Rime (Vittoria Colonna)/Stanze
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STANZE
I.
Di mille vaghi e odoriferi fiori;
E siccome nel Ciel luce ogni stella,
Così splendono in lui vari colori;
Ed ogni fiera solitaria e snella
Mossa da natural instinto, fuori
De’ boschi uscendo, e delle antiche grotte
Va cercando il compagno giorno e notte;
II.
E quando miro le vestite piante
Pur di bei fiori, e di novelle fronde,
E degli uccelli le diverse, e tante
Odo voci cantar dolci e gioconde;
E con grato romor ogni sonante
Fiume bagnar le sue fiorite sponde;
Talchè di se invaghita la Natura
Gode in mirar la bella sua fattura;
III.
Dico, fra me pensando: quanto è breve
Questa nostra mortal misera vita;
Pur dianzi tutta piena era di neve
Questa piaggia or sì verde, e sì fiorita;
E d’un’aer turbato, oscuro e greve
La bellezza del Ciel era impedita;
E queste fiere vaghe ed amorose
Stavan sole fra monti, e boschi ascose.
IV.
Nè s’udivan cantar dolci concenti
Per le tenere piante i vaghi uccelli;
Che dal soffiar di più rabbiosi venti
S’atterran secche queste, e muti quelli:
E si veggion fermar i più correnti
Fiumi dal ghiaccio, e piccioli ruscelli:
E quanto ora si mostra e bello e allegro,
Era per la stagion languido ed egro.
V.
Così si fugge il tempo, e col fuggire
Ne porta gli anni, e ’l viver nostro insieme;
Che a noi (colpa del Ciel!) di più fiorire,
Come queste faran, manca la speme.
Certi non d’altro mai, che di morire,
O d’alto sangue nati, o di vil seme;
Nè quanto può donar benigna sorte
Farà verso di noi pietosa morte.
VI.
Anzi quella crudel ha per usanza
I più famosi, e trionfanti Regi,
Allor ch’anno di vincere speranza,
Privar di vita, e degli ornati fregi;
Nè lor giova la regia alta possanza,
Nè gli avuti trofei, nè i fatti egregi;
Che tutti uguali in suo poter n’andiamo,
Nè più di ritornar speranza abbiamo.
VII.
E pur con tutto ciò miseri e stolti,
Del nostro ben nemici, e di noi stessi
In questo grave error fermi e sepolti
Cerchiamo il nostro male, e i danni espressi;
E con molte fatiche, e affanni molti,
Rari avendo i piacer, i dolor spessi,
Procacciamo di far noiosa e greve
La vita, che troppo è misera e breve.
VIII.
Quello per aver fama in ogni parte
Nella sua più fiorita e verde etade
Seguendo il periglioso e fiero Marte,
Or fra mille saette, e mille spade
Animoso si caccia, e con nuova arte,
Mentre spera di farsi alle contrade
Più remote da noi altri immortale,
Casca assai più, ch’un fragil vetro e frale.
X.
Quell’altro ingordo d’acquistar tesori
Si commette al poter del mare infido;
E di paura pieno, e di dolori
Trapassa or questo, ora quell’altro lido:
E spesso dell’irate onde i rumori
Gli fan mercè chiamar con alto grido;
E quando ha d’arricchir più certa speme,
La vita perde, e la speranza insieme.
XI.
Altri nelle gran Corti consumando
Il più bel fior de’ suoi giovanil anni;
Mentre utile ed onor vanno cercando,
Sol ritrovano invidia, oltraggi, e danni:
Mercè d’ingrati Principi, che in bando
Post’hanno ogni virtù, e sol d’inganni,
E di brutta avarizia han pieno il core,
Publico danno al mondo, e disonore.
XII.
Altri poi vaghi sol d’esser pregiati,
E di tener fra tutti il primo loco;
E per vestirsi d’oro, e gire ornati
Delle più care gemme, a poco a poco
Tiranni della patria odiosi e ingrati
Si fanno, ora col ferro, ora col foco;
Ma al fin di vita indegni, e di memoria
Son morti, e col morir muor la lor gloria.
XII.
Quanti son poi, che divenuti amanti
Di due begli occhi, e d’un leggiadro viso,
Si pascon sol di dolorosi pianti,
Da se stesso tenendo il cor diviso:
Nè gioja, nè piacer sono bastanti
Trarli dal petto, se non finto riso;
E se lieti talor si mostran fuori,
Anno per un piacer mille dolori.
XIII.
Chi vive senza mai sentir riposo
Lontano dalla dolce amata vista;
Chi a se stesso divien grave e nojoso,
Sol per un sguardo, o una parola trista.
Chi da un nuovo rival fatto geloso,
Quasi appresso al morir si duol, s’attrista.
Chi si consuma in altre varie pene,
Più spesse assai, che le minute arene.
XIV.
E così senza mai stringere il seno
Con la ragion a questi van desiri,
Dietro al senso correndo, il viver pieno
Traggono d’infiniti aspri martiri;
Che tranquillo saria, puro, e sereno,
Se senza passion, senza sospiri
Lieti godendo quanto il Ciel n’ha dato,
Vivessono in modesto, ed umil stato.
