davvero! o tutto, o niente.» Il buon padre, entrato a parlar di confetti per via di paragone, non ha finito che non abbia fatto tutt’i suoi pasti della giornata fino al tracannare ed al diluviare. E si è dimenticato che è da uomo di piccolo spirito questo girare intorno ad essa sempre una immagine, e sottilizzarvi e stagnarvi entro. Né vi è cosa tanto poco comica quanto il rimanere come inchiodato ad una idea senza trovar verso di cavarsene fuori, essendo il riso uno scoppio subitaneo, generato da rapporti improvvisi, da inaspettati contrasti, che richiedono nello scrittore velocita e prontezza d’ingegno. Ma sopratutto profonditá: perché se si vuole uscire un po’ poco dal plebeo, lo scrittor comico dee mirare non ad una fuggevole allegria a modo di trastullo e passatempo, ma ad una impressione durabile, che al primo scoppio del riso faccia succedere la meditazione. Lasciamo a’ buffoni dí mestiere, a’ buffoni da conversazione gli equivoci, i giuochi di parola, quel trarre al proprio ciò che si dice in senso figurato, o al contrario, e il contraffare, il caricare, e l’alzare ogni cosa al grado superlativo. Questi mezzi esteriori non hanno un significato comico, se non quando ti colgono a volo un assurdo, ti rivelano un costume, ti dipingono un carattere. Avete udito il padre Gavazzi. Ma chi è Gavazzi? Chi è Mazzini o Sterbini, o Agostini o Babette, che ti parlano tutti allo stesso modo, gittati lá per isciorinarti ad ogni tratto le stesse buffonerie da trivio? Chi è Santilli? «Un giovine di forme vantaggiate e oneste..., con una gran capigliera a riccioni giú pel collo e la discriminatura da un lato..., e i capelli lucidi e olezzanti», «... la barba lunga, assettata in cerchio, e i mostacchi ben disciplinati ed acconci». Ma chi è Santílli? E Mileto e Romeo e Gabriele Pepe e la Belgiojoso, e Guidotti e Zambeccari? Vox et praeterea nihil, puri nomi. Sono macchinette e burattini di carta con di dietro la tela il padre Bresciani, che soffia le parole, e che spesso, dimentico della sua parte, caccia fuori il capo e ti guasta il giuoco. sicché in luogo della macchinetta tricolore ti vedi improvviso dinanzi il berretto nero, e senti una vocina melliflua che ti annunzia il cambiamento di scena: — Attenti! ora sono io che parlo! — «Le vecchie masserizie del Vaticano, dice il Mazzini al Beltrami, le abbiamo tanto rôse colle lime sorde..., giá sono in tentenne, e a buona picchiata di martello deono cadere in isfascio. Poni la scure alla radice corrompendo le masse... Vi sono ancora non pochi, i quali perfidiano a creder buone a qualcosa le riforme: imbecilli! o tutto, o niente. Avvisan costoro che noi ci contendiamo si saldamente da venti anni per risciacquarci la bocca con un sorso di riforme?» Vedete lo stesso ridicolo esterno quasi con le stesse frasi: le «masserizie» prima «rôse», poi «in tentenne» e poi «in isfascio», come innanzi dai confetti si passò al burro e dal burro al vermut: anzi voi sentite di nuovo l’odore dell’antipasto, non potendo quel caro Bresciani lasciarci in pace senza una «risciacquatina» di bocca con «un sorso di riforme». E quando il Mazzini mi dice: «Poni la scure alla radice», io veggo l’uomo rosso; ma quando soggiunge: «corrompendo le masse», scusatemi, padre Bresciani, Mazzini non chiamerá mai un «corrompere» l’opera sua; e siete voi, proprio voi che cacciate il capo fuori della tela, e mi mostrate il berretto nero, e dite invece di Mazzini: «corrompendo le masse» e invece di Polissena: «Viva noi!».
