Saggi critici/«Satana e le Grazie». Leggenda di Giovanni Prati
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«SATANA E LE GRAZIE»
Leggenda di Giovanni Prati.
Se uno spettatore, dopo di aver battuto le mani ad un re di corona in sulla scena, andando dietro al palco scenico, cogliesse quel re di corona, poniamo sia Agamennone, nell’atto che sta giocando a pari o caffo con Egisto, perderebbe issofatto ogni sua illusione, parendogli di vedere colá una parodia ed una caricatura di quello che si fa al cospetto del pubblico. Il simile è di un lettore che cogliesse il poeta nell’atto ch’ei scrive. Un maledetto calamaio che si riversa sullo scrittoio, un demonio di penna che incespica ad ogni tratto, uno stridulo urlo dalla via di qualche venditore, il suono quotidiano della lanterna magica nel cortile, un sigaro che non vuol fumare, un seccatore che non ti vuol lasciare, e tra un verso e l’altro una maledizione, una buona bestemmia, sono spesso gli accessorii prosaici e ridicoli di una seria poesia. Giovanni Prati ha avuto il coraggio eroico di rappresentarci quello che avviene dietro il palco scenico prima che si comparisca in iscena, e di far egli stesso una parodia ed una caricatura della sua poesia. Il che si fa quando la poesia in apparenza seria ha un fondo comico, il quale si svela con magistrale artifizio nella natura prosaica del prologo, che pare un accessorio, ed è esso il lavoro. Sicché, venuto al punto che il poeta manda all’inferno il sigaro, la musa e l’Aracinto, e pone in bocca al sigaro una flebile elegia, io mi sono fermato, e mi son detto: — Diavolo! Satana e le Grazie sará dunque uno scherzo, una mascherata. Il poeta si è voluto burlare del lettore. Pur buono che me ne sono accorto a tempo! Non sarò io quel gonzo. — E leggo e rileggo. E mi aspettavo ad ogni tratto di vedere le Grazie trasformarsi in topolini, o in gatto, o in non so che altro, e Satana vanire nel fumo di un sigaro, quando mi sono dovuto accorgere in ultimo, che la concezione è di una tragica serietá, e che quel prologo vi sta... a che cosa? La veritá innanzi tutto: vi sta a puro sfogo di bile. Cosi è. Sotto quel prologo e quella licenza non vi si cela alcuna intenzione artistica. Il poeta si è detto: — Se il mio Satana passa ai posteri, vi passeranno altresi i miei nemici col marchio indelebile ch’io ho loro stampato in fronte. — Certamente, e vi passerá pure qualche altra cosa: la vanitá offesa del poeta. I posteri diranno: — Ecco un poeta che nel concepire Satana e le Grazie, nel ritrarre le vanitá del genere umano, ce ne dá, senza saperle, in sé stesso un esempio. — E diranno: — Ecco letterati, che un tempo stavano col capo nel guscio sotto le unghie sospettose della pubblica autoritá, e poi usano la libertá a straziarsi oscenamente, a modo di plebe, occupandosi del loro piccolo io e tu, quando c’era una vita pubblica ed un’Italia da conquistare! — Per buona fortuna è probabile che queste ignobili guerricciuole rimangano, come si dice, in famiglia; e che i posteri, con in capo cose piú gravi, non degnino della loro attenzione le nostre miserie.
Giovanni Prati si sente superiore d’ingegno a quelli ch’egli reputa suoi nemici: quanto a me, non so se ne abbia e quali. Certo egli esagera; e se nelle stizze umane si togliesse tutto ciò che vi aggiungiamo di nostra fantasia, molte ire omeriche diventerebbero collere di topi e di ranocchi. Il pubblico, come spettatore tranquillo, fa una giusta estimazione delle cose e ride di queste esagerazioni, ride a spese degli uni e degli altri; e ne ha di che. Non di meno, in queste gare vi è qualche cosa di ben serio. Al tale vien detto un frizzo, un motto, una parola imprudente, senza malignitá, per pura celia. Ma gli uomini sono disposti a vedere una intenzione dove non è che leggerezza, e rispondendo provochiamo risposte, sicché a poco a poco si giunge davvero alla malignitá ed alla perfidia. Se quelli che si chiamano nemici potessero vedersi e conversare alquanto insieme, s’intenderebbero di leggeri: l’uomo esaminato da presso non è cosí cattivo come pare e come talora egli stesso si crede. Giovanni Prati, a sentirlo, disprezza i suoi nemici, non se ne cura, non guarda si basso; ma quel continuo dirlo ti mostra che egli è colpito nel cuore, e coloro gli turbano la serenitá della vita. Pure, in quei suoi dispetti niente è di serio e di profondo; le sue ire non giungono fino all’odio: sono un calore d’immaginazione che s’evapora con la frase. Ed io son certo che, guardando piú riposatamente la cosa, e meglio sollecito della sua dignitá, egli vorrá purgare una seconda edizione di questo prologo e di questa licenza.
Cominciamo noi a dare il buon esempio; dimentichiamo prologo e licenza, e tiriamo dritto alla poesia. Ella è come un palagio a tre ordini: in fondo vi è una novella, che si trasforma in leggenda, e poi la leggenda si trasforma anch’ella in qualche cosa che simula l’epopea.
Tre giusti: un prete, un magistrato, un guerriero, sono da lusinghe femminili tratti al delitto, e pentiti e confessi sono impiccati in terra e glorificati in cielo. È una novella, come la Pia e l’Ildegonda, una novella cristianissima quanto al concetto, e ricca di situazioni patetiche.
Gli antichi attribuivano all’opera di potenze soprannaturali quello che noi spieghiamo con le umane passioni. Nel medio evo l’eroe de’ racconti era il diavolo tentatore, che, con false apparizioni, turbava gli eremiti ed i santi dalle loro pie contemplazioni. Il Prati ha congiunto insieme il paganesimo e il medio evo. Il suo Satana è un gran personaggio, che non degna di scendere egli medesimo all’uffizio di tentatore, ed elegge a questo le Grazie. La novella si trasforma in leggenda.
Ma, al di sopra di questa lotta tra l’uomo e le potenze soprannaturali, vi è un’altra lotta tra esse potenze soprannaturali, tra le Grazie e Satana. Le Grazie sono vinte da Satana, e Satana è vinto da Dio. Il racconto diviene una storia teologica del genere umano, l’antico antagonismo tra il bene ed il male risoluto in una regione superiore. La leggenda si trasforma in epopea.
Di queste diverse forme Prati ha scelto la leggenda, che è come un centro che dee attirare nella sua orbita e assimilarsi quanto nel racconto vi è di epico e di umano: la novella e l’epopea.
