Ricordi delle Alpi/Parte Seconda/XIV
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XIV.
Nell’osteria.
Eccoci finalmente nell’osteria di ser Mostacchetti; nella sala al pian di sopra, dinanzi a un deschetto ammannito per bene, con un appetito che si potrebbe proprio chiamar da studente senza fargli torto.
I militi della guardia nazionale di Fusine stanno ponendosi in ordine per la partenza, chè la sera s’avanza ed è ora di mettersi in viaggio. Chi vuota l’ultimo bicchiere, chi infila il camiciotto e chi afferra il suo schioppo: ve n’ha ancora che ostinasi a finir la partita delle boccie giù nella spiazzata, e chi trincando allegramente non se ne dà per inteso, mentre odesi chiamare ad alta voce i più distanti per fare la radunata. Gli ufficiali della compagnia invece di dar bell’esempio continuano a giuocare alla mora con indiavolata persistenza; e, se devo dire il vero, c’è un chiasso di casa del diavolo. È una fratellevole cordialità, un’allegria non fuori dei gangheri: sulla lunga tavola vedi litri, bicchieri e piatti ancor provveduti di bellissime frutta; ma non è difficile capire, che, se qualche capannello vorrebbe allestirsi per finirla, la maggior parte ama tirarla per le lunghe e lasciar che il fresco della sera più s’avvicini.
Ci troviamo a destra della sala, nell’angolo, e andiam barattando parole con una brigatella dirimpetto, nostre conoscenze, che pur esse pigliano gusto al buon umore che si va, direi, diffondendo all’intorno.
— Ehi, qui, padrone, del vino!
— Basta, per ora, amici, l’ora si fa tarda.
— Ancora questo litro; vedetelo, è rotto: e qui a darvi sopra della nocca.
— Che litro! ce ne vuole un paio di bottiglie di quel laggiù....
— Bravo, un paio di Sassella.
— Sassella! Sassella!
E la scena si avviva e si accalora.
Altro che partenza! Cominciamo adesso. Misericordia! quando già si credeva respirare un poco, eccoti da capo con coteste cianciose noie e con un frastuono di casa del diavolo. La ci mancava davvero!
Vedete? sono entrati tre figuri nella sala, che fecero in tutti l’effetto d’una scossa elettrica. Il capitano della Guardia nazionale smette il giuoco; a una signora qui presso cadde la forchetta di mano; io me ne sento venire i sudori, e intanto risa di qui, oh! di là, e frizzi acri che paion fendere l’aria. Una scena nuova, interessante: guardiamo chi son cotestoro.
Il primo è un vecchietto singolare, con una gobba sulle spalle, maestosa come quella d’un dromedario, occhi rossi e lagrimosi, che lascian tosto indovinare la molta tenerezza ch’ei deve sentire pel bicchiere; e sebbene faccia uno sforzo per dare qua e là occhiate, è impossibile potergli distinguere per intiero l’occhio. Il suo è sorriso di inarrivabile dolcezza o, se volete, d’un’unzione da sacristia; ma vi assicuro che le sue riverenze ripetute a ogni momento passano sempre i quarantacinque gradi. Eccolo assumere la postura di vecchio artista; scommetto che omai sarebbe impossibile farlo smettere da quella magistrale sua posa.
C’è con lui un fantoccio dai tredici ai quattordici anni, vero tipo impaccioso di patatucco, sul volto del quale evidentemente traspare la voglia di azzannare qualche cibo; in fatti con uno stupido errante risolino, la bocca spalancata come quella di un famelico cignale, acconciatosi il cavernoso e tarmato contrabbasso, ei dà occhiate voratrici a quanta grazia di Dio gli appare tuttavia intatta sulle tavole. Ultimo è un giovinastro lì su’ cinque lustri, che potrebbe servire di modello grottesco al più matto e indiavolato artista, che si possa ideare.
E, omai ch’è fatta la rassegna, lasciamoli disporsi a suonare.
Oh, vera lacerazione delle povere orecchie — ma bisogna tacere e lasciarli finire....