Il Bresciani non è riuscito a porre in ridicolo le idee della rivoluzione: è riuscito almeno a rendere ridicoli gli uomini della rivoluzione? Oltre che gli manca ingegno da ciò, come il fin qui detto basta a mostrare, la falsa situazione nella quale si è messo, non glielo poteva consentire. Vi è un dramma francese intitolato: Avant, Pendant et Après, nella cui seconda parte si pone in caricatura la rivoluzione francese del ’ 93. Ma lo scrittore si è ben guardato di porre in iscena Robespierre, Saint-Just, Danton e gli altri capi, ed ha cansato tutto ciò che è di serio e di grande in quella funebre epopea. Con quel finissimo fiuto che è l’istinto incomunicabile dello scrittor comico, egli ha subito odorato il ridicolo ch’era in essa, 1 ’ imitazione de’ nomi, de’ costumi e delle fogge romane in una civiltá tanto diversa, ed ha saputo trovare situazioni e caratteri, onde germina questo contrasto. Ma il Bresciani mi comprende la rivoluzione in tutta la sua ampiezza, e tutto è in essa ridicolo, tutt’i personaggi sono buffoni. Or l’artista può bene contraddire alla storia, disformare i fatti, ridere di tutto e di tutti e fare dell’universo una grande mascherata; una sola cosa non può: contraddire alla sua coscienza. Il Bresciani non crede a quello che dice, comeché vi si sforzi: è nella sua coscienza qualche cosa, ch’egli non può domare, che resiste alla sua volontá, che lo fa ridere sgarbatamente, che fa trapelare dal suo riso ima ridicola stizza. Non è il lettore che contraddice alle sue calunnie; la contraddizione è dentro di lui: questa voce interiore gli trasmuta sotto la penna i burattini in eroi. Egli ti fa parlare Mazzini come un buffone, un paltoniere; e quel secondo Egli risponde: «Mazzini, giovane d’acuta mente, di cuor caldo e d’indole audace ed indomabile... piú intrepido di Weishaupt... piú leale d’assai del Marmarli e consorti... getta il guanto alla sbarra, sfida re e papi»4.Egli sparge a man piene il ridicolo sui civici romani, giovinotti scapati, le cui pazze allegrie ti dipinge con un brividio d’orrore, con una indegnazione che ci fa ridere a sue spese; e quel secondo Egli risponde: questi eroi da teatro a Vicenza «sono come un muro di bronzo su’ parapetti, alle trincee e tra le palizzate del terrapieno: niun piega, niuno allassa, ed erano digiuni, ed i calori cocenti e il conflitto crudele»5. Con quanto strazio egli si fa beffe dell’opera de’ prodi al 15 maggio, degli animosi della Guardia Nazionale, che «sudano la notte alla grande impresa», de’ calabresi e cilentani «infaticabili all’arduo e terribil travaglio... de’ liberi petti che combattono per amore di libertá!»; ed il secondo Egli risponde: «Cominciossi una lotta accanitissima e crudele. Dalla fronte della barricata spesseggiavano i colpi sopra gli assalitori... l’artiglieria puntava di calibro e di mitraglia orrendamente contro i propugnacoli e contro gli angoli delle case, donde usciva il fuoco vivissimo e ostinatissimo»6. Ch’è questo, padre Bresciani? Voi avete un bel dire e un bel fare; la situazione è piú forte di voi. Non potete allontanare da voi voi stesso; e quando vi si parano innanzi Ciceruacchio, Sterbini, Agostini e gli altri settarii, non sí tosto vi studiate di atteggiare il labbro ad un riso maligno, e quell’invitto Egli vi rompe a mezzo le parole, vi raffredda la fantasia, e vi risponde: I settarii «hanno capo, e a lui lasciano il consiglio: hanno membra e ciascuno provvede secondo sua condizione; né l’occhio fa da mano, né il pié da lingua;... il nobile si affratella al borghese, il cittadino al villano, e, dove trattasi di loro congiure, s’impalmano, s’abbracciano, si stringono come nati di un sangue. Sono scaltri ed astuti, simulatori e infingiteli, pronti ed ardimentosi, pazienti e costanti. L’occhio della giustizia non li sgagliarda; la prigionia de’ fratelli non li menoma, anzi crescono e moltiplicano in faccia alle catene e alle bipenni che stanno apparecchiate a lor fellonia; si dánno di spalla nelle piú arrischiate imprese; son larghi di loro avere al tesoro della setta, e molti perciò si sovraccaricano di debiti, impoveriscono i figliuoli, consuman le case. Attutiti in una provincia, sorgono in un’altra; condannati all’esilio, aspettano; stretti ne’ ceppi..., sperano; neU’atto di piegare il collo sul ceppo, insultano il manigoldo»7. E di questi uomini voi volete farne poltroni e buffoni! Voi non avete cuore di guardarli in viso. De’ vostri volete farne eroi, e vi riescono quello che voi sapete: di cotesti volete farne burattini, e i burattini vi si animano innanzi e vi si ribellano e vi agghiacciano il riso sul labbro.
