Rivista di Scienza - Vol. II/Il bisogno di luce delle piante

Julius von Wiesner

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Le origini del celibato religioso Histoire de la Philosophie moderne

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IL BISOGNO DI LUCE DELLE PIANTE


Dai tempi più antichi l’umanità considera la luce come fonte dell’esistenza, come causa delle prime origini, e indispensabile condizione della vita che ci attornia.

La generazione spontanea rimane pur tuttavia uno dei problemi dell’universo, e la scienza non ha saputo ancora dirci, se l’antichissima ipotesi degli uomini sulla prima origine delle piante abbia colpito nel giusto.

Poichè, secondo l’opinione di molti scienziati, i quali ammettono come eterna la vita nell’universo, sarebbe meglio escludere dallo studio della natura il problema delle origini.

Qui in ogni modo noi ci troviamo dinanzi a un fine non ancora raggiunto, e anzi, secondo parecchi, irraggiungibile. Ma molto pure ci volle prima che si cominciasse ad afferrare un problema affine a questo, e, secondo ogni previsione, solubile: il problema cioè della relazione che intercede fra luce e vita nell’odierno mondo degli organismi. Spettava al genio di Jngen-Housz, sulla fine del secolo XVIII, rivelare il principio di questa relazione, dimostrando, che la pianta verde, o, più precisamente detta, clorofilliana, e anche questa soltanto alla luce, possiede la facoltà di assimilare l’acido carbonico dell’aria, ossia di trasformarlo in sostanza organica.

Così si venne a riconoscere nella pianta verde la generatrice della sostanza organica, cioè l’organismo che, con l’aiuto della luce, poteva operare la trasformazione in organica della materia non organica. Con questa sostanza organica prodotta alla luce, la pianta non solo edifica il proprio corpo, ma anche, col sopra più delle riserve prodotte per sè stessa (amido, grasso, aleuroni ecc.), mantiene tutto il mondo [p. 287 modifica] animale, e, coi prodotti di scomposizione delle sue sostanze organiche e con una utilizzazione più o meno grande dei materiali di riserva, mantiene anche le piante senza clorofilla, che non dipendono dalla luce, e, prime fra tutte, i funghi, compresi i batteri.

Ma la pianta verde, con l’opera della luce, non provvede soltanto al nutrimento del mondo animale. La pianta è anche necessaria a questo e a tutto il mondo organico come unico rigeneratore attivo sulla superficie terrestre dell’ossigeno che viene consumato in modo incessante dalla respirazione (degli animali e delle piante), dalla combustione e dalla putrefazione. Anche l’emissione dell’ossigeno ha luogo nella pianta verde soltanto alla luce; anzi la produzione della sostanza organica e la separazione dell’ossigeno costituiscono un unico e medesimo processo.

Da tempi antichissimi è noto come le piante utilizzino la luce in diverso grado e ogni persona, che per poco solo sia familiare col mondo delle piante, conosce le graduazioni più grossolane del bisogno di luce delle piante.

Si sa che molte piante, per esempio le specie di Cactus dei deserti dei paesi caldi, prosperano soltanto nell’ardore del sole, mentre parecchi modesti fiorellini si ritirano nelle ombre più profonde dei boschi, e periscono se vengano abbattuti gli alberi che li proteggevano: essi muoiono allora per un eccesso di luce.

Tali tipi così spiccatamente caratteristici di piante aventi diverso bisogno di luce, inducono nella mente del naturalista la presunzione che le piante abbiano un bisogno di luce in grado diversissimo come in grado diversissimo, secondo c’insegna l’esperienza, hanno bisogno di calore.

Ora, come mai, mentre noi conosciamo a fondo questo bisogno di calore delle piante, sul bisogno di luce invece parimenti importante — per non dir più — fino ai tempi più recenti, non sapevamo dir altro che esistono piante da sole e piante dell’ombra? Il motivo di ciò sta nella facile misurabilità della temperatura e nell’andare unita invece a grandi difficoltà la determinazione dell’intensità della luce.

Per mezzo del termometro si poterono scoprire i limiti di temperatura fra i quali prosperano le nostre piante e determinare i punti cardinali della temperatura, sotto i quali le piante più importanti, geograficamente caratteristiche, [p. 288 modifica] possono vivere e trovare rispettivamente le migliori condizioni di sussistenza. Ogni giardiniere si serve oggi del termometro per regolare corrispondentemente il calore di una serra.

