Saggi critici/«Beatrice Cenci». Storia del secolo XVI, di F.D. Guerrazzi
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«BEATRICE CENCI»
Storia del secolo xvi, di F. D. Guerrazzi.
Beatrice Cenci è un nome che si pronunzia con voce sommessa e con un certo involontario raccapriccio; il Guerrazzi vuole che quind’innanzi si pronunzii con amore ed ammirazione. A conseguir questo effetto ci sono due vie: o confessare il parricidio appostole e giustificarlo, o negarlo ricisamente. Il Guerrazzi si attiene all’ima e all’altra. Conceduto che la confessione di Beatrice sia veridica, egli dimostra nella splendida difesa che pone in bocca all’avvocato Farinaccio la legittimitá del suo parricidio. Ma questa non è che una ipotesi, non avendo egli osato di rappresentare come fatto quello che ha saputo sí ben difendere come principio. Scostandosi con molto senno dal Shelley e dalla credenza volgare, e vagheggiando Beatrice come «un angiolo di martirio», non gli è dato il cuore di farcela comparire dinanzi bruttata del sangue paterno, e non solo nel suo racconto ella non è parricida, anzi salva al padre due volte la vita. Il Shelley, secondo il vezzo degli ultimi tempi, ha cercato l’effetto estetico nell’orrore, e la legittimitá del parricidio, che nel racconto italiano rimane una tesi, un principio scientifico, è il concetto intimo del suo lavoro. Il Guerrazzi, scagionando Beatrice del fatto ed alterando una circostanza di tanto momento, ha rimosso una gravissima difficoltá non potuta vincere dallo scrittore inglese. E come si fa a rendere, non dico amabile, ma solo almeno tollerabile una parricida? Dimostratemi pure che qui non ci è colpa, ma sventura: vi sono certe colpe che voi non mi potete rappresentare, vi sono certe sventure che fanno tremar la penna in mano all’artista. Il Guerrazzi lo ha compreso, e non potendo risolvere il nodo, lo ha tagliato addirittura. E però il fondo prosaico del suo lavoro non è una quistione di principii, ma una indagine storica. Ha egli posto fuor d’ogni dubbio l’innocenza di Beatrice? Quale è il valore storico di questo racconto? Ha egli con gravi ragioni alla mano indotta in noi una persuasione contraria alla opinione comune, come si è studiato di fare il Manzoni per rispetto al Carmagnola? A dirla schietta, il suo libro, come investigazione storica non ci pare di alcuna importanza. Anzi quello stesso cumulo di circostanze straordinarie e romanzesche ch’egli inventa a discolpar Beatrice, partorisce l’effetto contrario, inducendo in sospetto, e facendo intravedere sotto la veste del narratore un avvocato. Ma che monta? Un romanzo storico è principalmente un lavoro d’arte, e l’arte non è né filosofia né storia. Se le credenze del Byron, del Goethe, del Leopardi sieno vere o false, se i personaggi del Tasso sieno conformi ai tempi delle Crociate, sono quistioni di grande importanza scientifica e storica, ma estrinseche all’arte. La veritá storica è l’esistere materiale de’ fatti o delle cause che li producono, fatti anch’esse; la veritá poetica è l’esistere materiale lavorato e trasfigurato dalla fantasia. Ermengarda e Lucia son caratteri del tempo loro? Pier delle Vigne fu innocente? E il Carmagnola? E Beatrice Cenci? Fu colpevole Bonifacio Vili? Fu viltá il rifiuto di Celestino? Il Clemente del Guerrazzi è il Clemente della storia? Il suo Luciani è il giudice del decimosesto secolo? Disputate pur quanto volete, o storici, ma la vostra risposta, quale ella si sia, niente scema o aggiugne al pregio intrinseco di un lavoro artistico. Al poeta si dee domandare: — Hai tu saputo spirare ne’ tuoi personaggi il soffio della vita? Tu non hai saputo cogliere lo spirito del tempo che hai preso a rappresentare; tu hai commesso il tale errare storico, il tale anacronismo; tu metti il mare in Boemia, e mi parli di artiglieria ai tempi di Adamo; ma non importa: hai tu, fallendo alla storia. saputo adempiere le condizioni dell’arte? Sai tu creare? I tipi che tu vagheggi, sai tu vestirli di carne e dar loro moto e vita? E se si, tu sei un genio ed il tuo lavoro è immortale. — Noi dunque non diremo al Guerrazzi: — Esatto compilatore di tutto ciò che è fatto e circostanza, tu non hai saputo cogliere la vita intima di quel tempo; — ma gli diremo: — Vi è almeno una vita intima qualunque nelle tue concezioni? Beatrice Cenci non è una donna del Cinquecento, ma è almeno una donna viva, o un’astrazione, un accozzamento meccanico di diversi elementi? — La quistione va posta a questo modo, chi voglia giudicare di un’opera d’arte.