Non solo buffoni, ma assassini; il ridicolo è mescolato con l’atroce: ad ogni tratto un assassinio; l’autore non ne ha dimenticato pur uno. E certo in quel ribollimento di spinti, che vien dietro ai rivolgimenti civili, l’assassinio non è infrequente; salvo che un giorno era santificato, e veniva dall’alto: lo sanno gli Ugonotti; oggi è esecrato, e procede da ciechi impeti di plebe. Ma gli assassinii del ’48 sono, secondo il padre Bresciani, meditate vendette de’ liberali; sono la fredda esecuzione di un articolo del codice settario. Poniamo sia vero, e vediamo in che guisa abbia egli saputo dare a questi assassinii un significato storico e poetico.
L’assassinio preso nella sua apparenza, è un fatto esteriore che, come tutto ciò che è vuota materia, non ha in sé niente di storico o di poetico: il suo senso storico, il suo ideale poetico è nelle cagioni che lo hanno prodotto, e nell’uomo che lo ha commesso. Si assassina per sete di guadagno, per gelosia, per vendetta, per amor di patria, per fanatismo di religione; e l’omicida è uomo o donna, gentiluomo o plebeo, un grande uomo o un’anima abbietta. Se togli via le idee e i caratteri, non vi resta innanzi che un freddo cadavere, un fatto vuoto di significato. Prendiamo ora ad esempio Babette, il solo personaggio che ci è un cotal poco ritratto. Costei dalla Svizzera tira giú fino a Palermo per ammazzare Cestio, denunziatore de’ suoi: e dopo avere per via buffoneggiato co’ congiurati ne’ quali si avviene, coglie il traditore, lo inganna e lo trafigge. Babette non è certo un sicario pagato; è un assassino fanatico, che crede di adempiere il suo dovere. Ma, Dio buono! salvo qua e lá qualche buffoneria, costei non mostra mai di credere a qualche cosa, di amare, di odiare; nessun contrasto, nessun rimorso; è una macchina a vapore che corre e corre; tal che quando giunge ed uccide il suo nemico, tu non sai qual differenza sia tra l’inanimato pugnale e un essere che ha anima. Se volete rappresentarmi l’assassino delle societá segrete, mostratemi come l’anima, in quei convegni, si snaturi a poco a poco. Giovinetta, male esperta del mondo, di un cuore appassionato, di una fantasia mistica, si consacra tutta alla libertá ed alla patria. Le cerimonie strane, i solenni giuramenti, il segreto, il pericolo la esaltano; la resistenza l’enferocisce; il pensiero costante sempre in una cosa attutisce in lei ogni altro affetto che non sia quello: religione, famiglia, amicizia. A’ dolci e nobili sentimenti succedono, senza ch’ella se ne avvegga, tirata dalla invitta necessitá della sua situazione, le piú malvage passioni; la lunga oppressione desta in lei l’odio contro gli oppressori; la usanza con ogni maniera di gente la rende rozza e plebea; la debolezza di sua parte la sforza ad ire per coperte vie; la necessitá la rende perfida; la vendetta un assassino. Tale esser dovrebbe Babette; e se il padre Bresciani se ne scusasse umilmente, allegando la poca pratica ch’egli ha di queste diaboliche adunanze, io gli risponderei: — E perché non consultare la storia de’ vostri ordini religiosi, a voi certamente famigliare, dove avreste trovato piú di un esempio calzante? Clément sarebbe stato proprio il fatto vostro. Segregato dal mondo e ridotto in una cella, ogni vincolo domestico o sociale in lui si rilassa, come in Babette. In quella vita priva di operositá, egli si gitta in un vano fantasticare, ch’è malattia delle immaginazioni