Rosmunda (Alfieri, 1946)/Atto quarto

Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Romilda, Ildovaldo.

Romil. Vista ho Rosmunda. Or creder posso?... Oh cielo!...

Ildov. Tutto è disposto omai: tu giá sei salva,
sol che tu meco all’apparir dell’ombre
venir ne vogli. Della orribil reggia
usciti appena, troverem di prodi
scorta eletta; il dì piú fia lieve poscia.
Romil. Oh mio fido sostegno! Or, chi l’avria
creduto mai? donde attendeva io morte
per minor danno, or da Rosmunda stessa
vita avrommi, e letizia? Entro il mio petto
tal speme accor degg’io? Poc’anzi in fondo
d’ogni miseria noi, solo un istante
or di fortuna ci rimbalza al colmo?...
io teco unita? io libera, secura?...
e fia vero!
Ildov.   Acquistarti era ben certo,
benché in tutt’altra guisa: ma pur questa
minor periglio acchiude. In ciò Rosmunda
meno a noi serve, che a se stessa; è forza
ch’ella il faccia. Mi duol doverti trarre
per or dal regno tuo; ma in securtade
pur ch’io ti vegga, in altro aspetto un giorno
poi ricondurti entro il tuo regno io spero.

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Romil. Tutto è mio regno, ovunque teco io sia.

Gioja ne ho tanta, ch’io creder nol posso...
ma sí gran dolce pur si agguaglia appena
all’amaro, che nuovo in cor mi sorge.
M’ama Almachilde infame: io non mertai
l’empio suo amore; inaspettato giunse
all’innocente orecchio mio: ma giunto
evvi pure; né in lui...
Ildov.   Conoscer meglio
io quel fellon dovea: ma, de’ miei doni
far giuro ammenda; e la vittoria, il regno,
la vita a lui col sangue mio serbata,
far sí ch’ei sconti. Ma sfuggirlo io deggio
per ora, e il vo’, fin che non sii tu in salvo.
Romil. Ah! tu non sai, qual mortal colpo al core
m’era l’udir suoi scellerati detti!
Quanto di te men degna esser m’è avviso,
da ch’io pur piacqui a cotal vile! Oh quanto
io l’abborrisco! — È la cagion primiera
d’ogni mio mal Rosmunda; ella d’oltraggi
mi ha carca, e oppressa, ed avvilita sempre;
io sento in cor tristo un presagio, ch’ella
stromento a me non fia mai di salvezza;
so l’odio immenso, ch’or fan doppio in lei
la ferocia natía, l’atro delitto,
l’aspe novel di gelosia: ma tutti,
quai che sien pur, del suo furor gli effetti
per minor male io scelgo, che l’amarmi
di quel suo vile, e osarmel dire...
Ildov.   Il folle
ardir ben ei ne pagherá: ti acqueta;
non fu tua colpa udirlo.
Romil.   A lui men dura
mai non dovea mostrarmi; ecco il mio fallo;
non soffrir mai che a’ mali miei pietoso
mostrarsi ardisse; né del pianger mio

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farlo mai spettator; gioja che ognora

a Rosmunda negai. Spesso l’iniquo
gli occhi pregni di lagrime mi vide,
e il cor di doglia; indi il suo ardir ne nacque;...
di ciò son rea; di ciò dorrommi io sempre...
Ildov. Lieta di ciò ben io farotti, lascia;
dorrassen’egli a lagrime di sangue.
Presso chi mai non t’incolpò, Romilda,
troppa è discolpa un sol tuo sguardo, in cui
candida l’alma, e puro ardente il core
traluce. — Or basti. All’annottar, quí presta
a seguirmi sarai; d’ogni altra cosa
non prender cura. D’Almachilde intanto
sfuggi la vista; ogni sospetto torgli
meglio è cosí. Sfuggi del par Rosmunda,
ch’ella potria...
Romil.   T’intendo; anzi che nasca
rimorso in lei d’opra pietosa.
Ildov.   Addio.
Piú lungo star, nuocer ne può.
Romil.   Mi lasci?...
Ildov. Brev’ora; e mai non sarem piú disgiunti.


SCENA SECONDA

Almachilde, Romilda, Ildovaldo, Soldati.

Almac. T’arresta.