La leggenda è il racconto di fatti individuali spiegati con l’opera di forze soprannaturali. È un genere che sorge naturalmente in tempi che l’uomo, inconscio di sé e della natura, attribuisce tutto all’opera di esseri invisibili, de’ quali la sua fantasia popola il mondo. Nella leggenda trovi uomini vivi, spontanei, creduli, aperti a tutte le impressioni: i caratteri e le passioni appariscono nell’azione, in un motto, in un gesto, senza coscienza di sé come caratteri e passioni; tal che non sapendo spiegarsi quella forza irresistibile che li trae fatalmente all’opera, s’immaginano gli uomini di essere ammaliati ed affascinati da una forza esteriore invisibile, Venere, o il Demonio, o quale si sia il nome suo. L’interesse principale cade qui, dunque, in quello che oggi dicesi «il fantastico», e che quivi è parte di realtá. La buona fede del narratore e degli attori, una certa ingenuitá e semplicitá fanciullesca, una vivacitá di impressioni natia e non ancora contenuta o trasformata dalla riflessione o dalla consuetudine, l’evidenza e la personalitá di quelle apparizioni che si credono reali, ed i costumi, le istituzioni, le maniere, tutti gli accessorii di quel mondo primitivo concordanti con quell’appassionata ignoranza, costituiscono il fondo poetico dell’antica leggenda. Tale è la mirabile leggenda del carbonaio presso il Passavanti, dettata con una evidenza di fantasia ed un vigore di stile che ti ricorda la Divina Commedia, leggenda anch’essa, o per dir meglio, l’epopea della leggenda.
Questo genere nasce naturalmente, e naturalmente sen va. L’epopea cade nel romanzo, e la leggenda nella novella. I caratteri e le passioni, come motivi interni dell’azione, sono ora rappresentati in tutte le loro gradazioni, in tutto quell’avvicendarsi d’impulso e di resistenza, in che è posto il maggiore attrattivo di questo genere; il quale perisce per la sua propria esagerazione. quando degenera in un’analisi di passioni prosaica e rettorica, e l’azione vi sta a dare risalto ai sentimenti, e le osservazioni tolgono il luogo alla rappresentazione.
Allora si ritorna alle forme antiche, e la poesia si rinsanguina. Ricomparisce l’Olimpo e Satana: la novella si marita con la leggenda.
La leggenda moderna è lo stesso che l’antica? Quando leggiamo il racconto del carbonaio, nessuno domanda: — Che cosa ha voluto fare l’autore? — L’autore ha voluto raccontare un fatto: ecco tutto. Ma quando Prati, in luogo di descriverci le passioni che condussero quei tre giusti al delitto, vi caccia in mezzo le Grazie e Satana, non ci è lettore che non domandi a sé stesso: — Che cosa ha voluto far Prati? — Il lettore volgare ragiona cosí: — Prati sa che quei tre giusti furono sospinti al male dalle loro passioni: ficcarci in mezzo le Grazie che si fanno donne per sedurli, la è troppo: non ce la dará ad intendere. Le Grazie sono ombre ed apparenze, sotto il cui velo ha voluto adombrare qualche profondo concetto. — Ed eccoti i lettori tutti dietro al concetto di Prati; e chi gliene affibbia uno, chi un altro, in mezzo alle alte risa di due persone, del Fischietto e del poeta. Il Fischietto nella sua qualitá comica è il ghigno del secolo decimonono, che guarda con una curiositá poco riverente alla nuditá delle Grazie, e le trova poco decenti, si beffa di Satana, spauracchio de’ nostri maggiori, e, volgendo un’occhiata di compassione al poeta, si stringe nelle spalle e conchiude: — È matto! — Il poeta, conscio egli solo del suo segreto, se la ride sotto il muso, con l’aria di chi ci dica: — Stillatevi pure il cervello; non l’indovinerete. — Ma Prati ha veramente un segreto? Ha voluto egli celare sotto la sua finzione una veritá teologica o filosofica o morale? Se cosí fosse, mi permetta che alla mia volta io rida di lui. La critica italiana è dunque caduta si basso, che noi non possiamo gustare una poesia, se non vi «peschiamo sotto un concetto scientifico? Noi non concepiamo ancora la poesia come arte; non ci contentiamo ch’ella ci dia ciò che solo può darci, un godimento estetico, e ci avvolgiamo stagnanti in opinioni permesse appena a’ tempi di Vincenzo Gravina. Volete sapere qual è il concetto di Prati? Io posso soddisfare la vostra curiositá. «Quello che fa cadere principalmente la donna è la vanitá; quello che fa cader l’uomo è l’amore sensuale. Nelle Grazie è simboleggiata la donna; ne’ tre giusti è simboleggiato l’uomo, corrispondendo que’ tre a’ tre ordini in cui si partiva l’antica societá: sacerdoti, magistrati, e guerrieri.» — Diamine! e non altro? — domanderá il lettore, che Dio sa dove era ito con le sue speculazioni. E non altro. Concetto che non solo non è poetico, ma né tampoco scientifico: noto lippis et tonsoribus, esso è divenuto proprietá del senso comune, buono al piú ad essere la moralitá di un racconto per fanciulli. Che il vecchio Esopo spiegasse sotto il velo della favola alcuna veritá morale ai suoi contemporanei, è naturale in tempi che il pensiero era ancora poesia, ancora inviluppato ne’ miti; ma che oggi si domandi alla poesia per suo passaporto questa specie di fabula docet, un insegnamento, uno «scopo morale», come si dice, gli è un falsificare ad un tempo la morale e la poesia; ciascuna ha la sua veritá e la sua ragion d’essere in sé stessa. Egli è vero che per Prati, che è uomo d’ingegno, questo concetto è qualche cosa di sopravvenuto e di appiccato, rimaso fuori della poesia, e perciò impossibile a cogliere, potendo da un racconto cavarsi le piú diverse sentenze morali. Il Tasso apponeva un’allegoria alla sua Gerusalemme per secondare l’andazzo critico del suo tempo; ed il Prati spaccia il suo segreto a quelli che nella poesia vogliono trovare un segreto.