oziose, e, toltogli per forza il reale, senza di cui l’uomo è incompiuto, se ne rifá uno posticcio, sfogando il suo bisogno d’amore in estasi e contemplazioni di Dio e de’ Santi: egli ama la Vergine, come Babette l’Italia. E come Babette, il suo amore si volge in odio contro i nemici di Dio, contro i bestemmiatori della Vergine; il loro trionfo lo invelenisce; la sua impotenza lo rende perfido; e l’idillico frate di pochi anni avanti diviene il freddo assassino di Enrico III. Cosi Macaulay rappresenterebbe Clément; cosí Dumas rappresenterebbe Babette — Ma io dimenticava che qui si tratta del padre Bresciani; l’anima è un x, una incognita per lui. Qui cade Monsignor Palma; lá il Rossi; qui è ucciso il Finucci; lá è trafitto Aser: tutte le circostanze esteriori sono minutamente raccontate: che cosa vi manca? La rappresentazione dell’assassino e dell’idea che lo muove, cioè a dire e la storia è la poesia.
Adunque, mi chiederá il lettore, che cosa è l’Ebreo di Verona? Voi ci avete mostrato quello che dovrebbe essere: che cosa è? È la rivoluzione rappresentata plebeamente, nuda di tutte le sue forze interiori di movimento e di resistenza. È la rivoluzione nella sola sua corteccia, quale apparisce all’uom della plebe «un fracasso, un baccano, un Viva! e Muoia!», opera del tale e del tale. Tolte le idee, i caratteri, le passioni, nella cui limpida rivelazione è l’eccellenza dello storico e del poeta, non rimane che il vuoto fatto, quello solo che si vede con l’occhio materiale. Nondimeno anche questo ha il suo attrattivo, anche la nuda azione diletta, quando lo scrittore sappia immaginare un intrigo, e destare la curiositá e tenere in sospensione i leggitori e rappresentare con vivace rapiditá il tumultuoso avvicendarsi de’ casi umani. È un dramma ad uso della plebe, ma pure è un dramma; è un ballo mimico di cui non si comprende un’acca, ma che pur tira a sé gli sguardi di tutti. Questo libro al contrario è noiosissimo a leggere, e ci è stata mestieri tutta la mia buona volontá per tirar giú insino alla fine. L’azione spesso piú narrata che rappresentata, cronologicamente esposta senza alcun nesso interiore, aggirantesi intorno ad un centro artifiziale, intorno ad un personaggio, la cui importanza è nulla per rispetto ai grandi avvenimenti in mezzo a’ quali sparisce: l’azione è qui affatto secondaria, ed il Bresciani ci presenta gli attori per avere occasione di mostrarci le scene. Pio IX si affaccia al balcone della reggia di Portici, perché il Bresciani ci possa descrivere le bellezze del golfo di Napoli. Pio IX fa una cavalcata alla Basilica Lateranense, perché il Bresciani ci possa far vedere «la squadra dei dragoni a cavallo», «i trombetti degli Svizzeri», i camerieri d’onore, i camerieri ecclesiastici, i collegi dei prelati, i cappellani e chierici di camera. E i dragoni ci stanno per farci vedere il berrettone e i guanti e gli stivali, e ci stanno i camerieri perché noi vedessimo le «belle guarnacchette» e le falde e i calzoni e i calzarmi, e ci stanno i camerieri ecclesiastici per la loro cappa magna e i «cappuccini» e i «cavalli» di rosso fiammante, ed i prelati ci stanno in grazia de’ loro paludamenti paonazzi, e ci stanno i vescovi per mostrarci il cappello verde legato sotto il mento, e Pio IX ci sta per farci guardare la sua bella carrozza tirata «dá sei cavalli neri coi cavalcanti in zimarrette avvinate». — Che bella carrozza! che belli cavalli! che belle vesti! oh