IV.
Nè s’udivan cantar dolci concenti
Per le tenere piante i vaghi uccelli;
Che dal soffiar di più rabbiosi venti
S’atterran secche queste, e muti quelli:
E si veggion fermar i più correnti
Fiumi dal ghiaccio, e piccioli ruscelli:
E quanto ora si mostra e bello e allegro,
Era per la stagion languido ed egro.
V.
Così si fugge il tempo, e col fuggire
Ne porta gli anni, e ’l viver nostro insieme;
Che a noi (colpa del Ciel!) di più fiorire,
Come queste faran, manca la speme.
Certi non d’altro mai, che di morire,
O d’alto sangue nati, o di vil seme;
Nè quanto può donar benigna sorte
Farà verso di noi pietosa morte.
VI.
Anzi quella crudel ha per usanza
I più famosi, e trionfanti Regi,
Allor ch’anno di vincere speranza,
Privar di vita, e degli ornati fregi;
Nè lor giova la regia alta possanza,
Nè gli avuti trofei, nè i fatti egregi;
Che tutti uguali in suo poter n’andiamo,
Nè più di ritornar speranza abbiamo.
VII.
E pur con tutto ciò miseri e stolti,
Del nostro ben nemici, e di noi stessi
In questo grave error fermi e sepolti
Cerchiamo il nostro male, e i danni espressi;
E con molte fatiche, e affanni molti,
Rari avendo i piacer, i dolor spessi,
Procacciamo di far noiosa e greve
La vita, che troppo è misera e breve.