Da lungo tempo senza dubbio erano già state intraprese misurazioni della luce in aiuto della fisiologia delle piante, per determinare le relazioni dei singoli fenomeni fisiologici rispetto all’intensità di luce, per conoscere, p. es., a quale minima o massima intensità di luce reagisce ancora un organo vegetale sensibile alla luce, o con quale minima intensità di luce si forma la clorofilla, o ha luogo la su citata assimilazione dell’acido carbonico, così essenziale per il mondo organico ecc.

Ma ancora rimaneva a studiarsi come la pianta nel suo insieme si comportasse rispetto all’intensità di luce del suo luogo naturale di esistenza, quale parte avesse l’illuminazione naturale nel determinare il suo espandersi sulla superficie terrestre, come pure rimanevano ancora a farsi altre ricerche corrispondenti a quelle sul bisogno di calore dei vegetali.

In questi ultimi quindici anni io mi sono attivamente dedicato a riempire questa grande lacuna. Qui ci troviamo di fronte a un problema risolubile: soltanto bisogna vincere la difficoltà del misurare l’intensità della luce, che opera sulle piante.

Dopo matura riflessione e dopo molti tentativi preliminari trovai applicabile alla misurazione della intensità della luce il metodo fotografico, adoperato primieramente da Bunsen e Roscoe per la misurazione della intensità chimica della luce. Veramente con questo principio si ottiene soltanto la così detta intensità chimica della luce, ossia l’influenza dei raggi azzurri, violetti e ultravioletti. Ma in sostanza si utilizzano sempre di regola certe determinate parti soltanto dello spettro, e dalla intensità di luce così accertata si deduce la intensità totale. Così p. es. nelle misurazioni di L. Weber sulla luce diurna. Sotto determinati presupposti e con certe precauzioni, si può effettivamente dedurre dalla intensità delle luci chimiche la intensità della luce in generale. Così mediante l’impiego delle carte al cloruro di argento di Bunsen e Roscoe si ottiene quanto basta per riuscire a determinare la utilizzazione della luce da parte delle piante. Per bisogni speciali si possono poi impiegare delle carte fotografiche, che indicano l’intensità anche di altre parti dello spettro luminoso, come per esempio la carta alla rodamina (Rhodaminn B. Papier) trovata [p. 289 modifica] dall’Andresen, la quale reagisce quasi a tutta la porzione visibile dello spettro.

Queste misurazioni fotografiche della intensità della luce sono riuscite così semplificate col metodo da me elaborato, che si può compiere una misurazione diretta in qualunque luogo, come, per es., sotto un cespuglio all’ombra del quale si nasconde la pianta, di cui si voglia determinare il bisogno di luce; come pure non presenta alcuna difficoltà il determinare l’intensità di luce, alla quale sia esposta una foglia situata nel mezzo della chioma di un albero.

Il tema che io mi sono proposto, di determinare cioè la relazione delle piante con l’intensità e la quantità di luce, consiste prima di tutto nella determinazione numerica del loro bisogno di luce.

A questo scopo ho determinato l’utilizzazione della luce (Lichtgenuss) delle piante, e per mezzo di essa mi sono creato un mezzo idoneo per giudicare il loro bisogno di luce.

Per utilizzazione di luce intendo il rapporto fra l’intensità della piena luce del giorno1 e l’intensità della luce, che agisce sul luogo ove le piante si trovano. Se si espone una pianta alla luce piena del giorno, la sua utilizzazione di luce è L = 1, e questo valore non può essere superato. Se la medesima pianta nel caso estremo resiste ancora in luoghi dove essa riceve soltanto una ventesima parte della luce del giorno, la sua utilizzazione minima della luce è eguale a 1/20, mentre la massima è pari a uno. Il bisogno di luce di questa pianta è quindi caratterizzato dal valore L = 1 — 1/20.

Queste cifre indicano veramente un rapporto, al quale corrispondono le intensità di luce più diverse. Noi esprimiamo con questi numeri l’utilizzazione relativa di luce, cioè un valore, che, come dimostrerò più avanti, è della massima importanza nel caratterizzare il bisogno di luce della pianta.