i belli guanti! oh le belle gualdrappe! belle quelle zimarre! bellissime quelle selle! — cosí grida la stupida plebe, quando passano processioni o mascherate, con un’ammirazione uguale pel cavallo e pel cavaliere! E se Bartolo si prende il caffè, egli è perché l’autore ci mostri in che guisa si ha a fare il caffè; e se Pio IX visita il Collegio romano, egli è per porci dinanzi il lastrico del cortile mutato in giardino, le gallerie decorate, l’apparato della cappella, e il ritratto di Gregorio XIII, e la spezieria de’ gesuiti, e i cori de’ musici, e le legioni degli scolari, fanti, cavalieri, veliti, scorridori e triarii, et caetera mirabilia. Battaglie in Lombardia, tumulti in Roma, agitazioni a Napoli, ed il padre Bresciani se ne va a diporto per mare con Alisa o Luisella per poterci descrivere il golfo di Salerno e Amalfi e Positano e Minóri e Majòri, a non finirla mai. Cosi l’azione vi è non per sé, ma per la descrizione; l’uomo vi sta per il suo cavallo; l’attore per le scene; Bartolo per il suo caffè e Pio IX per la sua carrozza. Un giorno il Bresciani si lasciò dire che a lui bastava l’animo di scrivere come il padre Bartoli; e Pietro Giordani di rimando: — Matto insolente! credi tu che somiglianza di berretto faccia uguaglianza di cervello? — Ma il buon Bresciani sei crede: il cervello nel suo libro ci sta, perché egli abbia un pretesto di descriverci il berretto.
Pure il genere descrittivo ha anch’esso le sue bellezze. Piacciono le descrizioni del Bartoli: e se in un vago panorama ti si affacciano colli e paesetti e ville e lembi di cielo e pianure di laghi, tu vi affiggi lo sguardo con maraviglioso diletto. Che manca a queste descrizioni, che te ne senti si tosto sazio e ristucco, o tentato di saltarle a piè pari? Perché ti viene il sudor freddo, quando tu leggendo ti abbatti in qualche parola, come grotta, montagna, golfo, chiesa, giardino, cittá, aspettandoti il formidabile regalo di due o tre pagine di descrizione? Perché il padre Bresciani, siccome non reca in mezzo un’azione se non per fare una descrizione, cosí non pone mano a descrivere, se non per disgravarsi la mente dell’enorme provvisione che vi è raccolta di frasi e di parole toscane. L’azione vi sta per la descrizione; la descrizione vi sta per la frase. Passeggiando lungo i portici di Po in Torino, spesso dimentichi le tue faccende per fermarti innanzi a qualcuno dei tanti quadri e ritratti che vi sono in mostra; e qui contempli l’occhio vivido e quasi minaccioso di Vittorio Emanuele con quella sua aria concitata ed imperatoria; lá rimani assorto innanzi alla faccia trista e pensosa di Mazzini; ecco piú in lá Manara con quella sua fisonomia tra il brusco ed il bizzarro, e il volto affilato e pallido del Duca di Genova, ed il sorriso di Maria Adelaide soavemente malinconico. Qui trovi espressione, ovvero una rivelazione piú o meno perfetta dell’anima in quelle forme, un sentimento, un pensiero, un’azione. Niente vi è che ti dia un’immagine dei ritratti del padre Bresciani. Entra ora meco da quel sartore o da quel barbiere e guarda: vedrai tre o quattro persone dipinte con le facce stupide ed in diverse attitudini, di prospetto, di lato, di spalla: quelle facce vi sono per mostrarci la moda e l’assetto della barba e de’ capelli; quelle attitudini vi sono per mostrarci la piega e l’attagliarsi dell’abito alle varie positure del corpo: la faccia vi sta per la barba, ed il corpo per l’abito. Noi