Consideriamo dapprima la natura estetica dell’argomento. In che è posto il nodo, la situazione, la sostanza del fatto? Nell’innaturale amore di un padre verso la sua figliuola e nella invitta resistenza di questa. Il romanzo esser deve adunque la storia psicologica di questa bestiale concupiscenza, come si fa la storia di Werther o di Lovelace. L’origine di questo turpe ardore, le nuove cagioni che lo alimentano, le resistenze che lo irritano, le occasioni che lo allettano, ed i perversi disegni, le seduzioni, le insidie, le violenze, da ultimo la catastrofe; ecco il fondamento sul quale dee riposare l’intrico della favola, ed il suo ordine esterno. Né basta che queste cose mi siano rappresentate, ma ci bisogna che ciò si faccia con tutte le gradazioni. Nel dramma si può scegliere un punto determinato; il romanzo deve abbracciare tutta la serie, in tutto il minuto della sua successione, essendo la vita e la veritá del romanzo riposta in quel segreto divenire, per il quale vediamo procedere e mutarsi uomini e cose senza che quasi ce ne accorgiamo: nel che sono mirabili lo Scott, il Manzoni ed il Goethe. Si può egli questo nel racconto che abbiamo alle mani? Vi è scrittore tanto ardito, che addentri e fermi lo sguardo in quella fogna? Quando i fatti hanno a lor fondamento l’innaturale e il bestiale, l’effetto estetico che vi potete prometter da quelli, dee esser tutto negativo. Essi sono poesia, non perché noi vi ci affisiamo con quell’estatico abbandono, col quale contempliamo ciò ch’è bello; ma perché ci sentiamo costretti a divertirne lo sguardo, a protendere le braccia quasi in atto di allontanarli, ed a gridar: — Che orrore! — È un’altra specie di poesia, ma è poesia: è il sentimento del bello che spunta dalla sua negazione. Ma, per riuscire a questo, lo scrittore deve con fuggevole mano disegnare il turpe fantasma, di modo che al primo guardarlo l’occhio ne rifugga spaventato senza virtú di tornarvi sopra, e si generi in noi quella impressione istantanea ch’è detta «il sublime dell’orrore». Se per contrario lo scrittore vi si arresti su, e vi si delizii e vi ci stia come a suo grand’agio, noi ci dimestichiamo con quelle immagini, il sublime e l’orrore vengon meno, e non rimane che un prosaico disgusto. Ond’è che di tali situazioni voi potete ben farne una storia, gli antecedenti di un romanzo o di un dramma, com’è il delitto di Edipo, un episodio rapido alla maniera di Dante, un tratto fuggitivo che lasci intravveder tutto l’altro alla fantasia atterrita, ma voi non potete farne un romanzo. E che situazione da romanzo è mai quella, che non si può dispiegare in tutta la sua ricchezza, che v’impaccia ad ogni passo, ed a cui non potete alzare tutto il velo che la ricopre? Una delle piú sublimi scene del teatro greco è il lungo grido d’orrore, che manda fuori Edipo con la natura e con gli spettatori, quando si fa manifesto il suo inconscio delitto. Ma che sarebbe stato, se Sofocle avesse voluto far soggetto di tragedia le incestuose nozze? Quando si conosce il segreto obbietto della fatale passione di Mirra, la donzella muore, ed il sipario cala. Fatemi dunque un romanzo dell’amore di un padre verso la figlia! Ma che dico amore? è una bestiale libidine suscitatasi nelle vecchie carni, senza che il disgusto sia pur temperato da quella profonda pietá che desta sempre la vera passione. Che è dunque avvenuto? Il Guerrazzi, comecché audacissimo e vago del mostruoso, non ha osato di guardar per entro alle riposte latebre di questa situazione e seguirla nel suo naturale procedimento; e cammina a sbalzi, omettendo per via tutte le gradazioni, e i chiaroscuri, e le mezze tinte, senza di cui non vi è l’evidenza e la pienezza della vita. Il fatto principale del racconto vi comparisce qua e lá, a grandi distanze, con circostanze’ estreme, di cui vediamo d’improvviso la punta senza conoscer la linea che vi ha condotto. Quando al veder la figliuola puntargli la spada sul petto, il padre se ne accende di voglia, egli concepisce tale disegno, che «il Demonio, se si fosse affacciato a vedere lo inferno della sua anima, avrebbe volto altrove impaurito la faccia». E conchiude: «E tu pure piegherai, o ti stritolerò ad un punto anima ed ossa». Il romanzo non può e non deve essere altro che il vario svolgersi di questo disegno e le collisioni e l’intreccio e l’ultima fine a cui mena. Oibò! L’autore non se ne ricorda in tutto il romanzo che tre volte solamente, e gli spazii di mezzo riempie di fatti accessorii; né poteva essere altrimenti, ché, non osando di svolgere il fatto principale in tutta la sua ricchezza interiore, non rimanevagli altro partito che divertire a dritta ed a manca in accidenti secondarii. Ed è da questi accidenti che scoppia tutte e tre le volte il fatto principale senza che vi sia sentore di alcun disegno preconcetto. Onde nasce quel non so che di scucito che si sente nell’orditura del racconto, non si sapendo bene dove si va e a che si tende, insino a che dopo la morte del conte la situazione si raddrizza, e Beatrice posta sul piedistallo attira a sé tutti gli sguardi.