E non di meno il lettore ripete pur sempre: — Che cosa ha voluto far Prati? — La domanda è giusta; perché il lettore moderno non può accettare le Grazie e Satana nel loro senso immediato, e vi ci vede un senso occulto. Ed anche il poeta. Lasciamo star Satana; forse Prati crede al diavolo: e forse, quando si è lasciato ire a quel maledetto prologo, non era lui, ma qualche demonio tentatore che suggerivagli: — Scrivi, scrivi: la vendetta è piú dolce del mele, come dice Omero. — Tal sia; ma alle Grazie almeno egli non ci crede. Erano realtá: ora sono per il lettore e per lui una forma vuota. Il poeta moderno può accogliere nella sua poesia le forme mitologiche di tutti i tempi; ma a patto che quelle forme divenute vacue e libere sieno da lui riempiute di un nuovo contenuto, sieno ricreate. E cosí il Minos ed il Cerbero di Dante non sono una imitazione letteraria del Minos e del Cerbero classico, ma una seconda creazione. Ora questo nuovo contenuto non dee essere giá un concetto astratto, una veritá morale; poiché la poesia non è spiegazione, ma rappresentazione della natura, e dee ritrarmela com’ella è, mobile e viva, e non come concetto e pensiero. Se il nuovo contenuto è un’astrazione, quelle forme rimangono fuori di essa, e sono semplici allegorie, segni esteriori, caratteri algebraici di un concetto che non è in loro. Il contenuto dee essere forza intima, vita ed anima, che riempia di sé quelle forme; e se pur volete chiamarlo concetto, sia pure, non disputiamo di parole; ma sia il concetto vivente, com’è il concetto di Dio nella natura, e come dev’essere il concetto dell’artista nelle sue rappresentazioni, ne abbia o non ne abbia coscienza. Se il concetto rimane nella sua purezza o astrazione, la forma in cui lo simboleggiate è una personificazione, non una persona; è l’idea, non l’ideale; è la teologia, non è Beatrice. Ora le potenze soprannaturali o mitologiche nell’arte moderna non sono questo o quel concetto filosofico, ma le stesse forze della natura e dell’uomo estrinsecate e fatte persone. Vi è stato un tempo che l’arte moderna ha disdegnato questi mezzi, e si è contentata di rappresentarci le passioni ed i caratteri nella loro realtá terrestre, sprezzando il Deus ex machina di Orazio. Oggi gli artisti si sono messi per due diversi indirizzi. Alcuni seguono per la stessa via, e, vaghi di novitá in un campo esausto, mancano di semplicitá e di naturalezza, portando le passioni fino all’ultimo raffinamento; e li vedi scendere negl’infimi ordini della societá, e correre Africa ed America in cerca di altri orizzonti e di altre impressioni. Alcuni, stanchi di questo subbiettivismo, sentono il bisogno che la poesia riabbia una mitologia, e quelle passioni rappresentano al di fuori, giovandosi a quest’effetto di tutte le antiche finzioni. Goethe compendia in sé questi due indirizzi: cominciò col Werther e terminò col Faust. La mitologia di Goethe ha in sé un contenuto moderno; Mefistofele non esce dall’umano, ed Elena stessa non è la realtá classica, ma una apparizione, un fantasma, dal di dentro del quale si gitta fuori Byron, radiante di luce. Né il fantastico nuoce alle passioni; la leggenda non uccide la novella; e vaglia ad esempio Faust e Margherita. Egli è questa viva rappresentazione de’ caratteri e delle passioni umane, sotto un velo in apparenza allegorico, che rende cosí popolare il libro di Goethe, e ci fa chiamar «divina» la Commedia di Dante. E qui è il difetto capitale della poesia di Prati. Vi manca un vero movimento ed antagonismo di passioni, senza di cui non si possono esplicare le forze interiori che animano i suoi personaggi, i quali rimangono perciò semplici personificazioni.
Le Grazie sono divinitá scadute, e, simili a’ nobili dei nostri giorni, baroni senza baronie e duchi senza ducati, elle sono deitá senza adoratori. Tutto ciò che la divinitá ha di esterno, rimane ancora: la rosea zona e le vaporose erbe dell’Aracinto. Ma l’elemento terrestre è giá penetrato in loro; si tengono ancor dee in mezzo ad un mondo mutato, e sospirano la prima grandezza. Il desiderio di un passato impossibile affretta la loro caduta, cancella ogni orma di divino, e le fa terra e cenere: Satana non fa che svolgere un germe giá preesistente in esse. È una concezione stupenda e direi anche nuova, se non fosse giá lampeggiata innanzi a Lamartine nella sua Caduta di un angiolo. È l’antitesi del concetto dantesco: non è l’umano che, a poco a poco, s’innalza al divino, ma è il divino che scende nel terrestre: è il paradiso che rovina in Malebolge. Ma Prati non ha avuto una chiara coscienza di questa concezione, e se n’è sbrigato con una inconcepibile leggerezza. Se egli l’avesse bene studiata e vagheggiata, avrebbe capito che vi si richiedeva intorno molti anni di lavoro, e che sarebbe bastata questa sola poesia ad allogarlo tra’ grandi poeti italiani, da’ quali è tanto ancora lontano. Egli ha creduto che a rappresentare la divinitá delle Grazie bastasse il dire «le dive sembianze», e «la diva Talia», ed «Eufrosine divina», e «gli orecchi divini»; e che a rappresentarle terrestri bastasse mutar loro il nome e farle piangere ed ululare. Vi è un punto in cui le Grazie sembrano prese d’amore per i tre infelici traditi, ed io che seguivo, scontento, l’andamento cronologico di un’azione arida e prosaica, — bravo Prati! — ho esclamato: qui comincia ad aver coscienza del suo soggetto. — E, volendo pregustare con l’immaginazione il diletto che mi attendevo da’ suoi versi, andavo fantasticando tra me: — Ecco, le Grazie amano i tre che avevano preso a sedurre. Elle son donne, e la divinitá non è morta ancora: vi è in loro la dea e la donna, il cui contrasto si rivela in ciò che vi ha di piú poetico, nell’amore. Ed è l’amore un sentimento nuovo ancora per le vergini Grazie, che ha per loro tutta la poesia e la giovanezza della prima impressione. Vi è tutta l’ebbrezza e la voluttá della terra congiunta con la celeste serenitá, col sentimento de’ cieli; è l’amore di un essere che si sente ancora Dio, ed è giá uomo. Qui la situazione si muove e l’interesse comincia; nell’antagonismo de’ due elementi raggia fuori la vita: non è piú una morta concezione, sono caratteri e passioni. — Ma ohimè! tutto questo rimase un bel fantasticare. Prati sembra non si sia pure accorto di avere alle mani una maraviglia di situazione, e si è spacciato in quattro versi:
— Piango, sciamò, dell’amor mio. Giá par mi D’esser fatta terrestre, e mi conturba Ogni cosa del mondo. E tu pur gemi, Aglae, con me. Chè prode era e gentile Quel tuo diletto, e noi misere e stolte Li tradimmo cosí! — |
L’amore non è qui una passione, è una cosa morta, una scolorata generalitá, come tutta la concezione: il contrasto è nelle parole; l’occhio del poeta non ha guardato nel loro cuore, né le ha innanzi nel loro turbamento; non vi è un’immagine; niente vi è di affettuoso. «Piango dell’amor mio!» Ed è la prima volta che la «divina» Eufrosine piange! è la prima volta che ella sente amore! «Giá parmi d’esser fatta terrestre.» È la prima volta ch’ella sente in sé qualche cosa di nuovo, che non sa spiegarsi. E che cosa è? Un tristo sogno:
C’incatena un tristo Sogno le menti. |
La crudel Vanitá, che il Paradiso Tolse alla prima Venere celeste, Le avea domate al re della Menzogna; Ed anco impresse di divin sigillo, Bisognava obbedirgli, onde vendetta Trar de’ regni caduti, e conquistarsi La gentil signoria dell’Universo. |
Or questo è uno spiegare, non un rappresentare: la forma può essere piú o meno poetica: il fondo rimane prosaico. Il poeta fa loro comparir Venere in sogno. Bene immaginato; né vi è lettore, che qui non dica: — Finalmente! ecco la dea della bellezza, che fará brillar loro dinanzi quel seducente avvenire, quel sogno dorato che mena le fanciulle a perdizione, ornato dei piú vaghi colori. — E noi ci aspettiamo un’affascinatrice descrizione delle glorie e le pompe e le adorazioni, e di tutte le larve e le immagini onde la vanitá pasce la fantasia delle Grazie, si potentemente che le trae ad abdicare alla loro natura. Cosi la vanitá non è un epiteto, né un essere allegorico, «la crudel Vanitá che tolse il paradiso a... Venere celeste, ecc.»; ma un vivace sentimento che informa di sé l’anima e la precipita all’opera. La nostra aspettazione rimane anche questa volta delusa: le parole di Venere sono una esortazione, o piuttosto un arido imperativo congiunto con alcune ricordanze classiche.
Obbedite a Satáno..... E se vi piacque L’olimpic’aura, e la tutela e i riti Di Venere materna, e andar compagne Delle Muse immortali, ecc....., Obbedite a Satán. |
La vanitá e l’amore sono le sole due parti per le quali le Grazie possono esser dette creature poetiche: tutto l’altro è prosa. Una femmina perfida e simulatrice, che accusa e mena alla forca colui che ha tradito, può destare pure un grande interesse estetico, quando il poeta mi sappia rappresentare le tumultuose passioni della sua anima, i terrori, i rimorsi, le esitazioni, e le audacie e le paure: tale è Clitennestra. Ma le Grazie fanno tutto questo con una divina disinvoltura, e non destano pietá né terrore, in che è posta la doppia poesia della colpa. Cosi esse non hanno propriamente un carattere, che, aiutato dalla passione, si vada dispiegando nell’azione; non hanno personalitá: eppure le Grazie di Prati, nella magnifica situazione che avea alle mani rimasa inerte, erano nate a splendere anche elle in quel coro di fanciulle immortali, di cui va superba la moderna poesia!
E Satana? Come diciamo il «demonio di Giobbe», o di Dante, o di Milton, o del Tasso, o di Goethe, o di Le Sage, diremo anche il «Satana di Prati»? È una nuova creazione, una nuova persona, che è venuta ad abitare il nostro mondo poetico?Prati gli ha voluto dare delle proporzioni epiche: è il demonio, in cui vive ancora l’Arcangelo. La concezione è vecchia, ma non ancora esausta, potendosi dal contrasto delle due nature, il satanico ed il divino, cavar bellezze ancor nuove, ove sia profondamente studiata. Ognun sa con quanta altezza Milton ci ha rappresentate queste due facce del demonio. Qui nel suo primo apparire il contrasto è rivelato in un modo si splendido, che desta una grande aspettazione. Innanzi a tanta bellezza e maestá di forme noi diciamo: — Ecco un Dio! — Ma lo «sguardo vipereo» ed il riso ironico ci fa tosto soggiungere: — È Satana. — Se non che il contrasto qui nasce e qui muore; e la bella descrizione di Prati, priva di serietá, rimane una oziosa imitazione letteraria, un’amplificazione rettorica. Manca una vera lotta in cui Satana possa mostrarsi come anima ed esplicarsi nella sua doppia natura. Nessuna grandezza di pensieri, che ti riveli l’Arcangelo memore delle battaglie celesti; nessuna profonditá di malizia, che ti annunzii il re del male; nessuna sagacia di osservazione; nessuno scoppio d’ironia, che ti mostri il demonio tentatore e schernitore. Il suo maggior tratto di spirito è dire alle Grazie: — Disgraziate Grazie! — che è una freddura. Manca a quel riso ironico l’ironia; manca a quel «vipereo sguardo» la vista del cuore umano; manca a quella maestá la grandezza. Non vi è una vera lotta, in cui Satana trovi una seria resistenza e si spieghi come carattere, in tutta la potenza delle sue facoltá: egli vince col fascino dello sguardo ed incatena col riso: è un animale che t’impetra col suo sguardo infocato. La rappresentazione rimasta esteriore non è se non una ripetizione sazievole di sé stessa: la medesima apparenza appena dissimulata sotto la diversitá delle frasi, uno stesso aggettivo prima positivo, poi comparativo, e poi superlativo, un bonus, melior, optimus. Giudichi il lettore:
. . . . . . Orribile nel volto A questo passo il re del male apparve . . . . . . il Re d’abisso Mai piú orrendo non fu nella sua tetra Maestá dell’orgoglio e della gioia. |
E parimente:
. . . . . . Giá le Celesti Sentian del bieco Iddio tutta d’intorno La presenza e l’influsso. |
. . . . . . Giá le Celesti Sentian del bieco Iddio crescer piú sempre La presenza e l’influsso . . . . . . Ché le Celesti Sentian del bieco Iddio sempre piú enorme il malefico influsso. |
Ecco un «orribile» che si fa «piú orrendo»; ed un influsso che dopo di avere avuto il suo «piú» finisce con l’«enorme». E cosí ogni volta che comparisce Satana, ti vedi innanzi il ridere e lo sghignazzare e i lampi degli occhi e il fumigare o fumare. E perché? Perché il poeta non ha veduto di Satana che l’esterno, e l’esterno è sempre lo stesso. Veduto una volta un animale, non abbiamo curiositá di rivederlo, ed il poeta non ve lo pone in iscena piú d’una fiata: lo descrive, e tutto è finito. L’uomo al contrario può comparire le cento volte in cento guise differenti, non per la diversitá del suo aspetto, ma per la sua inesausta ricchezza interiore che si mostra nella parola, e varia fino ad un certo segno anche il di fuori. E per non rimanere su’ generali, che significa questo influsso crescente, grande, piú grande, grandissimo? Che immagine o che sentimento risveglia questo nel lettore? Che immagine o che sentimento scaldava il poeta, quando scrivea cosí? Niente: la sua anima era oscura. Egli dovea mostrarci quell’influsso in qualche tratto di malizia satanica, e ne’ sofismi seducenti onde le Grazie inorpellano la loro debolezza, e cosí ci saremmo accorti che l’influsso cresceva, senza che il poeta avesse avuto bisogno di dirlo.