Basta esprimere in una data unità di misura (p. es. nell’unità di Bunsen e Roscoe) tanto l’intensità della luce piena del giorno, che l’intensità della luce nel luogo rispettivo ove trovasi la pianta, per ottenere l’utilizzazione di luce assoluta.

Le misurazioni si ottengono con un errore che può salire [p. 290 modifica] fino a ± 5 per cento. Tuttavia si ottengono risultati molto utili. Si è riusciti per esempio a determinare le leggi, rimaste finora sconosciute, dell’espansione geografica delle piante (sulla quale io dovrò maggiormente diffondermi) e a stabilire il bisogno di luce, così importante per le culture dei boschi, in modo più preciso che non fosse stato possibile finora. Così, per l’utilizzazione relativa ed assoluta della luce si sono trovate le cifre seguenti:

    Larice 1/5 (0.250).
    Betulla 1/9 (0.144).
    Pino 1/11 (0.118).
    Thuja 1/20 (0.070).
    Carpino 1/56 (0.023).
    Faggio 1/60 (0.021).
    Bosso 1/100 (0.012).

Il massimo dell’utilizzazione relativa di luce di queste piante legnose è sempre = 1.

Le frazioni segnate nella serie su esposta ci danno i minimi della utilizzazione relativa di luce. Le cifre aggiunte fra parentesi indicano l’utilizzazione assoluta di luce, constatata in ciascun caso, espressa con la corrispondente frazione del massimo di intensità della piena luce diurna2.

Una speciale attenzione fu rivolta alla relazione dell’utilizzazione della luce col modo di vivere della pianta. Non posso, in questo rapido abbozzo dei miei studi sull’utilizzazione della luce, indugiarmi su questo soggetto così interessante, ma devo invece contentarmi di illustrarlo con un esempio particolarmente caratteristico.

Si è scoperto il fatto meraviglioso, che nelle piante legnose verdi d’estate (ossia in quegli alberi e in quegli arbusti che in autunno perdono completamente le foglie), l’utilizzazione [p. 291 modifica] relativa della luce si mantiene costante durante tutto il periodo di vegetazione. Di qui consegue senz’altro che l’utilizzazione assoluta della luce cresce e cala col salire e col discendere dell’altezza meridiana del sole3. Ma come può mantenersi costante in questo spazio di tempo l’utilizzazione relativa della luce? Questo comportamento meraviglioso si ottiene mediante una riduzione successiva di tutta la massa del fogliame dell’albero: dal principio dell’estate l’albero si spoglia di una parte del fogliame, corrispondentemente al declinare dell’altezza meridiana del sole, e precisamente cadono prima quelle foglie, che sono illuminate in modo più debole. Così si manifesta la caduta estiva delle foglie, che prima si è affatto trascurata, per quanto negli alberi di fitto fogliame venga così sacrificata una parte molto considerevole della massa totale delle foglie (nel castagno d’india, circa un terzo). Verso la fine del periodo di vegetazione, alla caduta delle foglie causata dalla loro deficiente illuminazione, si aggiungono ancora altri fattori che operano nella stessa guisa e la caduta estiva delle foglie si trasforma nel ben noto cader delle foglie d’autunno.

Un altro tema, che io mi ero proposto nel seguire i miei studi sulla utilizzazione della luce, consisteva nella ricerca della relazione fra le condizioni di illuminazione della superfice terrestre e la diffusione geografica delle piante. Appunto la determinazione di questo rapporto costituisce un tema di grande attualità. Per troppo tempo si è continuato a trattare la geografia botanica solo descrittivamente, con l’elaborazione statistica dei prodotti della flora di piccole estensioni di territorio.

Soltanto nei tempi più recenti due studiosi, lo Schimper e il Warming, si sono di nuovo occupati di ciò che il creatore della geografia botanica, Alessandro von Humboldt, aveva additato come fine ultimo, la ricerca cioè delle cause da cui dipende l’espansione delle piante sulla superficie terrestre.

