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42 rosmunda
Romil.   Uman t’infingi?

Tanto esecrabil piú. Che dar? che sciorre?
rendi a noi libertá: mai non ti para
innanzi a noi, mai piú; sol dono è questo,
che far tu possa a me.
Almac.   Cederti altrui,
nol posso io no: ma possederti forse
mal tuo grado vogl’io?
Romil.   Ben credo: e fatto
verriati ciò, finché un pugnal mi avanza?
Ingannarmi, o indugiarmi, invan tu speri.
Col mio amante indivisa...
Almac.   Io ti vo’ donna
di te, di lui, di me: fraude non celo
nel petto. A me per or sol non si vieti
d’adoprarmi per te. S’io giá ti tolsi
il padre, e render nol ti può né pianto,
né pentimento; io ti vo’ render oggi
quant’altro a te si toglie. Eterna macchia
è Rosmunda al mio nome: al sol vederla,
entro il mio cor la non sanabil piaga
de’ funesti rimorsi, ognor piú atroce,
piú insopportabil fassi: e il letto, e il trono,
e l’amor di quell’empia ognor mi rende
(fin ch’io il divido) agli occhi altrui piú reo,
piú vile a’ miei. Tempo omai giunto...
Romil.   Tempo
di che?... Favella. — O di Rosmunda degno,
di lei peggior, la sveneresti forse,
a un mio cenno, tu stesso? — Or, sappi, iniquo,
che per quant’io l’abborra, aver vo’ pria
di te vendetta, che di lei. La strage
del mio misero padre, è ver ch’ell’era
di Rosmunda pensier; ma, il vil che ardiva
eseguirla, chi fu? — Va; ben m’avveggio,
al tuo parlar, che a spingerti a’ misfatti