XV.
Come nella felice antica etate,
Quando di bianco latte, e verdi ghiande
Si pascevan quell’anime ben nate,
Contente sol di povere vivande.
E non s’udiva infra le genti armate
Delle sonore trombe il rumor grande.
Nè per far l’armi gli Ciclopi ignudi,
Battendo risonar facean gl’incudi.
XVI.
Nè lor porgeva la speranza ardire
Di poter acquistar fama ed onore;
Nè per dargli dopoi grave martire
Con dubbiosi pensier davan timore.
Nè per mutarsi i Regni, o per desire,
Per soggiogare altrui, gioja e dolore
Sentivano giammai sciolti di queste
Umane passion gravi e moleste.
XVII.
Ma senza altri pensier stavan contenti
Con l’aratro a voltar la dura terra,
Ed a mirar i suoi più cari armenti
Pascendo insieme far piacevol guerra:
Or con allegri, e boscherecci accenti
Scacciavano il dolor, che spesso atterra
Chi in se l’accoglie, fra l’erbette e fiori
Cantando or con le Ninfe, or co’ Pastori.
XVIII.
E spesso a’ piè d’un olmo, ovver d’un pino
Era una meta, o termine appoggiato:
E chi col dardo al segno più vicino
Veloce dava, era di frondi ornato.
A Cerer poi le spiche, a Bacco il vino
Offerivan divoti; e in tale stato
Passando i giorni lor serena e chiara
Questa vita facean misera e amara.
XIX.
Questa è la vita, che contanto piacque
Al gran padre Saturno, e che seguita
Fu dai pastori suoi, mentre che giacque
Nelle lor menti ambizion sopita.
Ma come poi questa ria peste nacque,
Nacque con lei l’invidia sempre unita:
E misero divenne a un tratto il mondo,
Prima così felice e sì giocondo.
XX.
Perchè dolce più assai era fra l’erba
Sotto l’ombre dormir queto e sicuro,
Che ne’ dorati letti, e di superba
Porpora ornati: e forse più ogn’oscuro
Pensier discaccia, ed ogni doglia acerba,
Sentir col cor tranquillo, allegro, e puro
Nell’apparir del Sol mugghiar gli armenti,
Che l’armonia de’ più soavi accenti.
XXI.
Beato dunque, se beato lice
Chiamar, mentre che vive, uomo mortale;
E se vivendo si può dir felice,
Parmi esser quel che vive in vita tale;
Ma esser più desia, qual la Fenice,
E cerca di mortal farsi immortale:
Anzi quella, che l’uom eterno serba
Dolce nel fine, e nel principio acerba.
XXII.
La virtù dico, che volando al Cielo
Cinta di bella e inestinguibil luce,
Se ben vestita è del corporeo velo,
Con le fort’ali sue porta e conduce
Chi l’ama, e segue: nè di Marte il zelo
Teme giammai, che questo invitto Duce
Spregiato il tempo, e suoi infiniti danni
Fa viver tal, che morto è già mill’anni.
XXIII.
Di così bel desio l’anima accende
Questa felice e gloriosa scorta,
Che alle cose celesti spesso ascende,
E l’intelletto nostro spesso porta,
Tal che del Cielo, e di Natura intende
Gli alti segreti: onde poi fatta accorta,
Quanto ogn’altro piacer men bello sia,
Sol segue quella, e tutti gli altri oblia.
XXIV.
Quanti Principi grandi, amati, e cari
Insieme con la vita han perso il nome!
Quanti poi vivon gloriosi e chiari,
Poveri nati; sol perchè le chiome
Di sacri Lauri, alteri doni, e rari
S’ornarono felici: ed ora come
Chiare stelle nel Ciel splendon beati,
Mentre il mondo starà, sempre onorati!
XXV.
Molti esempi potrei venir cercando,
De’ quali piene son tutte le carte,
Ch’il Ciel prodotto ha in ogni tempo ornando
Non sempre avaro or questa, or quella parte.
Ma quanti ne fur mai dietro lasciando,
E quanti oggi ne son posti da parte,
Un ne dirò, che tal fra gli altri luce,
Qual tra ogn’altro splendor di Sol la luce.
XXVI.
Dico di voi, e dell’altera pianta,
Felice ramo del ben nato Lauro,
In cui mirando sol si vede quanta
Virtù risplende dal mare Indo al Mauro;
E sotto l’ombra gloriosa e santa
Non s’impara a pregiar le gemme, o l’auro;
Ma le grandezze ornar con la virtute,
Cosa da far tutte le lingue mute.
XXVII.
Dietro all’orme di voi dunque venendo,
Ogni basso pensier posto in oblio,
Seguirò la virtù, chiaro vedendo
Essere in lei seguir caro desio,
Fallace ogn’altro è: così non temendo,
O nemica Fortuna, o destin rio,
Starò con questa, ogn’altro ben lasciando
L’anima, e lei, mentre ch’io vivo, amando.
FINE