Romil.   Oh ciel!
Ildov.   Chi mi ti mena innante?
Romil. Cinto d’armati!...
Almac.   Ove i tuoi passi volgi?
T’arresta. Assai dirti degg’io. Non vengo
ad usarti forza, ancor ch’io ’l possa, a oppormi
vengo alla forza tua. Tu di soppiatto
in armi aduni i tuoi piú fidi in campo:

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dimmi; perché? Forse in un giorno istesso

scudo al tuo prence e traditor vuoi farti?
Ildov. Ch’io ti fui scudo, il taci; altra non feci
macchia al mio onor; nol rimembrar: se nulla
lavarla può, certo il puoi tu, col darmi
la mercé, che mi dai.
Romil.   Perfido, ardisci
venirne in armi al mio cospetto, e fingi
pur moderata voglia?
Almac.   Io, no, non fingo.
Poiché co’ detti invan, forza è coll’opre
ch’io ti provi il mio amore.
Ildov.   Iniquo...
Romil.   Ed osi
ancora?...
Almac.   Ove il vogliate, udir farovvi
accenti non di re: ma, se il negaste,
mi udreste, a forza. Alla fatal mia fiamma
piú non è tempo or di por modo: invano
io ’l volli; invan voi lo sperate. Ascosi
mezzi adoprar per acquistarti, io sdegno;
ma, ch’altri t’abbia per ascosi mezzi,
nol soffrirò giammai. Tu di rapirla
tenti; di te degno non parmi; imprendi
strada miglior; presto son io, tel giuro,
a non mi far di mia possanza schermo.
Ildov. E se non fai del mal rapito scettro
al mio furor tu schermo, or di che il fai?
Di nobil cor qual menzognera pompa
osi tu far, quí d’ogni intorno cinto
di satelliti infami?
Almac.   Al fianco io tengo
costoro, è ver, se tu mio egual per ora
farti non vuoi. — Di re corteggio è questo;
ma questo è brando di guerrier; sol meco
resta il brando; costor spariscon tutti

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a un mio cenno, se l’osi. Or via: la prova

te n’offro; il piú valente abbia Romilda.
Ildov. Muori tu dunque or di mia mano...
Romil.   I brandi!...
Che fate?... Oh ciel!... Cessa, Ildovaldo; or merta
di venir teco al paragon costui?
Ildov. Ben parli. A che voll’io, caldo di sdegno,
abbassar me?
Romil.   Non che il suo brando, il guardo
puoi sostener, tu d’Ildovaldo? e s’anco
sorte iniqua pur desse a te la palma,
creder puoi tu, ch’io sarei tua? Non sai,
ch’io piú assai di me stessa amo Ildovaldo,
e che ti abborro piú ancor che non l’amo?
Ildov. Averla or debbe il piú valente in arme,
o in tradimenti? Parla.
Almac.   E che? mentr’io
mio egual ti fo; mentre a combatter teco
quanto per me tor ti potrei, son presto;
risponder osi ingiuríosi detti
a generoso invito? — A me tu pari
esser non vuoi? dunque nol sei: dunque oggi,
come il maggior suole il minore, io debbo
tua baldanza punir. Da pria per dritta,
per ogni strada io poscia al fin prefisso
venir, se a ciò mi sforzi, in cor m’ho fitto:
a niun patto Romilda a te non cedo.
Io primiero l’amai: l’oltraggio fatto
con la mia destra a lei, può sol mia destra
anco emendarlo: io vendicarla; d’ogni
suo prisco dritto, d’ogni ben perduto
io ristorarla, io ’l posso; e tu nol puoi,
né il può persona.
Romil.   È ver; tu aggiunger puoi,
a perfidia perfidia, e il puoi tu solo.
Va, traditor: non fossi altro che ingrato

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alla tua donna tu, troppo anco fora

per farti a me esecrabile. Non curo
morte: che parlo? ad Alarico andarne
vittima certa io vorrei pria; quí schiava
al rio livor della crudel madrigna
in preda sempre anzi starei, che averti
né difensor mio pure.
Ildov.   Ed io vo’ dirti,
che a me non festi oltraggio mai piú atroce,
che in voler farmi eguale a te. Non m’hai
giá offeso tu con questo amor tuo stolto.
Sei tu rival ch’io tema, ove l’amore
d’una Rosmunda non contendi? Ed una,
non piú, ve n’ha, ben tua. — Né piú mi offende
in te tua fella ingratitudin: vero
re ti conosco a ciò. — Per qual piú vile
man tu vorrai, fammi su palco infame
scemo del capo rimaner; ma cessa
di chiamarmi a tenzone; in ciò soltanto
mi offendi. Ho forse io di notturno sangue
macchiato il brando mio, sí che al tuo brando
or misurarlo io possa?
Almac.   È troppo: e basti.
Pugnar non vuoi, che della lingua? avermi
rival non vuoi? Re ti sarò. — Soldati,
si disarmi, s’arresti.
Romil.   Ah! no...
Ildov.   Vil ferro,
che un tiranno salvasti, a terra vanne.
Inerme io fommi; altri non mai...
Romil.   Fra lacci
il duce vostro? Ahi vili!... Or tu m’ascolta;
sospendi... Io forse... Oh stato orribil!... M’odi...
Ildov. Che fai? chi preghi? — Io t’amo; al par tu m’ami:
ch’havvi a temer da noi?
Almac.   Su via, si tragga

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dal mio cospetto.