Prati ha sentito che in questa lotta tra Satana e le Grazie vi è qualche cosa di epico; e ve ne avvedete alle proporzioni colossali che ha voluto dare al suo Satana, ed al sogno delle Grazie, parodia di una epopea spezzata in frammenti. E veramente, a giudicare dal rimbombo del verso, ti par che il poeta stia sempre lí con la tromba in mano e con le gote enfiate; ma niente vi è al disotto, che sia propriamente epico. Né per difetto giá di materia. L’antico mondo poetico che si dissolve sotto il soffio agghiacciato di Satana, le dive Grazie, sulla cui fronte si scolpisce a poco a poco la viltá della terra, Satana vincitore degli dei e degli uomini, il quale nel momento del suo trionfo si vede sopra capo un angiolo che gli ha tolta la preda, un antagonismo tra potenze soprannaturali inferiori, che si risolve armonicamente in una regione piú alta col pentimento e col perdono, tutto ciò è ben piú epico che non le ire di Achille o i viaggi di Enea: è l’epopea primitiva, l’enigma dell’umanitá e della storia. Ma questo non è qui niente di serio: sono bolle che sgonfiano prima ancora che si levino in aria e raggino: sono i sogni confusi di fantasie giovani ed oziose, che saltano levemente di cosa in cosa senza posare in alcuna. Nessuna serietá di contrasto, di situazione, di caratteri, di passioni. L’autore ha avuto cosí poca coscienza dell’altezza in cui stava, che si affretta a discenderne. Epica è qui lo scadere del divino nel terrestre, la divinitá fatta donna, gli dei antichi che innanzi alla coscienza umana adulta si scoprono quali sono: uomini divinizzati. Le Grazie debbono cessare di essere dee, debbono divenir donne; e questo «debbono» è il fato dell’epopea, il significato epico e storico della poesia; ma qui scendono piú giú; piú giú assai della donna, piú giú del terrestre. Che elle diventino per giunta simulatrici e denunziatrici, abbiettamente colpevoli, questo non ha piú alcun senso, toglie alla poesia la sua epica dignitá, e la gitta nell’accidentale di un volgare racconto: non è piú una storia «umana»; è il caso del tale e del tale. Cosi un’alta concezione che comincia con l’Olimpo, va a finire con un assassinio, un giudizio criminale e la forca: dalla cima dell’Aracinto andiamo a cadere in un tribunale, e dalla sommitá dell’epopea nell’angustia di una novella. Il quale difetto nasce da questo: che Prati non ha con bastante maturitá considerata la sua concezione. Le Grazie rappresentano qui due parti. Da un lato elle sono dee che diventano donne, e qui è il senso epico della leggenda; da un altro lato elle simboleggiano le donne che per vanitá cadono nel male, e qui la leggenda è un racconto morale e volgare. Ora il poeta dovea scegliere di questi due concetti uno; ma, non avendoli bene esaminati, essi coesistono confusamente nel suo spirito, e si urtano e si nuocono a vicenda. Se le Grazie sono donne vane che cadono nel male, l’Olimpo e l’Aracinto e Venere e Giove e tutto ciò che vi è di epico, vi sta a pigione, e non è che rettorica, ornamento poetico: che necessitá vi è che queste donne sieno le Grazie? E non debbono al contrario essere donne, come i tre giusti, che simboleggiano l’uomo, sono uomini? Qui la loro divinitá non ha niente che farci. Ma se elle son dee, che diventano donne, la poesia sta tutta nel saper cogliere il passaggio dal divino nell’umano, dal celeste nel terrestre in tutte le sue delicate gradazioni, cioè a dire, nel rappresentare la morte dell’antica mitologia innanzi alla coscienza di un Dio spirituale: concezione cristianissima e novissima, alla cui epica altezza deve rimanere estraneo l’assassinio, la forca e il tribunale. Questa confusione di concetti fa che l’epopea è qui falsata ed affogata nel suo germe dalla novella; ma vi è almeno la novella?
La leggenda moderna sopravvenuta alla novella deve contenerla in sé: a quel candore natio d’ingenua rappresentazione esteriore dell’antica leggenda non possibile a raggiungere deve ella supplire col vivo e vario giuoco delle passioni. Volete voi estrinsecarmi queste passioni in esseri soprannaturali? Sta bene. Ma voi sapete che questi esseri non sono in fondo che le stesse nostre passioni; e questa coscienza deve apparire nella vostra rappresentazione. La passione, il carattere, la personalitá deve pure manifestarsi negli esseri soprannaturali: altrimenti avremo simboli, e non idoli, non creature poetiche. Pure, finché la lotta rimane in regioni superiori fra potenze soprannaturali, il fantastico ed il maraviglioso può, fino ad un certo segno, bastare a sé stesso. Ma qui la lotta, iniziata in alto, discende in terra, ed entrano in iscena tre uomini, che mangiano e bevono e dormono e vestono panni: qui nella leggenda penetra la novella con tutte le sue condizioni estetiche. E qual novella! Sono tre uomini virtuosi che dall’amore sono balestrati ad un tratto nella via del male fino all’assassinio; e nondimeno l’amore li acceca senza depravare la loro anima e cancellarvi ogni vestigio del giusto. Giace in fondo al loro cuore l’uomo antico, che, dopo il delitto e il disinganno, si risveglia nel rimorso e si purifica nel pentimento; onde meritano di essere riscattati dal demonio e di andare a salute. La forza irresistibile e fatale della loro passione è rappresentata al di fuori nel fascino che su di loro esercitano Satana e le Grazie; e il libero arbitrio resiste, cade e risorge. Concetto cristianissimo che esprime sotto un fatto particolare la redenzione dell’uomo dal male o dal diavolo mediante l’espiazione ed il pentimento. Questa novella è divisa dunque in tre parti: la lotta dell’uomo virtuoso contro il male, la sua caduta ed il suo riscatto. Ora, ecco in che modo Prati ha condotta la novella. Poniamo che i tre personaggi sieno A, B, C. Come essi debbono simboleggiare l’uomo in genere, e l’antica societá era divisa in sacerdoti magistrati e guerrieri, poniamo che A sia il prete, B il magistrato, e C il guerriero. Il prete predica, confessa, assiste i moribondi. Il magistrato studia i codici e le pandette, giudica e condanna. Il guerriero combatte, cavalca, marcia di está e di verno. Debbono essere tre giusti. Il prete non si lascerá sedurre da’ piaceri mondani, il magistrato comporrá discordie e disprezzerá le ricchezze. Il guerriero salverá la vita a tre disperati che si volevano ammazzare. Battezziamo ora A, B, C. Chiamiamo A Don Mario, B Eraclito, e C Ermanno, e la novella è fatta... Adagio, poeta: la novella non è ancor cominciata. Per Dio! Oggi, per voler che gl’individui rappresentino le idee, distruggiamo rappresentati e rappresentanti, individui e idee. Anche Faust simboleggia l’uomo, ma Faust è una delle piú ricche e varie personalitá che sieno in poesia. Chi è Don Mario, Eraclito ed Ermanno? Sono tre astrazioni, tre specie, tre cifre, anzi tre unitá simili, tanto che spesso mi è incontrato di confondere i nomi, essendo essi tre vocaboli e non tre persone. E se vi aggiungete le tre Grazie che anch’esse hanno ben poco d’individuale, avremo sei nomi propri, e ciascuno non desta alcuna immagine físsa nella mente del lettore. E quanto a me, confesso che non so ancora chi sia l’«inclita Nella», e se la «leggiadra Luce» sia Eufrosine o Talia, e talora saluto il guerriero col nome del magistrato, e alcuna volta ho dovuto ricorrere al libro per uscire di impaccio. Abbiamo tre unitá poste dirimpetto a tre unitá, e le prime fanno lo stesso, e le seconde patiscono lo stesso. Eva innamora Don Mario: il poeta poteva quindi soggiungere un «eccetera», cioè a dire: e cosí l’altra innamora l’altro e l’altra l’altro. Ma siccome questo «eccetera» è poco poetico, l’autore ti dice il medesimo con diverse frasi, e talora si secca egli stesso del giuoco, e ti traduce l’eccetera in italiano. Èva guarda. Luce sorride, Nella canta; la voce del prete trema; la voce del magistrato muore in un sospiro; ed il soldato è commosso da palpiti. È un giuoco di frasi, che potete cambiare o scambiare a talento; e potete ben farmi ridere Nella, cantare Èva, sospirare il soldato e palpitare il prete. Il poeta ha passato in mostra i varii modi dell’innamorare e le varie impressioni degl’innamorati, e le dispensa a dritta e a manca senz’altro criterio che il caso, dovendo pur dire lo stesso con una frase differente. Talora se ne stanca, ed ecco uscir fuori l’«eccetera» che è in fondo della situazione:
. . . . Nell’ora istessa Cosi Luce ad Eraclito parlava, Cosi Nella ad Erman. |
È una canzone con tre ritornelli, una lettera in tre caratteri, una idea in tre frasi;
Tal Reina di Mario Èva si rese; Tal Reina d’Eraclito fu Luce; Tal Reina d’Erman l’inclita Nella. |
Non vi è cosa piú contraria alla poesia, che questa vuota unitá nella quale non è alcuna differenza o pienezza di vita individuale. Il poeta è cosí condannato ai luoghi comuni. Dev’egli rappresentarmi il rimorso dei tre rei? Il rimorso è poetico quando si mescola con tutt’i pensieri e i sentimenti e le rimembranze della vita; ma come qui non ci è vita, che cosa rimane? Il rimorso concepito astrattamente, un luogo comune sotto frasi sonore.