La situazione è qui dunque inestetica, ovvero incapace di rappresentazione, implicata e ravvolta entro di sé, costretto com’è l’autore di mostrare i nudi fatti esteriori, senza che gli dia l’animo di rivelare i sentimenti e i pensieri, che sono i motivi interni di quelli. A questo difetto di subbiettivitá che nasce dalla natura dell’argomento, si debbono aggiugnere i difetti proprii dell’autore. Il Guerrazzi non ha un ingegno artistico. Osservatore superficiale, acuto senza esser profondo, a lui manca il senso pratico, il senso del reale, cosí egregio nel Manzoni. Egli non vede le cose, che nella loro materiale apparenza; e, quando vuole innalzarsi all’ideale, riesce nel mostruoso, cumulando sul capo di un solo personaggio diverse qualitá superlative piuttosto accozzate, che fuse insieme. Quindi i suoi personaggi principali sono veri mostri nel senso latino della parola, come Beatrice e Francesco Cenci, e Luciani e Clemente, concezioni fredde ed astratte, costruzioni artificiose, che di rado hanno in sé alcun contrasto, alcun chiaroscuro. Questo difetto di spontaneitá e di movimento si sente pure ne’ personaggi secondari, tutti di un pezzo, fatture grossolane e meccaniche, parto della riflessione anzi che del sentimento. Che stupendi caratteri avrebbero potuto essere Virgilio e Lucrezia e Giacomo e Luisa e Guerra e Marzio e Alessandro e sopratutto Virginia! Essi sono egregiamente concepiti: ma il concepire è poca cosa nell’arte e la rappresentazione è il tutto. Che un carattere debba essere cosí o cosí, è uffizio del critico, ma il farlo cosí o cosí è proprio del poeta. Scegliamo ad esempio uno de’ personaggi, intorno a cui il Guerrazzi si è piú travagliato, Francesco Cenci; noi potremo agevolmente scorgere da quest’uno la sua maniera di concepire e rappresentare. Francesco Cenci ha in sé del sangue latino; è una tempera d’uomo straordinaria. Dotato di una forte volontá, d’ingegno vivace, dí varia erudizione e dottrina, e vago di fare impressione sugli uomini, ei si rivolge dapprima al bene. Ma i tempi pessimi ne lo ritraggono, e dirizzando verso il male le forze del suo animo, sparge tutto intorno la fama ed il terrore di sé. Ne’ vecchi anni anche di questo vien sazio, e tu lo vedi ir cercando nel delitto un raffinamento che vellichi il suo senso ottuso. Egli misfá senza violenza, senza passione, per consuetudine, per libidine, per passatempo di gran signore annoiato, e si frega le mani e si dimena all’impazzata, allorché gli vien fatta alcuna cosa non dico di cattivo, ma di piccante, di straordinario: lo diresti l’artista del male. Questo carattere è mirabilmente poetico, quando tu me lo comprendi nella sua totalitá, e vi trovi tanta ricchezza di situazioni, tanta profonditá ne’ passaggi e nelle gradazioni che puoi facilmente alzarlo all’altezza di un esemplare, dal quale traluca una delle facce della vita umana. E poetico è ancora questo carattere, allorché tu me lo cogli nell’istante del passaggio, quando il Cenci sdrucciola la prima volta nel male, disgustato e ristucco del bene, situazione maravigliosamente bella, o quando fa del male un’arte e lo conduce sino alla stravaganza del grottesco. Ma quanto è di poesia in questo carattere è giá passato: e noi ci abbattiamo in Francesco Cenci, proprio allora che è divenuto affatto prosaico. Quando lo vediamo, entrato appena in iscena, sciorinar bestemmie, non sappiamo se piú stolte o piú turpi, noi ci domandiamo trasecolati di dove ècci piovuto quest’uomo; e ci sentiamo talora tentati a crederlo fuori di cervello e fuggito dall’ospedale de’ pazzi. Francesco Cenci ci comparisce dinanzi quando la sua malvagitá è scompagnata di ogni grandezza, di ogni passione, di ogni rimorso; quando non è piú in lui, né fuori di lui alcun contrasto che dia rilievo a ciò che è in lui grande. Le sue geste sono: incrudelire nella famiglia, far cadere in qualche trabocchello alcun malandrino, seminar zizzanie e scandali, tendere insidie ed ordire intrighi; Francesco Moor a petto a lui è un eroe. Ricchissimo, potentissimo, circondato di satelliti, non è mai che alcuno si attenti di farli contrasto; ed a vederlo braveggiare ad ogni tratto e lanciar grandi frasi, ti par proprio un sozzo vecchio corrotto e depravato che si diletti di spaventar la sua donna con racconti incredibili di quotidiane libidini. Un assassino ha pure la sua poesia, quando si gitta disperatamente a morire tra le armi soldatesche; a lui manca pur questa volgare grandezza. Uno scellerato è tollerabile in un lavoro artistico, quando ci desti per alcun suo lato un’ammirazione mista di terrore; e possiamo recarne ad esempio’ Riccardo III, Jago, Egisto, Macbeth, Filippo, il Corsaro di Byron. Che cosa ammireremmo in Francesco Cenci? Forse le sue vanterie? o la sua pedanteria? o le sue bestemmie? o l’astuzia? Forse l’aver bene avviato un ratto? o l’aver fatto morir un pover’uomo arso vivo? e messo male tra marito e moglie? e fatto cascar nella rete Olimpio? e adescato al male un semplice prete? Scendiamo ad un particolare. Il Cenci vuol sedurre la figliuola, pervertendo in lei ogni senso morale. Ciascuno ricorda la mirabile scena di Alfieri, nella quale Egisto induce al delitto Clitennestra: Egisto per profonda conoscenza del cuore umano e per satanica malizia ci si mostra emulo di Jago. Ma il Cenci è un seduttore assai novizio nel mestiere. Egli confida tanto nella sua eloquenza, che non reputa necessario di dare alla figlia lezioni quotidiane. Spia il momento opportuno. Ed in chiesa, con avanti la bara del figliuolo ucciso da lui, quando Beatrice, accusandolo altamente, chiama sul suo capo la vendetta di Dio, momento opportunissimo come vedete, il Cenci dopo aver fatto il gradasso con un Cristo di legno, recita alla figliuola attonita una filastrocca di bestemmie in forma di sentenze, che sembrano appiccate insieme ed imparate a memoria; e, quando crede di aver fatto impressione, compie una predica filosofica con alcune dolcezze arcadiche: «Beatrice, te sola amo... tu sei lo splendore della mia vita... te...» e senz’altre cerimonie le si accosta per abbracciarla. Ma che vuole questo vecchio pazzo? Crede egli che le sue parole possano altro, che crescer l’orrore e lo schifo e il puzzo che gitta di sé? Beatrice dá indietro inorridita; pure il vecchio non cede, e si riserba una seconda predica per un’altra volta; infino a che per disperato ama meglio a fare con Beatrice dormente. Ma mi pento di aver potuto parlar ridendo di queste infamie, colpa del Guerrazzi che ha saputo ornarle di ridicolo. E in veritá il conte Cenci desterebbe il riso, se non destasse un supremo disgusto.
Nondimeno in questo carattere, cosí com’è concepito, vi è pure un lato di altissima poesia. È un uomo che si pone al di sopra dell’umanitá, che si getta sotto a’ piedi tutto ciò che è piú venerato, che ha innalzato la sua malvagitá a sapienza filosofica, che dalla sua altezza di scellerato guarda con compassione e disprezzo, dal Papa in giú, tutto il genere umano; le sue parole sono scherni, il suo riso satanico. Certo qui vi è tutta la grandezza, tutta la veritá del Mefistofele: il Don Giovanni è un frammento di questo carattere. Ma ecco la differenza. Il Don Giovanni è un tipo immortale che ha un profondo significato nell’arte moderna, uscito com’è tutto vivo dall’intimo stesso della societá. Il conte Cenci è una concezione abortita per manco di calore, è una idea che non giunge mai ad incorporarsi, una idea nobile e profonda che trapela qua e lá disotto alla rappresentazione tutta rimpiccinita e goffa e plebea. Lo scherno del Cenci è triviale, grossolano, senza significato, puro sfogo di bile; laddove lo scherno del Mefistofele coglie sempre nel vivo alcun lato della vita. L’ironia dell’uno procede troppo alla svelata, pende spesso nel declamatorio, si continua tropp’oltre, ed è frastagliata di bestemmie e d’invettive che troncano il riso; l’ironia dell’altro è leggera e quasi sfumata nella forma, ma cosí seria ed incisiva nel suo significato, che ti fa crollare il capo e meditare. Quello che manca al Guerrazzi non è tanto la concezione quanto la rappresentazione. Egli non ha l’intuizione immediata e diretta del fantasma, e non vi si affisa e non se ne innamora; di rado lo coglie mobile e vivo, di rado la metafora scintilla spontanea dal di dentro della visione poetica. Onde, in luogo della schietta e limpida esposizione omerica, tu lo vedi correr di cosa in cosa, cercar rapporti lontani, ed uscir fuori con comparazioni e metafore sbrigliate e strane, che sorprendono senza illuminare. Niente di natio e di semplice; il Guerrazzi è come un parassito sazio e di cattivo gusto, a cui il cibo non sa piú, se non sopraccarico di spezie e di aromi che diletichino il suo palato; le cose piú comuni e volgari egli studiasi di esprimerle in forma inconsueta e peregrina: mostri sono le sue concezioni, mostro il suo stile. La sua mente è si mobile, che talora gli avviene di dimenticarsi affatto del fantasma e di correr dietro all’altra cosa cui lo rassomiglia. Ecco in che modo descrive il tramonto del sole. «Le vette de’ campanili, le cime de’ monti, le nuvole lontane pareva si affaticassero a ritenere un palpito di raggio, in quella guisa stessa che i cari parenti da balcone da loggia o da colle sventolano al pellegrino che si allontana un panno bianco, finché la sua forma non si confonda colla bruma della sera... Oh Dio! Egli è presso a sparire; gli occhi della madre, offuscati dalle lagrime, non lo distinguono piú; ella se le asciuga col velo per rimirarlo ancora; adesso ella li tende piú alacri che mai... ahimè! il suo figliuolo è sparito — quando lo rivedrá?» Voi vedete che il Guerrazzi preso da improvvisa tenerezza tien dietro con l’occhio al pellegrino, ed ha dimenticato quel povero raggio, il «palpito» di quel povero raggio. Il vero poeta è signoreggiato dai fantasmi ch’egli evoca e vive nel mondo della sua fantasia; ma il nostro scrittore distratto ed indocile non ci sa stare, e sembra un uomo preoccupato, il cui orecchio riceve i rumori vaghi delle voci intorno, ma il cui animo è altrove. Il racconto non gli pare altra cosa che una bella occasione per cacciar fuori tutto quello che gli brulica nel cervello, per disfogar la sua bile, per mettere su le sue opinioni con un’aria tra il predicatore ed il satirico. Dee egli dire ch’è sera? ed eccoti un’elegia sulla morte delle umane cose, e poi un saluto alla Luna, e, per giunta, un pezzo di storia romana ed un bisticcio sulla cittá eterna. Ti deve dire che Luisa amò Giacomo, perché lo sapeva fuor di misura infelice? E vien fuori una dissertazione sulle qualitá della donna, sul culto di Maria, sulle corti d’amore. Dev’egli descriverti la bellezza di Beatrice? Aspettati un discorso sulla bellezza e sull’amore. Le quali digressioni sono spesso nel fondo vuote generalitá e luoghi comuni, alla cui volgaritá fa un grottesco contrasto la pompa delle frasi ed il lusso delle metafore. E perché il Guerrazzi non sa vivere in mezzo al concreto, e sente il bisogno di uscirne e di correr subito al generale ed all’astratto, tal che innanzi ad una bella ti ragiona di bellezza, innanzi ad ima donna generosa ti parla delle virtú del sacrificio, e se vede il Tevere ti fa un compendio di storia romana? Perché egli non sa obliarsi nelle creature della sua fantasia, non le ama, non si prostende innanzi a loro, come il pittore innanzi al San Girolamo da lui dipinto: e non si sente turbato al loro cospetto di quel misterioso e sacro turbamento, che dicesi «estro». In luogo di dire alla sua creatura: — Sorgi e cammina: — lasciandole tutta la sua libertá di persona, e contentandosi di accompagnarla con l’occhio e di scrivere quello che vede, l’autore dice: — Tu sei la mia fattura; tu mi appartieni; — e la tiene perpetuamente in tutela, intromettendosi ne’ suoi movimenti e mescolando sé nel suo linguaggio e nelle sue passioni, sicché all’udire Beatrice inveire contro la Lupa, e difendersi con tutti i luoghi topici del verisimile e degli aggiunti, per poco non diresti che ti sta innanzi lo stesso avvocato Guerrazzi in gonna. Le sue creature non sono per lui, come pel Tasso, persone vive, che egli vede, a cui parla, ma vane ombre che egli fa e disfá, balocchi e trastulli, che in un momento di buon umore dispone cosí o cosí insino a che ristucco del giuoco te li pianta lá, e fantastica e declama tutto solo per ritornar al giuoco e per ismettere un’altra volta. Questo continuo va e vieni, che nell’Ariosto ha un profondo significato e che i moderni chiamano «umore», a cui mira talora il Guerrazzi con palese ambizione, senza pervenirvi giammai, non è in lui altro che levita di fantasia, potenza creativa in difetto. Di rado egli vede il fantasma in sé stesso, nella purezza de’ suoi lineamenti, nella sua semplice veritá, ma spesso va a cercarlo in altri obbietti anch’essi vaghi e confusi. Né mi fa maraviglia ch’egli abbia avuto ammiratori del suo ingegno, ma non discepoli: non ci essendo cosa che repugni tanto all’arte moderna, quanto questo spesseggiare rettorico di tropi e di figure. Noi non abbiamo piú un mondo poetico: le antiche favole sono ite via: Giunone, Cupido, Minerva non sono piú termini dí paragone: il paradiso, gli angioli, il sole, la luna, le stelle sono materia rettorica vieta ed esausta! i fiori, i mari, i monti, le valli, gli uccelli, le fonti sono state percorse in ogni verso; prosopopee, personificazioni, invocazioni, allegorie, sono freddi artifizi, che non destano piú illusione; il nostro universo poetico è un vecchio repertorio di pensieri e di frasi, dove tutto è oramai trito e ripetuto a sazietá e perciò senza effetto. Fra la natura e il poeta s’era messo di mezzo tutto questo frasario tradizionale che non ha piú senso, tutta intera una serie d’immagini e di comparazioni di seconda mano; e la poesia moderna è risorta, quando ha osato di scuotere da sé tutto questo linguaggio di consuetudine e porsi in libera e diretta comunicazione con la natura. Veduta la natura da presso, come la vede il fanciullo ed il popolo, noi abbiamo riacquistata la freschezza della prima impressione, e le nostre immagini son tornate giovani e schiette. Alle perifrasi abbiamo sostituito i vocaboli propri, all’eleganza l’evidenza, alla cantilena l’armonia, alle comparazioni la rappresentazione, all’artificiato il naturale: leggete il Leopardi ed il Manzoni, maestri di semplicitá e di veritá. Ma il Guerrazzi ha voluto metter mano in questo vecchio repertorio: e che ci ha trovato? Quelle immagini erano prima comparse nella candida seijiplicitá della prima impressione: i poeti posteriori le ripulirono, le ornarono, le illeggiadrirono; poi vi si aggiunse il belletto, si raffinarono, si esagerarono. Che ha fatto il Guerrazzi? Ha aggiunto il falso al falso, il liscio al belletto; esagera la metafora e te la conduce fino alla più prosaica realtá: onde il raffinato, l’acuto, l’eccessivo, il mirabile monstrum del suo stile, con che ei s’industria di dare novitá al vieto e splendore alla ruggine. Prendiamo ad esempio la descrizione ch’ei fa della bellezza di Beatrice. «Bellezza divina», «angelica», «celeste» sono ormai luoghi comuni; il Guerrazzi s’ingegna di trovar qualcosa di nuovo; e che trova? «Era bella come il pensiero di Dio, quando mosse innamorato a creare la madre de’ viventi; — era cara quanto i suoi ricordi.» Che cosa vedea l’autore quando scrivea cosí? Egli non vedea nulla, né Beatrice, né «il pensiero di Dio». E noi non vediamo nulla. Ci sta dinanzi un’astrazione filosofica, anzi che una visione poetica. Egli ha diviso da Dio il suo pensiero e ne ha fatto un essere; rimane a dargli una faccia Noi immaginiamo piú o meno il Cristo, lo Spirito Santo, il Padre eterno; chi mai ha immaginato il «pensiero di Dio»? «Cara quanto i suoi ricordi»; che cosa sono «i ricordi» del «pensiero di Dio» o della «madre de’ viventi»? Gli antichi aveano legioni d’iddii e di dee per dare un’immagine ideale della bellezza, ciascuno con la sua faccia, co’ suoi attributi, con la sua storia; noi abbiamo l’angelo e Dio, e il paradiso e il cielo e il sole; ma tutto questo è rancio pel Guerrazzi, ed ei mi trova «il pensiero di Dio»; il qual raffinamento di stile voi non potete causare, quando vi ostinate a rimanere in un mondo poetico inaridito. Cosi la bocca sinora si è rassomigliata alla rosa, il fiore prediletto de’ poeti, e «rosee guance», «labbra rosate» sono modi scesi ornai fino nelle conversazioni volgari. Come si fa dunque? Rappresentatemi il fantasma come lo vedete con la vostra fantasia, o descrivetemi l’impressione che produce sopra di voi: in questa guisa voi canserete sempre il vieto ed il comune. Ma no. Il Guerrazzi vuol farmi assolutamente un paragone, e rassomiglia la bocca non piú alla rosa, ma «ad un fiore testé colto in paradiso, tutto fragrante di divinitá»! Che cosa è egli questo fiore? E noi rispondiamo: — Deve essere qualche cosa di bellissimo: — ora il «deve essere» è un semplice giudizio della mente, che non ha in sé niente di estetico. Il fiore di paradiso non è, come la rosa, un obbietto determinato e chiaro, ma un non so che; e se giungiamo a dargli una figura, egli è perché lo supponiamo simile alla bocca e gli diamo quella forma e quel colore. Allorché noi facciamo un paragone, vogliamo che il secondo termine ci aiuti a immaginare il primo; ma qui la comparazione è a rovescio, ed il primo termine ci dá una immagine del secondo. Ma eccotene un’altra. I poeti hanno finora considerato il riso come l’espressione spirituale ed ideale della bocca; ma ciò è troppo volgare, ed il Guerrazzi attribuisce quest’uffizio «alla fragranza» della bocca, la quale diffondendosi intorno alla persona, fa reputarla non terrena creatura: cosí da oggi innanzi consulteremo non piú i nostri occhi, ma i nostri nasi. Ma questa poi è novissima. La Beatrice ha sul mento la fossetta, e sapete voi perché? Perché «l’Amore con le mani di rosa... appoggiandole il dito sul mento per contemplare la sua gentile fattura, le lasciò la fossetta; — segno veramente d’amore». Ecco il dio Amore ritornato in iscena dopo lungo esilio con le mani di rosa e col dito sul mento delle fanciulle! Il Guerrazzi è grande fabbricatore di nuovi dii; né vi è quasi descrizione che non vi si senta «la fragranza» di qualche ignota divinitá! «La Preghiera... potrebbe ben riposare su quella fronte per librarsi quinci piú pura verso il trono di Dio. La Sventura meno audace di Cupido, batte le ale intorno alla fronte, ma le vien meno lo ardimento per lasciarvi sopra una traccia inamabile, e passa oltre.» Che la Sventura batta le ale intorno alla fronte è una forma di dire poco semplice e castigata, pure vi è entro alcuna ombra di veritá quanto all’impressione; ma che, per tema di guastare quella bella fronte, ella si arresti e passi oltre, è una pura sottigliezza, un puro giuoco di spirito, che non chiude in sé alcuna veritá né d’immagine né di sentimento, e mi ricorda quella famosa quartina tanto e cosí a sproposito ammirata nelle nostre scuole:
Qui giace Eugenio, il folgore di Marte Che le schiere ottoman’vinse e conquise: Temè di lui la morte; usò quest’arte: Pria l’immerse nel sonno e poi l’uccise. |
Ma ecco un’altra novitá! Finora gli occhi sono stati chiamati le «finestre dell’anima»; e quando altri ti guarda fiso e tu ti senti poco pura la coscienza, i tuoi occhi involontariamente s’abbassano e vanno scappando qua e lá, come dice ammirabilmente il Manzoni; ma quindi innanzi non sará piú l’occhio che tradirá i nostri segreti, ma il petto; e noi, quando altri ci guarda, ci porteremo frettolosi le mani al petto per tema che l’occhio non passi oltre la carne e giunga diritto al cuore. Tale è almeno l’effetto magico che produce l’occhio acuto e splendido di Beatrice, quando considera cosa o persona. «Allora chiunque le stava davanti, se non si sentiva innocentissimo di cuore, portava frettoloso la mano al petto, dubitando che lo involucro della carne non bastasse a celarle i pensieri riposti della colpa.» «Gl’innocentissimi» poi lacrimavano di tenerezza! — È riuscito almeno il Guerrazzi a farci dimenticare il vecchio repertorio? In tanto fracasso di metafore trovi poi luoghi comuni da disgradarne le esercitazioni rettoriche delle scuole. La quasi «parentela» che è tra il cielo e l’occhio di Beatrice, formati «col medesimo azzurro» e nunzii ambedue della gloria del Creatore: «l’aria piú chiara, il cielo piú lieto» ad ogni girar di quegli occhi; e la luce delle fiaccole che si «raddoppia» per virtú sempre di quegli occhi; il piacere che si versa a onde, la noia che soffia «un alito ghiacciato sulla universale esultanza», sono un tritume di cattivo gusto, vecchia esagerazione congiunta con la nuova.