Ildov.   Vadasi. Il tuo aspetto
fia la sola mia pena. — Ov’io non deggia
piú vederti, o Romilda, in un l’estremo
addio ti lascio, e il saldo giuramento
d’eterno amore, oltre la morte...


SCENA TERZA

Romilda, Almachilde.

Romil.   Ah! spenta

cadrotti al fianco... Il vo’ seguire... Infame,
tu mel contendi? Ad ogni costo...
Almac.   Ah! soffri,
ch’io, sol per poco, or ti rattenga.
Romil.   Oh rabbia!
Oh dolor!... Lascia, al fianco suo...
Almac.   Mi ascolta.
Romil. Troppo giá t’ascoltai... L’amante...
Almac.   Or vedi,
seguir nol puoi;... ma, non temere: io il serbo
a libertade, a vita; e a te fors’anco,
mal mio grado, lo serbo. In carcer crudo
tratto ei non fia: da me niun danno, il giuro,
ei patirá. Ben io il rimembro; in vita
per lui son oggi: or passeggera forza
gli vien fatta. — Ma,... oh ciel!... lasciar rapirmi,
sol ben ch’io m’abbia al mondo, la tua vista!...
Romil. Ancor d’amore?... Ah! che non ho quí un ferro,
onde sottrarmi a’ detti tuoi?
Almac.   Deh! scusa;
piú non dirò. Spero, ampiamente, in breve,
del picciol danno ristorar tuo amante;
(ahi nome!) e spero in un seco disciormi
di quanto mai gli deggia.

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Romil.   Uman t’infingi?

Tanto esecrabil piú. Che dar? che sciorre?
rendi a noi libertá: mai non ti para
innanzi a noi, mai piú; sol dono è questo,
che far tu possa a me.
Almac.   Cederti altrui,
nol posso io no: ma possederti forse
mal tuo grado vogl’io?
Romil.   Ben credo: e fatto
verriati ciò, finché un pugnal mi avanza?
Ingannarmi, o indugiarmi, invan tu speri.
Col mio amante indivisa...
Almac.   Io ti vo’ donna
di te, di lui, di me: fraude non celo
nel petto. A me per or sol non si vieti
d’adoprarmi per te. S’io giá ti tolsi
il padre, e render nol ti può né pianto,
né pentimento; io ti vo’ render oggi
quant’altro a te si toglie. Eterna macchia
è Rosmunda al mio nome: al sol vederla,
entro il mio cor la non sanabil piaga
de’ funesti rimorsi, ognor piú atroce,
piú insopportabil fassi: e il letto, e il trono,
e l’amor di quell’empia ognor mi rende
(fin ch’io il divido) agli occhi altrui piú reo,
piú vile a’ miei. Tempo omai giunto...
Romil.   Tempo
di che?... Favella. — O di Rosmunda degno,
di lei peggior, la sveneresti forse,
a un mio cenno, tu stesso? — Or, sappi, iniquo,
che per quant’io l’abborra, aver vo’ pria
di te vendetta, che di lei. La strage
del mio misero padre, è ver ch’ell’era
di Rosmunda pensier; ma, il vil che ardiva
eseguirla, chi fu? — Va; ben m’avveggio,
al tuo parlar, che a spingerti a’ misfatti

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non è mestier gran forza.

Almac.   Un ne commisi;
ma ben piú d’una in mente opra da forte
volgo; e fia prima lo strapparmi or questa
non mia corona dal mio capo, e darla
a te, che a te si aspetta; a qual sia costo
io difensor d’ogni tuo dritto farmi;
di chi t’opprime (e sia chi vuol) l’orgoglio
prostrar sotto i tuoi piè: quand’io secura
vedrotti in trono poscia, allor de’ tuoi
sudditi farmi il piú colpevol io,
e il piú sommesso, e umíle; udir mia piena
sentenza allor dal labro tuo; vederti
(ahi vista!) al fianco, in trono, a me sovrano
fatto Ildovaldo: e trar, finché a te piaccia,
obbrobriosi i giorni miei nel limo,
favola a tutti: e fra miseria tanta,
niuna serbare altra dolcezza al mondo,
che il pur vederti: — il non mai mio misfatto
avrò cosí, per quanto in me il potea,
espíato; e...
Romil.   Non piú; taci. Non voglio
trono da te: rendi a me pria l’amante,
che piú lo apprezzo, ed è piú mio. Se il nieghi,
me di mia man cader vedrai.
Almac.   — Sarammi
dunque, del viver tuo, pegno il tuo amante.
Di lui farò strazio tremendo, io ’l giuro,
se tu in te stessa incrudelisci. Bada...
giá troppo abborro il mio rival:... giá troppa
smaniosa rabbia ho in petto: a furor tanto
non accrescer furore... — Altro non chieggo,
che oprare in somma a favor tuo; te lieta
far di sua sorte, e del mio eterno danno...
E qual vogl’io mercé? l’odio tuo fero
scemarmi alquanto, e la mia infamia in parte...