Slánciati, o reo, del tuo cavallo in tergo. Ma su quel tergo non starai tu solo. Slánciati, o reo, su barca agile ai flutti. |
Ma tu sol non starai su quella barca. Slánciati, o reo, de’ monti erti alle cime. Ma lá pur anco in due vi troverete. Ché ostinata la larva è del Rimorso, Né spazio o tempo la affatican mai. |
Questa è declamazione rettorica, non rappresentazione poetica. Egli è vero che alcuna varietá può qui nascere dalle diverse professioni de’ tre, ed il poeta se n’è giovato. Ma la differenza di sottana, toga e spada non vi dá che qualitá astratte, senza sostantivo, cioè a dire, senza che vi stia l’uomo al di sotto, nel quale prendano individualitá e costituiscano un carattere. Non basta che ci sia il re: quel re dee essere Aristodemo o Agamennone. Ci dee essere il tale magistrato, il tale prete, il tale soldato: in questo «tale» è tutto il segreto della creazione artistica: l’uomo vivente non è l’uomo, ma questo o quell’uomo.
O Eraclito, dov’era il tuo sorriso Nobile ed alto; l’autorevol calma Della persona, e il dignitoso e forte Eloquio tuo? La vivida pupilla, Facile indizio dell’ardito ingegno; L’agil vigor; la sottil cura; il fermo Senno; la insigne intrepidezza, ecc. |
Qui ci è aggettivi e nomi astratti seguentisi a modo di dizionario, come si fa ne’ panegirici e come fa talora anche Pietro Giordani. E che altro sono i luoghi topici se non queste generalitá cavate dal genere e dalla specie, che abbassano l’arte a mestiere, e l’eloquenza a sofistica? Con questi elementi la novella è poco meno che strozzata. Nella prima parte la libertá umana dee resistere con tanto piú vigore, in quanto alla fine ella risorge e trionfa. Tutto si riduce ad una scenetta tra Èva e Don Mario. Èva finge di volersi partire per indurre Don Mario all’assassinio. È nota la scena memorabile, in cui Egisto con lo stesso mezzo sospinge Clitennestra a trafiggere Agamennone: mai Alfieri si è levato si alto. Egisto è un miracolo di malizia e di perfidia sotto un’aria d’ingenuitá e di lealtá; è il vero Satana. La turbata ed innamorata donna gli oppone una resistenza, che s’infiacchisce piú e piú con gradazioni attinte dal piú profondo dell’umana coscienza; né egli le dice giá: — uccidi il tuo marito. — È un pensiero ch’egli fa germinare in lei dalla natura stessa della situazione in cui l’ha posta. E tutto questo rimarrebbe uno scheletro, una povera ossatura, se non prendesse carne e colore nelle due persone compiutamente poetiche di Egisto e Clitennestra, nelle quali que’ motivi e quelle accuse astratte diventano sentimenti e memorie e passioni. Sentite ora Don Mario, e vi parrá ch’egli sia una di quelle maschere della nostra antica commedia dell’arte, il Pantalone, l’Arlecchino, il Dottore, dove i nostri attori improvvisavano facilmente, perché rappresentavano caratteri di convenzione con forme di convenzione. Le parole di Don Mario sono le frasi di un primo amoroso, esagerate e perciò comiche, tradizionali e perciò volgari, delle quali certi scapati giovanotti si valgono oggi per darla ad intendere a certe semplicette, che con tutta semplicitá rendono loro frase per frase.
— Che? Tu lasciarmi?... Oh, non lo dir. Perduta È giá l’anima mia. Giá gli spaventi Dell’inferno ella prova. Ah, non volerli Anticipar. Pietá di me. Non farti Maledir da chi t’ama entro la eterna Carcere de’ dannati. Or via; tu prendi Crudel gioco di me. Parla una volta; La mia vita e la morte è sul tuo labbro. — |
Aggiungeteci un «T’amo, e seguace m’avrai dovunque» ed un «Per la tua bellezza che non feci o farei?» e poi «Eva, pietá!» e poi «Eva, pietá!», e Don Mario ha parlato. Queste frasi sono cosí generali, che se mi cambiate la situazione, elle desterebbero un riso irresistibile senza mutarci una sillaba, fingendo per esempio un vecchio e sciocco innamorato a’ piedi di una maliziosa fanciulla. La scena d’Alfieri al contrario, perché ivi la situazione è discesa in tutte le particolaritá della persona, e vive ne’ minimi accessorii, non si può rendere comica senza trasformarla da cima a fondo. Nella seconda parte il poeta dee rappresentarci il rimorso de’ rei; e come un predicatore dal pulpito ei si volge con tre apostrofi a’ tre; e rammenta al prete, quando diceva messa e assisteva i moribondi e benediceva e battezzava e predicava; e rammenta al magistrato, quando sentenziava e librava il torto e la ragione; ed al soldato, quando cavalcava e combatteva e marciava; tutto questo è detto in versi risonanti, ma tutto questo non è che ricordare a ciascuno la sua professione. Questo è rettorica. Ma vi è poesia, quando il prete è invitato a cantare la messa da morto, ed il magistrato a investigare le tracce e gli omicidii, ed il soldato a cercarli; bella concezione, piena di veritá e straziante. Il rimorso qui non è una astrazione ornata di fiori rettorici, ma vive nell’intimo stesso dell’azione; e le parole de’ tre, in apparenza insignificanti, rivelano un sentimento ineffabile d’angoscia; in quell’azione e in quel sentimento vi è giá il rimorso senza che il poeta lo dica e senza che essi lo sappiano: questo è poesia. Nella terza parte è il pentimento de’ rei: di che ci è appena uno schizzo in poche parole. Il poeta non ne ha capita l’importanza. Qui è la catastrofe vera della poesia e il suo alto significato, e l’autore, in luogo di mostrarci un angiolo vanitoso, che scende a garrire con Satana per godere del suo trionfo, e con un’aria di vanteria gli dice: — Mi conosci? sai che feci? ecc. — , dovea mostrarmelo operoso accanto a’ giusti, essendo esso il contrapposto di Satana, il principio del bene che risorge e vince. E se il poeta, stanco di fantasmi e di simboli, volea ciò rappresentarmi umanamente, sia pure: e gli si porgeva una occasione unica di poesia altamente cristiana, che gli avrebbero invidiata Chateaubriand e Manzoni, alla quale rimase inferiore Milton nel suo secondo Paradiso, e che è la gemma del Purgatorio dantesco. Chi non ricorda l’incontro di Dante e di Beatrice, e la confessione e il pentimento di Dante? Anche colá il poeta si avvolge in mezzo a simboli: ma di sotto a quelli esce fuori l’umana natura con una veritá ed una magnificenza, che si lascia dietro di gran tratto ogni imitazione moderna.
L’ultima notte un monaco pietoso Cogli uomini parlò. |
L’ultima notte un monaco pietoso Cogli uomini parlò. |
Prati si proponeva di fare un lavoro in quattro canti brevissimi, ed ha avuto innanzi una concezione vastissima, che è una leggenda in fondo, la quale mette dall’un lato nell’epopea e dall’altro nella novella. Ha voluto abbracciar troppo e non ha stretto nulla: non vi si è ben preparato: non ha considerato seriamente il suo argomento. È mancata a lui una chiara intuizione del mondo poetico che gli si parava dinanzi in confuso, sí che le sue diverse parti si urtano l’una nell’altra smozzicate e a frammenti, senza che ciascuna abbia una vita sua propria, e senza che vi sia una vita collettiva. La concezione è rimasa cosí nella sua ruvida e prosaica astrattezza; che è, oltre ai difetti accessorii, il difetto radicale di questo lavoro. Vi manca la creazione, cioè la concezione nel suo insieme e nelle sue parti fatta persona viva. E in questo è la infinita distanza che separa i grandi poeti da quelli che diconsi di second’ordine, fra Leopardi o Manzoni e Monti o Tommaso Grossi. Or questa povertá che è nel fondo, ci spiega l’ariditá dello stile in tutto il racconto. Prati arido? sembra un paradosso; ma guardate dunque al di lá della buccia. Avvezzi a porre lo stile nelle frasi e nelle parole, noi chiamiamo arido uno scrittore che proceda rapido e conciso: e in questo senso chi piú arido del Machiavelli o di Dante o di Tacito? E chiamiamo ricco un discorso copioso e fiorito, senza por mente che cosa vi si cela al di sotto. I nostri poeti arcadi esprimevano la loro povertá poveramente; ed erano detti aridi. E forse che il Frugoni è meno arido, perché vi ruba la vista de’ suoi cenci, stordendovi col fragore della voce? È una povertá dissimulata sotto il rumore delle parole. L’ariditá conduce a due difetti, alla ridondanza ed alla gonfiezza: poiché, come dice col suo buon senso Falstaff, la povertá gonfia l’uomo. Nessuno fa piú il bravo del poltrone; nessuno fa piú il divoto dell’ipocrita; la civetteria della forma è una denunziatrice ironia. In questo lavoro non vi è creazione e quindi non vi è fantasia, intendendo per questa parola quella potenza creatrice, che noi troviamo in Omero, in Dante, nell’Ariosto, le tre fantasie del mondo. Vi rimane una facoltá inferiore, piuttosto immaginazione di fantasia, la quale consiste in dare una forma a tutte le cose, secondo che le ci si presentano innanzi, l’una appresso l’altra. Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltá è forse il primo poeta di second’ordine che sia oggi in Italia. Egli non sa accomodarsi alla povertá; e quando alcuna cosa gli esce un po’ gretta, in luogo di rifarsi sul fondo e lavorarlo, si travaglia intorno alla frase, si ch’ella riesca splendida e magnifica. Quella pienezza di epiteti, quel rimbombo di suoni, quello splendore di elocuzione lo abbaglia e lo appaga, e gli nasconde la sua ariditá: e qual meraviglia?
La bête ignore l’homme, et l’homme ignore Dieu. |
L’immaginazione non comprende la fantasia; Monti non comprendea Leopardi1. In questo campo angusto dell’immaginazione, venuta meno quell’onnipresenza e simultaneitá d’ispirazione che fa di tutto l’insieme una sola persona ed investe di un eguale calore tutte le parti, non rimane che un lavorare a spizzico, particolare per particolare: qualitá inferiore di poesia, nella quale Vincenzo Monti per magnificenza ed uso di verso entra a tutti innanzi. L’immaginazione di Prati non si spiega in questa poesia con ugual forza: onde nasce una certa ineguaglianza di stile, mezzo tra la ridondanza e la gonfiezza, e a quando a quando semplice e pittoresco. L’Aracinto e la valle Dircèa e l’Olimpo e Giove e Venere e Pallade un tempo svegliavano nella mente cose vive, ed oggi non ci ricordano altro che i noiosi giorni di scuola, ne’ quali studiavamo mitologia. Questo mondo poetico non ha avuto alcun potere sulla immaginazione di Prati, e rimane materia morta e scolastica, nomi ed epiteti classici: in Schiller e Goethe vi è una risurrezione: sono i Cuvier del mondo mitologico; qui hai mera erudizione in versi. Or quando l’immaginazione di Prati è sonnacchiosa, l’ariditá è palliata dalla ridondanza, cioè a dire da una copia di aggettivi, di verbi, di perifrasi, che non hanno piú alcun senso: ripieni poetici; tali sono «divino» e «celeste» e «sacro» e «santo», che ti ritornano tante volte all’orecchio, «eterno», «immortale», «orrendo», «orribile», «mirabile», «possente», «augusto», ecc., e cosí: il primo turbamento fu «enorme»;
Pene non mai da senso uman sofferte, Da umana lingua non narrate mai, Torturar gli omicidi. |
Piú spesso il poeta ha innanzi a sé una immagine confusa di forza, di violenza, di grandezza, di furore, e la sua immaginazione non ha virtú di concretare l’immagine in un gesto, in un movimento, in un particolare personale, sicché n’esce fuori una forma astratta e indeterminata, che non ti pone innanzi niente di netto e di lucido che tu possa ben cogliere, e manifesta nel poeta un istinto confuso di dover dire la tal cosa con forza senza potervi soddisfare. I tre giusti, commesso l’assassinio, fuggono insieme serrati e barcollando; questa immagine può esser propria ancora di tre ubbriachi: il suo senso dee essere determinato da altre immagini; che cosa l’immaginazione pone avanti a Prati?
Uscirò i tre coll’Omicidio impresso Negli orribili volti. Insiem serrati Barcollando fuggian. Li sospingeva Di Caino lo spettro, e a’ fianchi loro La Demenza e la Morte. |
. . . . . . . . . . I bronzi sacri Martellarono a morto; e pel sonoro Etra parea ridimandar l’antica Voce di Dio: — Del tuo fratei che hai fatto? — |
Questa immagine è bellissima, ma qui è fuor di luogo: e se il poeta se ne fosse valso a rappresentarci il primo terrore de’ tre giusti bagnati di sangue umano, che fuggendo sembra ascoltino la voce di Dio domandare: — Che avete fatto del vostro fratello? — , sarebbe stato ciò ben piú efficace, che non la Demenza e la Morte e lo spettro di Caino e «l’Omicidio impresso sugli orribili volti». Di questo genere è pure:
. . . . . . . . Ma negli atri oscuri Gli aspettava il Silenzio; e per le scale La feral Solitudine; e ne’ chiusi Penetrali il Furor. |
Questo studio di esprimersi con forza senza avere innanzi a sé immagini distinte è quello che di cesi la «maniera» di Prati, e come è ogni abitudine, il poeta ci dá dentro senza ch’ei se ne accorga, ed anche quando non è richiesto dall’argomento.