Il medesimo è a dire quanto al maneggio degli affetti. Il Guerrazzi pone studio a far gagliarda impressione sui sensi per giungere al cuore, adunando in una sola situazione circostanze estreme, che riempiono di maraviglia e di terrore. Qua vedi un fanciullo morente, e il padre ebbro di furore che gli si avventa per finirlo, e la figliuola che gli punta la spada sul petto e gli dice: «Padre... non ti accostare...». Lá questo stesso fanciullo sulla bara, ed il padre che prova di abbracciare la figlia, e costei che urtandogli la bara addosso grida: «Fra me e voi io pongo il vostro parricidio». Altrove è una grotta, dove i banditi hanno rinchiuso il conte Cenci, trastullandosi a tormentarlo con le piú grottesche invenzioni. Appresso è una mostra di tutti i generi di tortura, di cui si fa prova sulle carni di Beatrice, quasi cadavere in una scuola d’anatomia. Ammazzamenti, latratimi, rapimenti, arsioni, tutt’i delitti registrati nel codice penale con le circostanze piú gravi, trovi qua entro. Sembra che l’autore si diletti piú che altro di squadernarci davanti i piú svariati spettacoli di patimenti fisici, i quali per sé non sono buoni che a ingenerare il piú prosaico disgusto. Il dolor fisico non è poetico in sé stesso, ma solo in quanto vaglia a concitare le intime forze dell’animo, si ch’elle prorompano fuori con impeto. E però stupidamente prosaica è la morte di Giacomo; ed il dimenarsi che fa il Cenci sotto la bara del figlio, è non so se piú atroce o piú grottesco. Nella grotta l’autore ha creduto di far grande effetto sulle immaginazioni, congiungendo col patetico il fantastico; ma quel fantastico non c’illude un momento, intravvedendosi sotto di esso uno scherzo grossolano, e quel patetico scompagnato dal rimorso e da ogni altra passione interiore, rimane puro strazio di corpo. Si crede comunemente che il difficile ed il capitale nell’arte stia in trovare situazioni che facciano effetto. E si dimentica che l’effetto non è posto tanto nella situazione presa in sé stessa, quanto nell’impressione che produce sui personaggi: l’effetto è dentro di noi, nell’anima. Che giova che voi mi presentiate dinanzi cose orribili, quando non sapete farmene scintillare l’orrore? A che tanti colpi di scena, quando la poesia rimane nella scena e non rampolla di dentro dall’anima; quando voi sorprendete i miei sensi senza toccare il mio cuore? Ecco: voi ci ponete dinanzi un padre, una figlia, un fanciullo nelle piú pietose condizioni, e sembra quasi che voi ci vogliate cosí apparecchiare alla pietá, e ci gridate a piena gola: — Attenti, lettori, che ora vi farò piangere. — Ben piangono i vostri personaggi; il lettore non piange mai: non mancano le situazioni patetiche, manca il patetico. Quando l’uomo è commosso, la fantasia diviene vivacissima e rapida, e ci si aggruppano innanzi le circostanze piú tenere, piú affettuose del fatto, ingegnose a tormentarci, infino a che l’impressione si manifesta in singhiozzi, in pianti, in gesti violenti, in moti incomposti, e poi ritorna la parola, e poi ritornano quei pianti e quei moti. Onde quel dire interrotto, veemente, quel ripetere, quello svagare, e poi quel ripetere ancora, quei subiti passaggi, quegl’improvvisi ravvicinamenti, quelle immagini pittoresche, quei concetti ingegnosi, quelle ipotesi e quelle conseguenze tanto lontane dalle premesse, quel mescolamento di frasi incoerenti, di apostrofi, d’interiezioni, in che è posto quello che dicesi l’eloquenza dell’affetto. Nell’Angiolo da Padova di Victor Hugo, il tiranno annunzia alla moglie che si apparecchi a morire; qui il sostituto dell’avvocato fiscale legge a Beatrice la sentenza di morte: la situazione è nel fondo la stessa. Le parole della veneziana sono eloquentissime e pietosissime, quantunque ci si senta quella prolissitá sazievole, che è difetto proprio dello scrittore francese, e la fantasia lussureggiante e intemperante di un poeta rimaso giovane a sessant’anni. Nelle parole di Beatrice è notabile la povertá delle immagini e la volgaritá de’ pensieri. — «Oh Dio! Dio! com’è possibile ch’io, cosí giovane, abbia a morire? Nata appena, perché vogliono in modo tanto acerbo cacciarmi via dalla vita? Signore... Signore, qual colpa ho io commesso? La vita? Ma sapete voi la vita a quindici anni che sia?» — Il Guerrazzi esprime i sensi di Beatrice come critico, non come poeta. Il critico ci dice che l’uomo non crede possibile una grande sventura, e si fa piú volte ripetere la notizia, quasi non prestasse fede al suo orecchio. Ma il poeta ponendo in atto la regola, non dirá: — Com’è possibile ch’io debba morire? — parafrasando la regola critica; ma dirá per esempio:
. . . . . . . . . . . . . . Come Dicesti? egli ebbe? non viv’egli ancora? Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome? |
Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome? |
