Ricordi delle Alpi/Parte Seconda/XV
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XV.
Tonio il gobbo.
— Vivano i suonatori!
— Bravi! bravi!
— Ehi, gobbo! presentandogli un bicchiere colmo di vino, gridava il capitano della Guardia nazionale; questo alla tua salute.
— Tante grazie, sor capitano, rispose costui avanzandosi col fratesco suo risolino, e arieggiando con la mano il saluto militare.
— Alla sua salute,... e di questi signori! e il bicchiere venne vuotato d’un fiato.
— To’ quest’altro; avanti! gli disse un ufficiale: il gobbo sbarrò tanto d’occhi, ripetendo un profondo inchino, e stese la mano.
— Obbligato, obbligatissimo a lor signori; in verità....» E si poneva la mano sul petto in atto di profonda riconoscenza.
Riempiuti due altri bicchieri, il capitano: — Su, a voi due, disse, rivolto ai compagni del gobbo. Era tempo; chè costoro cominciavano a patir evidentemente le noie d’essere lasciati in disparte.
Ma siccome il solo vino per que’ loro stomachi sarebbe forse stato troppo a disagio, l’ufficialità della Guardia dapprima e dappoi tutti della brigata offrimmo pane, cacio, frutta e qualcosa di meglio.
Fu allora per noi una sonora e generale risata; per essi una festa, cui certo non s’aspettavano: la tavola non tardò ad essere sparecchiata del miglior modo.
— Senti, gobbo! l’apostrofava ancora il capitano, dovresti un po’ narrarci qualche storiella; so che n’hai di belle e di buone; che te ne pare?
— Son tutte vecchie, sa — rispondeva mangiando a due palmenti il pover’omo — e forse le non saranno di gusto.
— Piuttosto, un milite intromettendosi, piuttosto avresti a cantarci la storia della Povera Lena: dicono ch’è il tuo forte: è vero?
— Loro signori hanno troppa bontà per queste povere spalle (e accennava alla gobba); è vero, io n’ho sofferte di molte, e mi sono ingegnato a raccontarle talvolta in seno di gioconde brigate: ma allora erano altri giorni il cuore non aveva una grinza, e il riso veniva su a ogni istante senz’averci a pensar molto.... Eh, allora!...» In così dire il suo volto si annuvolava, e la parola gli finiva fredda e svogliata sulle labbra.
— Che! che! ti lascieresti dunque prendere dalle paturnie, Tonio? ripeteva il capitano, la cui famigliarità col gobbo lasciava scorgere una conoscenza antica. — Via, un tozzo di pane ce l'hai sempre avuto a’ tuoi comandi, e un qualche bicchiere di vino per giunta. Chè dunque crucciarti di quanto non si può rimediare?
— Un tempo, sor Maurizio (così chiamavasi il capitano), un tempo l'andava assai meglio. Grazie a Dio, è vero, un tozzo di pane non mi è fallito mai; ma a que’ dì, se lo rammenterà di certo, lei, la mia Lena, era fresca come una rosa, e Giacometto non aveva toccato i suoi dodici anni.
A questo punto il gobbo, al quale s’era offerto il quinto bicchiere ricolmo, lo rimetteva nel vassoio com’uomo, cui siasi spento ogni bisogno, e: — Con permesso, diceva, di loro signori, mi assetto un poco. — Posato a terra il violino e l’archetto, si lasciò andare sul pancone prossimo alla finestra, e tacque.
— Che storia è questa, Tonio? noi siamo qui a ridere e a scherzare, e tu ci esci fuori del seminato compunto e contrito come un miserere. Questa poi non ci va, sai. Suvvia! coraggio e speranza: tanto non arrivi mica a mutar d’un filo il passato.
— Lo so, lo so; che vuole? non s’è sempre padroni di sè; me ne incresce, ma le paturnie mi pigliano facili, proprio quando meno ci penso.
— Insomma, ce la narri sì o no, gridava un milite, qualche storia? a che obbligarci a preghiere? ne hai delle belle tu, e lo sappiamo. Eccoti, alla tua salute!» e gli riporgeva il bicchiere colmo di vino.
I compagni di Tonio, come non si addassero di quanto succedeva loro d’intorno, proseguendo a giuocar di ganascie, facevano scomparire quanto lor capitava dinanzi sulla tavola; tutti erano attenti al gobbo, e li lasciavano fare con la massima libertà.
Questi riprese il bicchiere e, augurando una volta ancora alla salute degli astanti, lo tracannò d’un fiato; poi disse: — Dunque desiderano una storia o una canzone?
— Una storia, sclamarono alcuni.
— Una canzone, replicarono altri.
— Ma prima devi dire, notò un terzo, qualche cosa della canzone della Lena; non ti si può mai cavar nulla di bocca, diavolo!
— Ci direte, Tonio, (m’intromisi io per la prima volta) quel che vi comodi più: la bontà di questi signori è pari al desìo di sentire da voi qualche coserella: e m’inchinai interrogando con atto di gentil deferenza l’onesta brigata.
— Ben parlato, gridarono a coro, ben parlato! Puoi narrar quel che ti piace; e noi saremo contenti. Così con la gioia di una bella giornata ci avvieremo alle nostre case.
— Come son buoni lor signori! Grazie tante, grazie tante. Ecco, qualche storiella l’ho sempre narrata qua e là, quando l’allegria, come ho detto, mi usciva da tutti i pori; ma quella della Povera Lena la serbai solo per le solenni occasioni, perchè m’era stata fatta da don Battistino, il maestro di scuola del villaggio, a memoria e onore della mia povera moglie. Povero don Battistino! anche lui ora non c’è più, e se n’è morto come un santo: quegli era un prete davvero! Ecco, li vado annoiando, e comincierò pur la canzone.