[p. 292 modifica]Il primo, colla sua geografia vegetale a base di fisiologia vegetale, e il secondo, colla sua geografia vegetale ecologica, hanno posto tanto l’uno che l’altro in prima linea, nella ricerca della diffusione dei vegetali sulla superficie terrestre, l’elemento climatologico ed edafico. Che gli studi sulla utilizzazione della luce possano essere utili a tale indirizzo è evidente, perchè, dato questo indirizzo geografico, essi tendono appunto a stabilire la relazione del clima luminoso con la vegetazione. Lo Schimper ha riconosciuto subito la fecondità delle mie ricerche fotometriche nel campo della fisiologia vegetale e ha già posto i primi risultati di queste mie ricerche, pubblicati da circa dodici anni, a base del capitolo della sua opera relativa alla influenza della luce sulla diffusione delle piante.

Queste ricerche per la misurazione della luce da compiersi in aiuto della geografia botanica richiedevano grandi viaggi.

Durante questi ultimi quindici anni, questi studi mi spinsero in Egitto, in India e a Giava, e poi di nuovo nell’alta Europa settentrionale, fino allo Spitzberg; infine nell’America settentrionale dove tentai di determinare la relazione fra le condizioni di illuminazione date dall’altezza sul livello del mare e la diffusione delle piante.

In questi studi si trattava di trovare un profilo altimetrico il quale si innalzasse a partire dal livello del mare, o da altezze minime, salendo, per quanto possibile lentamente, fino ad altezze di circa 3000 metri coperte di alberi, e che, per motivi che spiegheremo subito, si mantenesse per quanto possibile nella direzione da Est ad Ovest. In Europa non mi fu possibile trovare un profilo altimetrico di tal genere. Dopo accurate ricerce geografiche riuscii a trovare quanto desideravo nell’America settentrionale. Dal Missouri (circa 200 m. s. l. d. m.) al corso inferiore e di qui al corso superiore dell’Yellowstone River si giunge gradatamente proseguendo sempre nella direzione da Est ad Ovest, ad altezze di circa 3000 metri, coperte di alberi. La necessità, affine di rendere possibile lo studio dei cambiamenti dell’utilizzazione della luce in relazione all’altezza sul mare, che il profilo dovesse mantenersi all’incirca nella direzione d’un parallelo terrestre, è dovuta al fatto che, come dimostrerò subito, anche con lo stesso mutare della latitudine geografica ha luogo un [p. 293 modifica] cambiamento nella utilizzazione della luce. Bisogna dunque cercare che il profilo, che deve servire a determinare la relazione fra l’utilizzazione della luce nelle piante e l’altezza sul mare, si estenda da Est a Ovest.

Se si segue la specie di un albero verso il Nord, e per quanto è possibile fino al limite artico della sua vegetazione, e si osserva la sua utilizzazione relativa della luce, si ottiene un aumento tanto maggiore di questo valore, quanto più ci si accosta al limite polare della sua diffusione. I minimi dell’utilizzazione relativa della luce diventano sempre maggiori, e si avvicinano sempre più al massimo. Delle specie di acero, i cui limiti di utilizzazione della luce oscillano presso di noi fra 1 e 1/50, riducono questo intervallo a 1 — 1/25 a Drontheim, e a 1 — 1/8 a Tromsö. Anzi per alcune piante legnose accade, che, non solo il massimo e il minimo dell’utilizzazione relativa della luce coincidono, ma anche quelli dell’utilizzazione assoluta.

Questo è il caso per esempio della betulla nana, la quale ad Adventhoi (Spitzberg) raggiunge un valore di L = 1, che vale tanto per il massimo che per il minimo dell’utilizzazione relativa della luce, e nella quale l’utilizzazione assoluta della luce coincide con l’intensità della luce totale del giorno.

Questo fatto è poi la base di una importante legge di diffusione delle piante, rimasta finora affatto sconosciuta.

Quei punti della terra, nei quali il massimo dell’utilizzazione della luce di date piante coincide col minimo, segnano i confini dell’espansione artica di queste piante.

Questa proposizione non vale soltanto per gli alberi e gli arbusti, ma per tutte le piante per cui la luce è condizione necessaria al loro sviluppo.