Ma voi, quale immagine mi avete voi trovato per rappresentarmi la vita di quindici anni? Le vostre parole non sono che il tema, l’arido tema di quello che dovevate rappresentarmi. Confortandola il confessore, Beatrice risponde: «Ma il modo, padre mio, ma il modo... oh!» e piú appresso: «E la infamia, padre, l’obbrobrio rovesciato sulla mia memoria?»; e da ultimo: «Ah! a morte!» e sviene. Vi è qui quello che io ho chiamato l’eloquenza del dolore? Quando altri si trova in cosí trista condizione, il suo pensiero è rapito in qua e lá da una doppia onda. Da una parte il presente ti tira a sé, e mai non ti si è affacciato si bello, come ora che sei presso a perderlo. Dall’altra ti si erge dinanzi il lugubre apparato, il patibolo, il carnefice, la folla, e quelle imprecazioni, quel mostrare a dito, quegli sguardi pieni di curiositá, di una crudele curiositá: e in tanto tumultuare confuso d’immagini ne scoppia fuori qualcuna, che ha virtú di richiamar tutte le altre. E voi non dite allora: — Ma il modo, padre mio, ma l’infamia! — obbiezioni ridotte ad una espressione algebraica, senza colorito, senza immagini, senza sentimento. Chi parla cosí mostra che innanzi alla sua fantasia non si affaccia né quel «modo», né quella «infamia». Che debbo poi dire delle esortazioni del confessore? Se lo scrittore avesse voluto rappresentarmi un prete uso a questi uffízi, e che confessa, comunica, dice messa ed assiste i moribondi con la tranquilla e stupida indifferenza di un ministero degenerato per la consuetudine in mestiere, se avesse voluto pormi questo prete di rincontro a Beatrice, come una ironia, bene sta. Ma il cappuccino è un uomo che ha mente e cuore e pratica della vita: e sapete voi che cosa sa dire a Beatrice? «La vita è soma che va crescendo con gli anni. Felici i non nati a portarla!... leviamoci presto da questa mensa, dove i cibi sono cenere e bevanda le lacrime... mille vie appresta la Provvidenza per uscire di vita; una sola per entrarvi; la piú sollecita è la migliore; ma benedette tutte purché conducano al paradiso... Che cosa sono i secoli davanti al soffio del Signore? La fama passa e il tempo che seco se la porta. Sopra la soglia dell’Infinito gli anni non si distinguono neanche come polvere. Volgi, o figlia, il tuo sguardo al cielo e dimentica le cose terrene.» Grazie, grazie, padre santissimo: tutte queste cose noi le sapevamo e sapevasele Beatrice. Ella dice: «Sapete la vita a quindici anni che sia?» e voi rispondete: «La vita è soma che va crescendo con gli anni». L’infelice innocente sente risonarsi all’orecchio le imprecazioni della folla: — Ecco la parricida! — e voi rispondete: «— Questi sono i pensieri della polvere. La fama passa e il tempo che seco se la porta. — » Ah! voi siete ben crudele con questi vostri luoghi comuni, che sembrano rubati al discorso che tenea apparecchiato il sostituto dell’avvocato fiscale; e ben fece costui, udita la vostra orazione, a riserbarsi la sua arringa per un’altra occasione. Io ho perduta mia madre, e se qualche amico mi fosse allora capitato avanti, e mi avesse detto: — Consolati! tutti dobbiamo morire; il tempo va attorno con la falce; ella è felice, perché è ita in paradiso, ecc. ecc. — io gli avrei dato non so se piú del crudele o dello stupido. Vi è un punto, in cui il Guerrazzi è veramente affettuoso, quando, stando egli in prigione, descrive gli affanni di Beatrice prigioniera, rappresentando nel dolore di lei il suo dolore. «O nuvoletta bianca, che traversi questo palmo di cielo che mi è dato fruire, io non vedrò, quando arrivi a baciare la luna; o stella cadente, io ti ho veduto muovere, ma non posso vedere ove vai a finire; o foglia che voli sopra l’apertura del mio carcere, dove terminerá di trasportarti il vento? Farfalla, le rose che desideri, sono lontane di qui; io non vedrò quando innamorata accarezzerai con l’ali il tuo fiore diletto.» Quanta veritá è in quel «palmo di cielo»! quanta delicatezza nelle immagini! quanta tenerezza nei lamenti, quanta soavitá nella malinconia! E, cosa rara, il Guerrazzi non solo qui è vero, ma è semplice: la semplicitá è compagna della veritá come la modestia è del sapere. Ma ecco rivenir su il vecchio Adamo: seguitate... «No, viva Dio; per negare la vista di queste immagini non basta che la crudeltá e la paura avviluppino nelle loro spire un’anima maligna, come i serpenti di Laocoonte; bisogna che al lurido sabbato dei suoi pensieri intervengano ancora la superstizione e l’invidia; la prima, furia di fuoco, che osò di seppellir vive le tenere fanciulle. le quali, odiati i riti infecondi di Vesta, sacrificarono a Venere, alma genitrice della natura; la seconda, furia di ghiaccio, che accecherebbe il genere umano, caccerebbe dal cielo l’occhio del sole, vorrebbe insano anche Dio, perché essa è cieca e folle.» Dunque è bastato l’animo a Guerrazzi di turbare tanta semplicitá co’ «serpenti di Laocoonte», col «sabbato dei pensieri», con la «furia di fuoco» e la «furia di ghiaccio»? In veritá nel vedere tanta bellezza cosí miserabilmente guasta dalla stessa mano, direste quasi che l’autore porti invidia a sé stesso, e che, quando noi alcuna volta ci sentiamo inchinati a disdire il nostro severo giudizio, il vecchio peccatore si diletti di susurrarci all’orecchio: — Io sono sempre quel desso! —
Questi difetti che abbiamo notati nella maniera del Guerrazzi, non procedono da imitazione né da opinioni preconcette, ma dalla qualitá del suo ingegno. Tutte le cose che gli passano dinanzi prendono una faccia ed un colore, si ch’ei ti è facile di distinguer tra mille il suo modo di dettare. Non vi desideri mai splendore e ricchezza di colorito ed in certi momenti felici, abbandonandosi al suo argomento, riesce semplice ed eloquente. Ne’ suoi primi lavori la sua originalitá è congiunta con una certa vivacitá e freschezza, che non è senza attrattive; ora del suo stile egli si è fatta una maniera, una consuetudine, ed è l’imitatore di sé stesso. Si dice che il laborioso scrittore abbia posto mano ad un nuovo romanzo, di nobilissimo argomento; possa riescirvi tanto felicemente da farci dimenticare la Beatrice Cenci!
[Nella rivista «Il Cimento» di Torino, voi. V, pp. 23-36, gennaio i855.]