Rime (Bindo Bonichi)/Sonetti/Appendice
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APPENDICE
di
SONETTI ADESPOTI
I.
Fusse possibil di cambiar suo stato
L’un uom coll’altro, credo che a furore,
Ciascun credendo di dare il peggiore,
Sanza mezzan sare’ fatto mercato.
Perde chi vende, e chi compra è ingannato,
Quel, che possedè il suo, ne va col flore,
Molte magagne van sotto colore,
Tal piagne in casa, che fuori ha cantato.
Prendi qual più ti piace nella mente,
Che poi se ’l cerchi, tal vi trovi cosa,
Che del baratto ogni parte si pente.
L’uom vede il testo, e non legge la chiosa:
Però passi ciascun co’ guai, che sente,
Ch’ogni cosa vermiglia non è rosa.
II.
Ohimè lasso! che mal tempo è venuto,
E ben è folle chi s’allegra o canta.
Chiunque è buono è tenuto perduto,
Cattivo chiamat’è da gente alquanta.
E chi fa male, quello è buon tenuto,
E miglior chi di peggio far si vanta,
E chi è falso è tenuto saputo,
E sciocco è chi porta fede alquanta.
1. . . . . . .
. . . . . . . .
. . . . . . . .
Il traditore è tenuto ingegnoso,
Il sofferente chiamato codardo:
Adunque il mondo va tutto a ritroso.
Se Dio Signor non ci provvede, i’ veggio
Il mondo ritornar di male in peggio.
III.
Chi vuole aver gran numero d’amici
Aggia in balìa un, che si chiama Nummo,
Ma s’e’ ti fugge, distillan per fummo,
E senza offesa ti si fan nemici.
Poi se vuoi corvi in luogo di pernici,
Ricorri a qual più reputato summo,
Dirà: Non so chi se’, ben so chi fummo,
Altrui n’apporta le frasche, che dici.
A racquistarli ti convien passare,
Chiamando Nummo, perigliosi ponti,
Benchè all’egro suol rado tornare.
Molti cacciando van per aspri monti,
Altri discorron per diverso mare;
Anzi che giungan, sonci talor gionti.
IV.
Chi pesca a’ pesci, e chi pesca a’ denari,
Ma diversa esca vuol ciascuna nassa:
Pescan l’ipocriti a lor voce bassa,
E col contrario pescan li altri avari.
Chi più li biasma, più talor li ha cari,
Ma per carpir la grua il tordo lassa.
Con questo inganno tutto ’l mondo passa,
Dolce hanno il gusto, e dentro sono amari.
In questo mar non pesca lo buon uomo,
Ma posto ha in terra d’ogni peso il pondo,
Lassa la spina, e riserbasi il pomo
Chi vuol trovar metta la nassa al fondo,
E troveravvi quasi un cieco in duomo:
Mora l’ipocrisia, che ha guasto il mondo.
V.
Ogni arte vuole aver brieve rettore;
Col bel colore sta ’l vizio congiunto:
Giuoca il dado del men, si dice al punto,
E s’egli è cinque, giuoca col maggiore.
Fatto han congrega i lupi, ed han signore;
Quell’è maggiore, ch’ha più ’l vizio in punto:
A ben levare il loro unguento ed unto
Sette bucate n’avrian poco onore.
Qual uom s’aùsa a visitar lor tane
Ringrazi Iddio, se vi lassa e’ capelli,
Purché le membra li rimangan sane.
Parlan cortesi, e li costumi han belli,
L’opere han brusche, e le promesse han vane,
Lor paternostri son de’ grimaldelli.
VI.
Compra il poder di quel, ch’hai guadagnato,
E dàllo ad un, che mezzo t’impromette,
Poi ne dà cinque a te, e tienne sette,
E anche li par tropp’essere ingannato
Che pensa in questo: l’ho molto affannato,
Mentre ch’io lavorai, ed egli stette.
Con questi quarteruol suo ragion mette,
Sì che rimane il ben pur dal suo lato.
Ma ben è ver, che quando ei viene a morte,
Vuol sie renduto infino ad un danaio,
Ma alla sua lingua tien chiuse le porte.
Fa testamento sanza calamaio;
Po’ giuocan li figliuoi col peso forte.
S’e’ fe’ col quarto, ed e’ fan collo staio.
VII.
L’uno ha figliuolo, e vuollo accompagnare,
l’altro ha figliuola, e vuolle dar marito;
E’ son vicini, e nulla vien fornito
Per qualche picciol nodo, che n’appare.
Prendene un’altra di peggiore affare,
Che gli è da lunga, e truovasi schernito,
Ch’ha di magagne il numero compito:
Mal seppe questa volta investigare.
Se la vicina ha una magagnetta,
Tu se’ vicin, che l’hai udito e ’l sai;
La tuo derrata non è forse netta.
Se tu ti lagni, ella può traer guai:
Ma l’altra vien con piena la taschetta:
Mal se’ contento, e mal sempre starai.
VIII.
Guardimi Iddio dall’usurier santese,
E dall’artista iscritto in disciplina;
Di non scontrare in lunedì mattina
Il canta laude, ovver capo di mese.
Come dico, ch’i’ non venga alle prese
Collo speziale ch’ha la medicina,
Che scrive dramma balaustra fina,
Come venisse di lontan paese.
E ch’io non venga a man delli avvocati,
E spezialmente de’ procuratori,
Che ben si posson dir cani affamati.
E ch’io non caggia in ira de’ Signori,
E ch’io vegga l’ipocriti pagati,
Sicchè non pasca le foglie pe’ fiori.
IX.
Se fusse stato chi la campanella
Avesse al collo appiccata del gatto,
Buon fu ’l consiglio diè ’l sorco di ratto
Per Sicurtà di tutta lor buzzella2.
Quel sorco è l’uom che cotanto favella,
Che non vuol far, ma consiglia sia fatto,
Mentre aspettando, che fornisca il matto,
Giuoca di ver la luna e ver la stella.
Vorrei, che fusse licito ’l parlare:
Siccome tocca di pagar la imposta,
Ed a gabella fusse il mormorare.
E i gran parlier son quelli, a cui non costa;
Mormorano del fatto e dell’a fare:
D’erbe è la torta, e gialla n’è la crosta.
X.
Affanna l’uom per poter riposare,
Ma del riposo non si truova il modo:
Ne’ libri degli antichi ho letto ed odo,
Perchè non c’è, che nol seppon mostrare.
Chi non è stolto, nol voglia cercare;
Che l’uom viva in angustia, è dato lodo:
Se appellar si può deposto in sodo,
Questo rimanga a quei, che ’l vuol trovare.
Un modo ci ha, ma è un poco aspretto,
Non dico netto, ma tien del sicuro:
Ricever per onor l’esser dispetto,
E far della fortezza iscudo e muro,
E ciò, che avvegna, prender per diletto:
Facendo ciò, non fia ’l passar poi duro.
XI.
Sta ’l mercenai’ nella casa servente,
La mercenaia balia, ovver fancella;
Lo mercenai’ la sguarda, e parli bella,
Ella grosseggia, ma pur li consente.
Fassi il mogliazzo, onde ciascun si pente;
La dota è il saccone e la predella;
Va senza trombe la donna novella:
Ragiona, s’e’ esser tristo, ella dolente.
Se tostamente non si sente pregna,
Non ha pace, se non la mena a bagno;
L’un reca l’acqua, e l’altro spezza legna.
Fan poverini, e mancali il guadagno,
Non hanno tanto pan, che li sostegna,
L’uno odia l’altro, e sempre stanno in lagno.
E a tutti par che avvegna:
Onde perciò el non è maggior doglie
Al pover uomo, che aver presa moglie.