Siccome il bisogno di luce cresce con l’aumentare della latitudine, e, viceversa, col progredire della stagione dalla primavera all’estate, diminuisce nella medesima pianta tanto l’utilizzazione relativa della luce che l’assoluta, così si viene alla conclusione, importante dal punto di vista biologico, che, almeno nei casi accennati, il bisogno di luce di una pianta cresce tanto più, quanto più fredda è la temperatura media alla quale si trovano esposti gli organi della pianta medesima. Certamente si richiede tanta maggior luce per il riscaldamento della pianta quanto più bassa è la temperatura dell’aria, del suolo e relativamente dell’acqua, nella quale queste piante vivono.

[p. 294 modifica]La proposizione ora enunciata circa l’interdipendenza fra il bisogno di luce delle piante e la temperatura media che le circonda, non vale tuttavia generalmente. Quando, al principio dei miei studi sulla utilizzazione della luce, ricercavo il bisogno di luce nelle piante a secondo che salivasi dal piano ai monti, credevo che la relazione sopra enunciata valesse anche in questo caso. Tuttavia, siccome le mie osservazioni non riguardavano che altezze poste a meno di 1000 metri sul mare, nutrivo un certo dubbio sulla possibilità di generalizzazione di questo principio, e questo fu il motivo che mi spinse ad estendere le mie ricerche sul bisogno di luce delle piante ad altezze molto maggiori, pure coperte di vegetazione.

Infatti trovai in America, da prima, la conferma di ciò che io avevo già stabilito per diverse piante in Europa: che cioè, fino a un determinato limite, l’utilizzazione della luce cresce con l’altezza sul mare. Poi l’utilizzazione relativa della luce nelle piante, e infine l’assoluta, diviene costante. Il primo fatto si può spiegare facilmente: il rimanere costante della utilizzazione relativa della luce con l’aumentare dell’altezza sul mare sta ad indicare che l’utilizzazione assoluta continua a crescere, solo più lentamente. Ma la seconda quistione è rimasta fin qui un enigma.

Invece si potè constatare con l’osservazione immediata un fatto parimenti importante nel riguardo biologico; che cioè col crescere dell’altezza sul mare la pianta si sottrae a una parte della luce che le affluisce. Col crescere dell’elevazione sul mare cresce l’intensità dell’irradiazione diretta del sole, mentre la luce diffusa diventa sempre meno forte. Col salire alle grandi altezze sul mare le conifere prendono l’habitus cipressiforme, e lo prendono perfino i pini, che, nei luoghi più bassi, hanno una chioma arrotondata.

Con tale conformazione questi alberi si difendono contro l’intensa irradiazione diretta, che emana dal sole alto sull’orizzonte. Anche la luce diffusa più intensa, ossia quella che giunge dallo Zenit (la luce alta) non ha nessuna parte nella vita di questi alberi cipressiformi; essi sono invece segnatamente influenzati dalla luce bassa, e dalla irradiazione solare proveniente dalle posizioni medie e inferiori del sole.

Ma nello studio del bisogno di luce delle piante non mi ha interessato soltanto il lato teoretico del problema, prevalentemente biologico e riguardante la geografia delle piante. [p. 295 modifica] Anche in questi studi mi animò la mia antica inclinazione, a cercare di porre in servizio della vita l’esperienza e le conoscenze scientifiche, e quindi ad interessarmi anche del lato pratico, cercando di mostrare come si possono vantaggiosamente applicare le misurazioni della luce sia alla coltura delle piante all’aria libera, che a quella in serre o in luoghi di abitazione. Molti agricoltori e silvicultori di alta riputazione scientifica, hanno apprezzato gli incitamenti dei miei scritti e hanno condotto a termine ricerche basate su misurazioni fisiologiche della luce, le quali sono ben chiamate a promuovere essenzialmente una razionale coltura delle piante.

In numerose dissertazioni ho descritto i risultati dei miei studi sulla utilizzazione della luce e ho tentato di rendere accessibili a un più ampio circolo di persone, in un’opera pubblicata appunto ora, quei frutti dei miei studi, che mi appaiono più maturi4.

Quest’opera non forma un puro estratto dei miei numerosi studi dedicati all’utilizzazione della luce nelle piante. Da un lato mancano i dettagli, già esposti ampiamente in questi miei studi ora citati, mentre si è avuto principalmente riguardo ai risultati ottenuti nelle ricerche; d’altro lato il libro contiene anche nuovi tentativi e i risultati di ricerche finora non divulgati, dei quali io voglio mettere qui due in evidenza. Io dimostro, che, nei limiti dell’utilizzazione della luce, il fogliame di ogni pianta sviluppa un verde stazionario specifico. Questo verde, da me appunto caratterizzato come specifico, costituisce una proprietà caratteristica delle specie di piante della stessa importanza di ogni altra proprietà utilizzata nella descrizione delle specie botaniche, come p. es. la forma delle foglie. Naturalmente anche questa caratteristica specifica è sottoposta tanto alla legge della costanza che a quella delle variazioni, come ogni altra proprietà caratteristica dell’organismo.

Come affatto nuovo bisogna poi considerare il mio tentativo di avviare un’analisi fisiologica dell’utilizzazione della luce. L’utilizzazione relativa della luce ci si presenta come [p. 296 modifica] un vero enigma. Col minimo dell’utilizzazione della luce cessa in certo modo lo sviluppo della pianta in condizioni naturali, cioè all’aria libera, mentre nell’esperimento e coll’esclusione della concorrenza si può facilmente riuscire ad allevare le piante anche sotto il minimo della utilizzazione relativa e fino a un limite determinato, anzi, astrazione fatta da singole eccezioni, si può, persino con l’esclusione totale della luce, portare la pianta a un certo grado di sviluppo. Ma io non mi posso qui spingere oltre in questo intricato problema, lo scopo di questo piccolo contributo essendo solo quello di rendere accessibile a un circolo più esteso di lettori il problema enunciato nel titolo.

Per finire, io vorrei accennare che il mio libro è diviso in una parte teorica e in una pratica. Nelle righe più avanti si è chiarito a che deve servire la parte teorica. Quanto a quella pratica faccio osservare, che io, non solo ho brevemente esposto in essa le ricerche fotometriche sulla cultura delle piante legnose nei giardini, nelle passeggiate, nei viali stradali, e sulla cultura delle piante nei luoghi di abitazione e nelle serre, ma anche ho brevemente riassunto quanto altri studiosi hanno compiuto nel campo della cultura botanica, a ciò incoraggiati dalle mie misurazioni fotometriche di fisiologia botanica. Fra altro sono citati nella parte pratica del libro: le misurazioni della luce per la coltura dei prati alpini, di Th. v. Wemzierts; le ricerche su l’influsso dell’ombra sulle aiuole a prato, di Stebler e Volkart; gli studi sull’importanza della luce nei boschi, di Cieslar; l’esame del bisogno di luce della vitalba, a seconda del metodo di coltura, di L. Linshauer; infine le ricerche comparative sul reddito zuccherino delle barbabietole secondo la coltura nella luce diffusa o in quella del sole, di S. Strakosch.

Vienna.

Note

  1. Per «piena luce diurna» nel senso di Bunsen e di Roscoe devesi intendere l’intensità di tutta la luce diffusa e diretta, misurata su una superficie orizzontale.
  2. Serva di illustrazione il seguente esempio, che si riferisce alla betulla. L’utilizzazione relativa della luce di questo albero sul luogo di osservazione è 1 — 1/9, cioè l’albero può sopportare l’intera luce del giorno; ma, nella parte più riposta della sua chioma, l’intensità di luce necessaria per la vita può scendere fino a un nono della piena intensità di luce: e siccome nel luogo di osservazione il massimo dell’intensità luminosa è 1,296 (Bunsen) il massimo dell’utilizzazione assoluta della luce rimane caratterizzato dal valore 1,296, e il minimo da quello 1,296:9 = 0,144.
  3. Se, per esempio, l’utilizzazione relativa della luce è = 1/10, con una intensità della luce piena del giorno pari a 1,500 (Bunsen) l’utilizzazione assoluta salirà a 0,150, e con una intensità di 0,820 scenderà a 0,082. Se dunque l’utilizzazione relativa della luce è costante, quella assoluta deve crescere col crescere di tutta la luce diurna, e diminuire invece col digradare della chiarezza del giorno.
  4. Quest’opera è già apparsa in una edizione di W. Engelmann a Lipsia, sotto il titolo: Der Lichtgenuss der Pflanzen; Ricerche fotometriche e fisiologiche con speciale riguardo al tenor di vita, alla diffusione geografica e alla cultura delle piante.