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E sí ’l farò, vogli, o nol vogli. — Il tutto

volo a disporre: ah! piegheran te forse,
piú che i miei detti, or l’opre mie. Ti lascio
tempo intanto ai pensieri... Empio me puoi
tu sola far, se a dirmi empio ti ostini.


SCENA QUARTA

Romilda.

Misera me!... Che mai minaccia? Ah! dove

l’odio, e l’ira mi spinge? Ei fra’ suoi lacci
tien l’amor mio: salvarlo ad ogni costo
voglio... Ahi misera me! finger mi è forza
con questo infame... Oh cielo! e, s’ei m’inganna?...
Agghiaccio,... tremo... In potestá di offeso
rivale,... un ferro, per morir da forte,
Ildovaldo, non hai;... né dar tel posso...
Che degg’io farmi?... A chi ricorrer io?...


SCENA QUINTA

Rosmunda, Romilda.

Rosm. Dov’è, dov’è, quel traditore? — Ah! teco

quí dianzi egli era... Ove fuggia l’iniquo?...
Romil. Or sappi...
Rosm.   Il tutto so. Freme Ildovaldo
in ceppi rei. Dove, dov’è costui,
che regal possa entro mia reggia usurpa?
Perfida, ei teco era finora...
Romil.   Ah! m’odi.
Ah! il tutto non sai: l’empie sue mire
non ti son note: a me sconviensi il nome
di perfida... Ma pur, se ciò ti giova,
perfida tiemmi; e fa qual vuoi piú crudo

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scempio di me: sol di sue mani or traggi

senza indugio Ildovaldo; indi...
Rosm.   S’io ’l traggo?
Tosto il vedrai.
Romil.   Deh! se pur tanto imprendi,
il ciel propizio abbi al tuo regno; muta
l’ombra del padre ucciso a te le notti
piú non perturbi; il traditor novello,
che al fianco t’hai, vittima caggia ei solo
dell’empio furor suo. Ma, se alta troppo
impresa or fosse i lacci rei disciorre
del mio fido amator, deh! fa, che un ferro
nel suo carcere ottenga, onde sottrarsi
d’un vil rivale alla malnata rabbia.
Deh! fa, che a un tempo anzi il morire ei sappia,
che a forza niuna io non soggiacqui; e ch’io,
degna di lui, secura in me, trafitta
non d’altra man che della mia, quí caddi;
e quí, chiamandolo a nome, spirai.
Rosm. Tanto ami tu?... sei ríamata tanto?...
Oh rabbia!... ed io? — Sí, va; l’amante sciolto
rivedrai tosto;... va;... dal mio cospetto
fuggi ognor poi: giá vendicata appieno
tu sei di me; misera io resto, e farti
deggio felice... E il deggio?
Romil.   Ancor che sola
ti muova or l’ira a favor mio, men grata
non io ne son perciò: né il rio periglio,
cui stai tu presso, io vo’ tacerti. Il vile,
empio, ingrato Almachilde, ebro d’amore
lo scettro a te, la libertá vuol torre,
la vita forse: e in dono infame egli osa
offrirti a me...
Rosm.   Tu scellerato il fai;
perfida, tu...
Romil.   Me dunque uccidi; e salva,

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senza indugiar, solo Ildovaldo.

Rosm.   E tanto
per te s’imprende?... Oh! chi sei tu? qual merto
sí grande in te? — Tu menti. — Oh rabbia!... e fia,
ch’orrido arcano, a me svelar tu il deggi?...
Ch’io salva sia, per te? — Se arride il cielo
ai voti tuoi, vanne da me sí lungi,
ch’io piú non oda di te mai: felice
fa ch’io mai non ti vegga... Esci.
Romil.   Ma...
Rosm.   Udisti?


SCENA SESTA

Rosmunda.

Oh rabbia! Oh morte!... E forza è pur, ch’io voli

a scior dai ceppi il suo amatore, io stessa?