. . . . . . . . . Guatollo Erman; del capo Niegò; ma tacque. Dall’aperta gola L’urlo saria dell’Omicidio uscito. |
Sia lanciato quel reo fuor de’ viventi! |
Che guatando con giusta ira i viventi, Volean celar gli offesi occhi per sempre. Le snelle forme e il lungo arco del collo. Ma sullo scolorato arco de’ labbri. E gli occhi allo sferlato arco d’argento. Sotto il negro e potente arco de’ cigli. E udir per la tacente aura una voce. Venir per le tranquille aure a quel loco. Le toccò delle larghe ali di foco. Le sonanti curvando ali all’ingiro. |
Prati ha per questa forma una certa predilezione, ed a ragione; perché questo verso congiunge con una ambiziosa sonoritá grande maestá e decoro, che gli viene dalla lentezza con cui dopo quella fragorosa intonazione va a terminare, non incontrandosi piú accenti che sulla penultima. Ma appunto perché questo verso fa effetto ed è quasi il colpo di scena dell’endecasillabo, va adoperato sobriamente e con intenzione. Qual è il suo significato quando il poeta dice:
E gli occhi allo sferlato arco d’argento Paralitica e scempia era Latona? |
— O il tempo con sue fredde ali stridenti quelle fronti non tocca a corrugarle! — |
Il primo verso è bellissimo, ma troppo poetico per la vii plebe che schernisce la poesia: ed al contrario stupendo verso è un altro che succede, nonostante la sua apparenza prosaica:
Un suon di chitarrino o di mandòla. |
Verso plebeo in bocca a plebe: Dante ne è maestro.
Questa maniera di Prati è un vizio non naturale al suo ingegno, avendo egli, lo ripeto, una vera virtú immaginativa, e talora vede netto e dipinge bene, con semplicitá e con grazia: i suoi pregi sono la miglior critica de’ suoi difetti. Ne addurrò qualche esempio.
— . . . . . . L’ora del vostro Regno passò. Qualche scultor talvolta Vi modella e non piú. Canti il poeta Non ha per voi, né piú il pittor colora La vostra molle nuditá. Ché il mondo Si fe’ gretto e pinzochero, e uno scudo2 Le tre dipinte ignude oggi non paga. Il mondo è mio, fanciulle. Io voglio farvi Le regine del mondo. — E col lampo degli occhi e del sembiante L’altre due vi annuîr . . . . . . . Com’ei s’accôrse Della immortal fascinatrice, il libro, I ceri e l’ara in turbine confusi Gli balenâro al guardo: e in congedarsi Dalle pie turbe gli tremò su’ labbri Scolorati l’accento; e per paura La fronte si velar gli Angeli in cielo. |
. . . . . . . . E di singhiozzi Che tali a cor di reo non uscir mai, Sonava il loco; e di pietá dipinto N’era ogni volto. Solamente in moto Di Nemesi sdegnata il simulacro Parea dall’arco dell’augusta sala Coll’ira fulminar del sopracciglio Le desolate ed esclamar: — Son mie. — |
Qui nessuna ostentazione o affettazione; non allegorie, non astrazione. Gli angeli che si velano la fronte, Nemesi che guarda sdegnosa i rei, accrescono le proporzioni del naturale senza esagerarlo, e le parole di Satana alle Grazie sono un modello di semplicitá in versi perfettissimi. Aggiungerò un ultimo esempio.I tre giusti si avviano pe’ campi a commettere l’assassinio.
. . . . . . . La Notte aperse Sulla Cittá straniera il suo cilestro Manto di stelle. Per le verdi pioppe, Che ombreggiavano l’acqua, i rosignuoli Bisbigliavan d’amor; le lucciolette Ardean dentro le siepi, e uscfa per l’aure Il molle odor del mandorlo fiorito. Sui misfatti terrestri e sul tuo capo Quanta pace, o Satán! |
La descrizione è fatta con molta freschezza e semplicitá, e nell’ultimo tratto, che ti rivela un contrasto amarissimo fra quella natura e quegli uomini, e ti fa chinar pensoso il capo, ci è una temperanza da maestro; è una bellezza di prim’ordine, da gran poeta. Le stesse immagini ritornano con la stessa felicitá, compiuto l’assassinio.
. . . . . . Ite cantando, Rosignuoli de’ boschi; ite pe’ rami Lucciolette volanti, e tu, fiorito Mandorlo, olezza: ch’è felice in terra Chi ignora il tutto. |
Prati non ha detto ancora la sua ultima parola; e, quantunque ci abbia donato giá molte poesie, egli è un poeta ancor giovane, che si va assaggiando in questo o quel genere senza un centro stabile, intorno a cui muoversi. Questa volta ha voluto presentare l’Italia d’un nuovo genere, e lo ha fatto alla spensierata, e non ha capito che questo nuovo genere è tutta una rivoluzione in poesia. È un ritorno alle forme, di cui lamenta la morte il Leopardi con tanto affetto. — Queste forme sono elle morte per sempre? Ritorneranno? Sono ritornate? E se le son morte, potrá il poeta dar loro altra vita che fattizia ed artificiale? — Lasciamo star questo. Certo è che a questa impresa era acconcissimo l’ingegno di Prati, in cui l’immaginazione nuoce all’affetto e soverchia tutte le facoltá. Ma egli vi si è messo con preoccupazioni critiche, ed oltre alla prefazione esse appariscono ancora nella poesia, chiamando l’autore Satana «re del Male» e gli Dei scaduti forme «di comica natura», quasi temesse che a’ lettori rimanesse oscuro il suo concetto: è il poeta che fa da critico e da cementatore a sé stesso. Con in capo reale e fantastico e narrazione e azione, con astratti concetti male esaminati e confusi, non è maraviglia che gli sia fallita l’ispirazione e sia riuscito in personificazioni ed allegorie. Dico questo forse un po’ severamente; ma se con i giovani tironi si dee usare cautele oratorie, con Prati si può e si dee essere severo. Egli ha nemici e amici, nocevoli non so quali piú: io mi onoro della sua amicizia, e me ne sento degno, perché ho il coraggio di dirgli la veritá; desidero sinceramente che egli giunga a quell’altezza che può comportare il suo ingegno. Che se egli è di piccolo animo, sentirá probabilmente la tentazione di porre me settimo tra’ suoi «topolini»; ma s’egli è artista, ed ama l’arte come l’amo io, mi comprenderá e mi stimerá.
[Nel «Cimento», vol. V, pp. 685-708, aprile i855.]
- ↑ È noto che il Leopardi indirizzò al Monti con una sua lettera (i2-ii-i8i9) la Canzone sull’Italia, e che questi non si degnò pur di rispondergli.
- ↑ Bellissimo verso.