— Niente affatto; va pure innanzi, Tonio.
— Finisci; e poi la canzone.
Chi qua chi là, tutti s’erano rimessi ai loro posti; e i nuovi che sopraggiungevano, entravano alla cheticchella e s’adagiavano. Tonio si passò, a pulirsela, la destra sulla bocca e un perfetto silenzio proseguì:
— Quando la Lena fu morta, dopo due anni di lento male, io ne aveva passato di tutte; nemmeno a dirlo, la fame l’avevo vista di tutti i colori: bisognava farsi animo e pensare ai vivi.
Giacomino veniva su come farina ben lievitata; avendo bisogno d’aiuto e di consiglio, mi volsi a don Battistino, che mi aperse il suo cuore e la sua borsa: Giacomino non tardò a bazzicare in sua casa e ad averne lezioni, e io potei tirarmi su in questo modo, ecco. Sin da ragazzo m’ero dato a fare strimpellar il violino: vedendomi mancare il lavoro, mi ci rimisi con pazienza dandomi a canticchiare qualcosa; è allora che don Battistino fè la canzone della Lena con questo ritornello:
T'amo e ognor t'amerò, mia Lena; addio!
Possa presto vederti in seno a Dio!
La cantavo alla domenica dopo il vespro sulla piazza, o al rezzo di qualche albero, sempre circondato da una folla di gente; e dovunque mi recassi, qualche soldo me lo buscavo bene.
Venne il quarant’otto, e la vendemmia cominciò per me più copiosa: se ne cantavano tante allora! e dappertutto correvo con lo strumento. Sor capitano, si ricorda di questa cantata tante volte a Fusine?
Sorgete, Italiani, |
Il capitano fe’ cenno del capo, e il gobbo continuò:
— C’era sempre Pio IX a mezzo in que’ dì! allora il sor capitano era un giovinotto mingherlino, oggi è un bello e finito galantuomo. Gli austriaci ebbero le batoste; fuggirono, ma ritornarono gonfi peggio di prima. Rividi Trento, mia patria, dove me la buscai qualche anno; ma Giacometto s’era fatto grande, e aveva messo botteguccia di sarto e di barbiere, sempre protetto da don Battistino; venni con qualche gruzzolo, nè più partii.
Occorreva una donna a dar assetto alla casuccia, e Giacometto s’unì alla Lina, facendo di due tre cuori contenti; la cosa andava a meraviglia, quando giunse il 1859. Vennero i Francesi, Vittorio Emanuele e Garibaldi: son cose che sapete: Viva l’Italia! Lo abbiamo gridato e grideremo sempre. Ma.... pazienza! il cielo ha voluto così: purchè gli stranieri abbiano varcato i monti! Eccovi come l'è andata.
— Giacometto, quando seppe Garibaldi in Lombardia, non volle più saperne di stare a casa: io non gli dissi nè sì, nè no, chè infin de’ conti a stare c’era il bisogno, a partire il dovere. La Lina prima ci si mise quanto più seppe e potè. — Poverina, stava per venir madre! — poi, visto che le ragioni del marito non erano zoppe: — Via, parti pure, dicevagli; tuo figlio dee sapere un giorno, che tu non mancasti mai al tuo dovere....
— Partì lieto come a festa, volontario sotto il Generale,... ma non è più tornatoǃ
A prevenire il singhiozzo, che si sentiva salire, il gobbo stese come lampo la mano al bicchiere, ricolmo non so se per la sesta o settima volta (non si possono più contare), e lo tracannò d’un fiato: poi si passò la mano sulla fronte, come ad espellerne le ultime idee.
— Bravo, Tonio!
— È così che va fatto; coraggio!
— Un’ora di gioia ne vale cento di melanconia.
— Ancora questo, Tonio — su, ancora questo!
E Tonio stendeva la mano al bicchiere senza farsi pregare.
Ripigliò tuttavia serio:
— La Lina è morta, quindici mesi dopo il marito, e pochi dì prima la sua creaturina, venuta al mondo spunta e tirata come una candela. Aveva sofferto tanto la povera madre!
Stavolta rimasi solo affatto. Visto che le lagrime non risuscitano i morti, e che ogni giorno bisogna mangiare, mi racconciai a rattacconare e a risolare scarpe, correndo la festa di qua e di là a strimpellare il violino: così tra il lavoro e il girandolare me la campo; e quando vengon su i neri umori, sanno bene.... loro.... Data una sbirciata, soggiunse: — Corro a qualche bicchiere, e li mando via. È questa la mia vita e la mia storia.
— Bravo, Tonio! ma la tua storia non basta, e ci vuole la canzone.
— Non mi ci rifiuto, è giusto: fàtti in qua, Stampone; piglia il contrabasso, Marmitto: non avete ancor finito d’ingozzarne? chi potrà ora tenervi in riga impinziti come siete? — Fu una risata generale. I due badalucconi si fecero avanti con una ciera di luna, obesi, sorridenti; non avevano certo mai fatto un Natale così grasso.
— Lasciamo le malinconie, rispose Tonio; bisogna terminare la giornata allegra: tutti ne abbiamo da piangere, ma la patria è libera, e in fin fine quel che tanto si voleva, c’è.
— Evviva Tonio!
I rallegramenti, i bravo e gli augurî non si facevano attendere: i suonatori, accostatisi al gobbo, fecero i preludi; si stava in attenzione, come dinanzi al più illustre poeta od artista; e Tonio, tossito alquanto e passatasi la lingua fra le labbra a inumidirsele, profferì sonoramente queste parole: L'Italia è una! — e cantò: