Ricordi delle Alpi/A chi legge
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Dedicatoria | Parte Prima | ► |
A CHI LEGGE
Cirillo s’approssimava ai novant’anni.
Era un vegliardo dalla fronte spaziosa e serena, dall’occhio perspicace e amorevole, dalla barba nivea e veneranda. Tranne alcuni cernecchiucci di capegli sulle tempie, il capo mostrava calvo per intiero; pure (privilegio singolare!), l’età non aveva mai osato fargli uno sfregio in bocca, la quale perciò era ancor validamente fornita di tutti i suoi denti. Il suono di sua voce, pieno d’irresistibil dolcezza; e ogni atto, ogni consiglio, ogni fare accusavano una bontà di cuore ineffabile, accompagnata da retti, generosi ed alti criteri. Soltanto alcune rughe profonde solcavano la fronte, le quali non gli si spianavano mai, mai! neanco quando il riso (cosa assai rara!) gl’infiorava il labbro — riso in cui sarebbe stato difficile interpretare una gioia vera.
In Francia, egli aveva veduto operare la «ghigliottina», esempio a’ re ed ai popoli!...; in Italia, da una parte, Venezia venduta a Campoformio e sorta la Repubblica Cisalpina, dall’altra, Francesco Caracciolo appiccato a un’antenna della Minerva, come pubblico malfattore, nelle acque di Napoli; e, in questa città, i grandi martiri della libertà assassinati alla francese. E cadere e rizzarsi di troni; Napoleone all’Elba e Napoleone a Sant’Elena; lo infame mercato dei popoli, a Vienna; prepotenze, ludibri e viltà di monarchi e di pontefici; abbiettezze e pecoraggini di popoli: il 21, il 31, il 40, il 43, ed i Bandiera — sacrifizî di sangue generosissimo e santissimo fatti sull’altare della libertà e della patria.
Quanti avevano creduto alla stella di Pio IX, soleva, piucchè far degni d’avversione, compassionare superbo; le Rivoluzioni del 48-49 usava predicare strepiti di fanciulli, fuorchè le Cinque Giornate, Venezia e Roma. Credette al 59; ma, al comparire dei Francesi, il cuore gli s’agghiadò; e, quando giunse Villafranca, gli si ruppe, spirando, cinque giorni dopo, la sua grand’anima, del male onde non pochi furono spenti allora, e che credo si possa non altrimenti chiamare, che «male di Villafranca!...»
Cirillo frequentava poco le chiese, nè ricordo averlo veduto mai entrar in un sacro ricinto.... per pregarvi: ho detto, non ricordo. — Tuttavia, spesse fiate, appoggiato al suo bastone, traeva, ancor valido della persona, alla riva del mare, la sera; dove seduto, ne contemplava in lunghissimo silenzio ora la superficie infinita, e or volgevasi al cielo, che cominciava a sorridere con le sue miriadi di stelle: e, in quell’estasi, la pupilla gli si velava d’una lagrima, e le labbra mormoravano arcane voci...
Scommetterei, o lettore, sull’anima santa di mia madre, che allora il vecchio pregava.... pregava.... come davvero dovrebb’essere pregato Iddio!
Nè oggi rivelando tali cose credo peccar d’indiscretezza: sulla tomba del giusto è dovere la lode perchè riesce a conforto e consiglio, ed è soprattutto efficace eccitamento al bene.
Se avveniva al buon vecchio, che alcuno gli commendasse o i soccorsi passati di nascosto al poverello, o l’integrità di sua fede, o la dottrina profonda, o gli onori acquistati sul campo a pro’ della libertà e della patria, e’ tosto facevasi buzzo e pensieroso, e, con voce brusca, che non ammetteva replica, così l’interrompeva: — Che! obbliate voi dunque, che questi sono atti di semplice dovere per noi?... — Poi, il suo discorso si voltava ad altro argomento.
Nè mai una piccola bugia a maculargli il labbro; nè men che degno sentimento gli si alzò dal cuore: — la sua era la coscienza del giusto.
L’amore ch’ho provato per lui non si dice a parole, e ben so quanto ne volesse a me il vecchio venerando. Oh, gli uomini come Cirillo, dove trovarli?
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
Volgeva una sera di dicembre.
Una fiamma viva e crepitante s’alzava dal camino, e la tradizionale lucernina a beccucci stava là accesa sul piano della gran tavola della sala. Spesse raffiche di vento sbatacchiavano le finestre con sibili sinistri: e noi, in quella solitudine della casa, soli. Io me ne stava raccolto in attesa di sue parole, e gli leggeva sul volto una calma e una serenità, che non sapevan di questo mondo.
In questa, Cirillo, ripigliando il filo di sue precedenti osservazioni, seguitava:
«Bada, figlio mio (chè tale ti potrei chiamar non so quante volte); i consigli de’ vecchi, sebben sembrino un po’ amari, lasciano il miele della dolcezza: l’esperienza è la più gran maestra della vita, e nessuno può dire maggiori verità di chi, prossimo al suo fine, non teme, che la nebbia delle passioni gli faccia velo al lume dell’intelletto.
«La gioventù non deve mai perdersi d’animo; chi si fa vecchio a vent’anni, ha guasto il cuore o infermo, l’intelletto: non si vive con l’immaginazione, e nemmeno si piange a tutte le traversie. Chi non ha mai combattuto, non sa che sia la virtù e la gioja più intima della coscienza. Lascia che si disperino gli abjetti, e i forti piglino lena dai mali; chè se non abbiamo quaggiù sempre a ridere, e nemmeno abbiamo sempre da piangere: bene e male sono la nostra vicenda: procediamo.
«Perchè il dolore ci fu dato inseparabil compagno, sarai tu in preda allo scuoramento, al dubbio, all’inazione? È massima delle viltà disperare di nostre forze: sai tu che sia veracemente la vita? — Una perenne battaglia. A ciascuno la Provvidenza assegna il suo posto: di qua maggiori difficoltà e spine; di là meno; ma ognuno è soldato. Chi cade pugnando, è eroe; chi abbandona la bandiera, è codardo.
«Il dolore è Sfinge, che ammaliò chiunque s’accinse a interpretarlo; è filtro in cui svigoriscono i più sani giudizi. Unico rimedio, sollevare la ragione alla propria dignità: chi la dura la vince.
«Pensa che non viviamo solo per noi, ma pe’ nostri fratelli ed amici; che quaggiù c’è l’umanità, c’è la patria, e sopra tutto c’è il grande principio del bene, Dio.
«A chi piacciono le armi, a chi sono care le lettere, chi si volge alle arti, chi si consacra alle scienze; ma alle afflizioni dell’animo è e sarà sempre medicina efficace il lavoro. Il lavoro è dovere per tutti quaggiù, ed è anzi onore; chi non produce, qual diritto ha a consumare? Alcuni poco sennati tengono questo o quel mestiere men degno, quella o cotest’arte meno nobile, indecorosa e giungon persino a trovarne di vili, e che so io. Non c’è nessuna arte, professione o mestiere, che sia vile; è solo vile chi pretende vivere a spalle altrui, oziando; vile chi contamina il vero, la virtù; chi semina calunnie, si macera d’invidia e non sa occupare il tempo, che in piaceri vani o dannosi.
«Hai detto, che la solitudine reca incompresi conforti; e hai detto bene; ma è necessario, ch’essa abbia fede e sia operosa. E così lo studio, che, retto e giudizioso, è fonte a’ giovani d’ottimi frutti: i libri buoni sono i più fidi e generosi compagni, ma bisogna essere guardinghi nella scelta. Pur troppo anche la repubblica delle lettere ha merce di contrabbando importata da gente senza onore e senza coscienza.
«Odo sempre lamentare e condannare i tempi; che vuoi? cotesta è pure esagerazione: i tempi sono quali li facciamo noi con le opere; credimi, volere o no, sono i principî che governano il mondo, i forti e onesti convincimenti. La moralità è lievito di cose sane e durevoli, ed è perenne fonte di forza.
«In sostanza il mondo bisogna pigliarlo come è; credi tu poterlo guarire con insani lamenti? Non c’è che un’arma per l’uomo onesto, quella della virtù: hai tu invidi, maligni, nemici? Fa il bene, non ti curar punto di loro, e si stancheranno. Temi la calunnia? bada, essa è come la nebbia che si scioglie a’ raggi del sole; una vita intemerata è la migliore guarentigia contro le arti dei codardi; il galantuomo porta il proprio trionfo sulla sua fronte, e non v’ha ricchezza, più splendida e bella della soddisfazione d’una giusta coscienza....»
⁂
Queste ed altrettali cose mi disse quella sera il venerando Cirillo; — e pochi giorni dopo era morto. Non faccio piagnistei, e non aggiungo di più; noto soltanto, che ho serbato e serberò perenne memoria di lui e delle sue massime.
Forse il lettore potrà meravigliare che io abbia parlato di Cirillo in queste pagine; e forse ha ragione: ma eccomi a spiegarmegli in due parole. Invece di ammannirgli, come si pratica, questa o quella scusa per meritare la sua indulgenza, ho pensato non potesse esservi più valido spediente, che di raccomandarmi pe’ meriti di quell’ottimo vecchio, o, se vuolsi, per la virtù de’ suoi consigli, la quale forse potrebbe trovarsi confacente a certe idee e tendenze espresse in questi Ricordi.
E, se il lavoretto non riesca a seconda delle migliori intenzioni, sia almeno un conforto l’aver sollevato l’animo a’ precetti di una savia morale, e segnatamente poter dire: «È così, che dee pensarla un galantuomo.»
«La solitudine: ecco il mio bene! —
«Il mar, le selve, le campagne e i monti,»
lo errare continuo come lo Ebreo della leggenda
mi hanno sparso nell’anima un po’ di
calma, un’illusione arcana, simile all’ultimo
raggio del sole, che muore sulla lontana
scrinatura dell’inaccessibil’alpe. — Di qui
l’ira è sparita, e il labbro ha imparato a santificar
la preghiera. È così dolce l’obblio!
quasi come il morire....
. . .
«. . . . Tra i pruni irti e convolti
Tra d’elci e faggi incrocicchiate sterpi,
Per letti di torrenti e per ciglioni
Di ripid’ erte anelando spingeva
Sue gracil’ orme, ove salire appena
Osò del capriol l’aereo piede.
«T. Mamiani.»