ci siamo avvicinati al padre Bresciani; ma dobbiamo calare ancora più giú. Ecco il sartore che tiene in serbo abiti di ogni ragione, belli e fatti; e ci volge a tutti e due una cupida occhiata, pensando al tale e tale abito, che ci cascherebbe si bene! che ci direbbe a maraviglia! Noi siamo per questa gente materia di commercio, occasione di spaccio: il barbiere ti guarda alla faccia, il ciabattino a’ piedi, ed il sartore alla vita. E tale è l’obbietto per il padre Bresciani. L’obbietto non ha efficacia sulla sua fantasia, ma sulla sua memoria; in luogo di risvegliare nel suo animo queste e quelle forme, questi e quei sentimenti, gli ricorda le tali e tali frasi impazienti di uscir fuori: — e come ci calzano! come ci si affanno! come suonano bene! e questa, la ci cape anch’essa! come lasciare quest’altra? e ve’ questa che va a capello! e dimenticavo la piú bella! — e compiuto lo spaccio, si frega le mani tutto contento il buon padre Bresciani. Ond’è ch’egli non ti lascia, se non quando ha esausto tutto il suo vocabolario, entrando in particolari tanto minuti che vi si affoga. Eccoti un vascello. In un dizionario per categorie, alla voce vascello troverai infinite voci toscane per nominare le sue parti ed attrezzi, come alle voci cucina, casa, desinare, ecc. Vi troverai i cannoncelli di gabbia, i vergoni, il pappafico di maestra e di trinchetto, le controgiunte di bompresso, i cavi e le gomene di rispetto, il boccaporto di poppa, e tarsiti e filetti e corniciature, ecc., ecc. Quale tentazione per il padre Bresciani! Egli ha in capo il dizionario dalla A alla Z. — Mi si dá del frasaiuolo, — scappa su a dire una volta l’ingenuo. — Ma che ci ho a fare? Non posso pensare una cosa, che non mi pullulino in capo le cento frasi; non le vado scavando io, sono elle che non mi dánno requie. — Sventurato padre Bresciani! Tu vuoi parlarmi de’ poveri gesuiti cacciati da Genova che stanno li molto abbasso nella stiva gemebondi: con qual cuore puoi tu indugiarti a descrivere parte a parte il vascello? Ma e i vocaboli? Trasandare una si bella occasione! E giá ti ronzano nella mente e vogliono ad ogni patto sbucar fuori. Ecco: — l’ho trovato! l’ho trovato! — ad ogni cosa ci è il rimedio. Immagineremo che l’uffiziale sia assente e che il contromastro dicesse al viaggiatore: compiacessesi di attenderlo, e intanto il condurrebbe a vedere si bel legno, robusto e ben arredato. Ben trovato! Ed ecco un formicolare di vocaboli in lunga processione: ecco i «cannoncelli di gabbia», le vele «raccolte e chiuse lungo i vergoni», i «tragitti delle sarte del pappafico di maestra e di trinchetto alle controgiunte di bompresso»; «la forza degli argani, le catene dell’áncore, i cavi e le gomene di rispetto». Siamo nella sala d’arme, e qui vocaboli di un’altra categoria tribolano il povero padre, e tumultuano e vogliono uscire essi pure; ed eccoti le daghette, i falconcini, i passatoi e i falconetti d’assalto. Dato sfogo a questi nuovi ospiti, ricomincia la processione, ed ha i tarsiti, i filetti, le corniciature e i compartimenti, e poi «il focolare di ferro cosí ben bilicato in mezzo alla nave», e poi «i lettucci a maniera di culla dondolante», e poi...; leggetevi, caro lettore, due pagine. Ma questi particolari sono tutti prosaici! Non è vero. Il padre Bresciani sa una sua ricetta per fare di un vascello una ninfa, e per ornare di fiori poetici que’ cannoncelli, que’ boccaporti e quegli assiti. Ascoltate. «Il bell’assetto delle vele,... l’intreccio mirabile delle corde,... per si bel modo che Aser ne era stupito,... coltellacci... bene intrecciati, il tutto... bene accomodato e con bell’ordine, i belli ingegni del focolare... cosí ben bilicato, in bell’ordine seduti...» Come? qui vi è un subisso di «bello» e di «bene» con un odore di «mirabile», e voi domandate se vi è poesia! Descrivete, padre Bresciani: altre descrizioni vi attendono, altri vocaboli vi perseguitano. Poco rileva che la descrizione vi sia per incidente o per paragone: la stupida frase non vuol saperne di queste scuse. Pio IX dee far colezione di caffè e latte? e vien fuori la tavoletta e il credenziere e «il cofanetto di marocchin rosso» e le anforette d’oro e il pane affettato e il vassoio di argento. E se il buon padre vuol paragonare le donne romane spasimate di Mazzini alle pollastre e alle chiocce, non ci è paragone che tenga: una volta nominate le chiocce, gli si affolla una falange di vocaboli, e le povere donne, «tenendo il metro delle valenti chiocce..., s’arruffan tutte, e imporporando la cresta, e inalberando la testa e sbattendo l’ale, e vibrando il becco crocitano e s’avventano agli occhi, ch’è un portento a vederle». Qual meraviglia ora, che il padre Bresciani ti racconti con lo stesso stile un assassinio ed una passeggiata? Innanzi agli occhi suoi non vi è né l’assassinio, né la passeggiata, ma la frase, e non vi è cosa piú stupida e piú fredda della frase.
Io voglio conchiudere con una triste riflessione. Il padre Bresciani è un uomo di poco ingegno e di volgare carattere, senza fiele, senza spirito, uno di quegli uomini tagliati cosí alla grossa, di cui si dice con un’aria di benevolo compatimento: — gli è un buon uomo! — Egli ha studiato molto nelle cose della lingua ed ha scritto tra l’altro de’ dialoghi utilissimi, ove ha raccolto i piú bei vocaboli e modi di dire toscani ad uso degli studiosi. Se costui fosse rimaso nel secolo, sarebbe riuscito un uomo dabbene, lodato da tutti, perché non invidiato da nessuno; rispettato per la sua sincera pietá e bontá d’animo, consultato spesso per la sua domestichezza con i buoni scrittori e per il paziente studio della parte famigliare della lingua, di cui pochi hanno pratica. La sua mala Centura lo ha fatto capitare tra gesuiti; ed ha dovuto partecipare ad atti e maneggi, a’ quali non era chiamato né dal suo ingegno, né dal suo carattere; vestirsi di passioni che non sente; imparare a mentire, a calunniare, a malignare, ad odiare; contrarre il labbro ad una ironia, a cui non giunge la sua poca malizia; attizzare le ire de’ vincitori contro infelici che sono negli ergastoli o nell’esilio; e, mutata la penna in pugnale, quando il patibolo era cosí spesso rizzato in Italia, aggiungere i suoi colpi codardi alla mannaia del carnefice. E tutto ciò fatto scioccamente, poiché egli non era nato a questo. Nel secolo, sarebbe riuscito un uomo dabbene; gesuita, è riuscito direi che cosa, se la parola non mi paresse un po’ dura.
[Nel «Cimento», Torino, vol. V, pp. 302-323, febbraio i855.]
- ↑ Questo libro si ristampa ora in Torino con una lettera dell’autore ai suoi amici torinesi, e però abbiamo creduto opportuno di darne un giudizio. L’edizione citata è quella di Torino, i85i.
- ↑ Orazio, Epist., I, 2, 27.
- ↑ L’Autore scriveva a Torino, i855.
- ↑ Vol. III, pp. i80-i82.
- ↑ Vol. IV, p. 79.
- ↑ Vol. III, p. 3 o e sgg.
- ↑ Vol. I, pp. 75, 76.