Ricordi del 1870-71/Il capitano Ugo Foscolo
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IL CAPITANO UGO FOSCOLO.
[Firenze, 24 giugno 1871.]
Tutti, al giungere della salma di Ugo Foscolo, si levano il cappello e abbassano riverentemente la fronte esclamando: — Onore al grande poeta.
Io mi pianto qui diritto, alzo la testa, porto la mano aperta alla tesa del cappello ed esclamo con accento soldatesco: — Onore al capitano Ugo Foscolo!
Il capitano Foscolo è poco conosciuto.
Nei collegi militari, quando un giovanetto dà segno di esser nato alle lettere e alla poesia, i maestri gli sogliono dire: — Bravo, studii, non si perda d’animo, la poesia si può benissimo conciliare colle armi; veda, per esempio, nell’antichità Tirteo; in tempi posteriori, Cervantes, Calderon de la Barca, Camoens; in Italia, Dante, che combattè a Campaldino, come lei sa; poi, in Grecia, Riga; Koërner in Germania; Ugo Foscolo.... —
Alto! signor maestro; alto dinanzi al giacinto greco educato ai soli d’Italia, come disse Francesco Domenico. Per gli altri, vada; ma di Ugo Foscolo, che è tanto vicino a noi, si dovrebbe dire qualcosa di più e di meglio che la solita formola: poeta e guerriero, quando lo si cita ai giovani poeti che un giorno saranno ufficiali. Guerriero! Gran cosa! Che un uomo dotato d’ingegno poetico eccellente abbia potuto andare alla guerra, non deve parer cosa singolare e mirabile se non a chi tenga come verità ammessa e riconosciuta che dire poeta, spaccone e poltrone, sia come dire bianco, rosso e verde. E questo un professore non lo deve credere. Al contrario, stando alla sentenza del Leopardi, secondo la quale non può immaginare e scrivere cose veramente nobili e grandi se non chi, avendone il modo, le farebbe; un maestro deve sempre mostrare di meravigliarsi che tutti i poeti, e massime i più bellicosi, non siano andati a fare il soldato quando se ne presentò l’occasione.
Quindi, parlando del Foscolo ai giovani militari, si dovrebbe dir loro, non già: — Vedete, esempio stupendo! Foscolo scrisse versi immortali e si battè da valoroso; — ma bensì: — Vedete, virtù rara! Foscolo il letterato, Foscolo il poeta, Foscolo colla testa piena di Omero, di Virgilio e di Dante, Foscolo fece il suo servizio d’ufficiale con una sollecitudine da contentare il colonnello più brontolone dell’esercito imperiale; Foscolo tenne la contabilità di tre depositi con una diligenza da disgradarne l’ufficiale d’amministrazione più consumato; Foscolo s’occupò delle camicie, delle scarpe, dei cappotti, della zuppa dei suoi soldati con una cura costante, affettuosa, paterna; ed amò infatti i suoi soldati come figliuoli, e ne fu amato come padre.
Qui sta il mirabile, qui la virtù caratteristica di Foscolo soldato, che gli altri poeti non ebbero, o che degli altri, almeno, non possiamo citare. Combattere da valoroso, certo, è qualcosa; ma far bene il servizio di quartiere e tenere in regola i registri, per un poeta, è molto di più; chè, in fin dei conti, nel combattere c’è poesia, o s’è assuefatti a vedercene, mentre in quelle altre faccende, chi ce la vuole, bisogna che ce la metta tutta di suo. E il Foscolo ce la mise, e per questo, ripeto, più che per altro, fu singolare e mirabile; e per questo vuol essere ricordato e lodato.
Bello è vedere il Foscolo, giovanissimo, ma pure colla profonda certezza di esser nato alla gloria e di riuscire un giorno da più che qualcosa, il Foscolo che aveva speso la sua adolescenza negli studi, e trionfato a Venezia col Tieste, e scritto la celebre ode a Buonaparte, e redatto il Monitore Italiano con Pietro Custodi e Melchiorre Gioia, e riempito omai del suo nome mezza Italia; bello è vederlo, al primo grido di guerra, dimenticar versi, fama ed amore, e abbandonarsi tutto allo spirito guerriero che gli ruggìa dentro, e fare come semplice soldato le campagne del VII, e combattere a Cento, a Forte Urbano, alla Trebbia, a Novi, in Toscana. Bello il vederlo sui monti di Genova, sotto gli occhi del maresciallo Soult, slanciarsi tra i primi all’assalto del forte dei Due Fratelli, e cader ferito, e meritare le lodi del generale Massena. Bello il vederlo la sera, stanco delle lunghe fazioni del giorno, arringare il popolo genovese, ridotto ormai a cibarsi di gatti e di buccie di limone, e accenderlo di coraggio e di speranza; e potendo stare meno a disagio nello stato maggiore, preferire d’aver comuni cogli altri i digiuni e gli stenti del soldato; e tra questi stenti, in mezzo alle grida delle madri genovesi moribonde di fame, scrivere l’ode a Luigi Pallavicini e la lettera fatidica a Buonaparte. Bello infine vederlo pellegrinare pei campi italiani, facendo, com’egli scrisse, da difensore ufficioso ai soldati colpevoli sottoposti ai Consigli di guerra; e compiere la sua missione topografica nella Valtellina traducendo Omero, e raccogliere documenti per la storia dell’arte militare, e dar opera alla pubblicazione del Montecuccoli, e cercare ogni mezzo di rendersi utile e d’usare il suo ingegno in pro dell’esercito e della patria. Tutto questo è bellissimo; ma non vale le poche lettere d’ufficio scritte da Valenciennes al capo di stato maggiore e al generale di divisione.
Scrisse queste lettere come comandante di tre depositi del così detto Esercito dell’Oceano, al campo di Boulogne. Era suo vivissimo desiderio di seguire in Inghilterra il genio di Bonaparte, per vedere coi suoi occhi una spedizione, la quale per i cambiamenti di sistema di guerra e pei progressi della marina, avrebbe fatto epoca negli annali delle guerre. Ma pur troppo il suo desiderio andò deluso, ed egli non vide combattere altre colonne che quelle del dare e dell’avere, e invece di riportare vittorie si dovettero contentare di riportar totali.
La sua corrispondenza data dal giorno in cui assunse il comando dei tre depositi, il 3 gennaio 1805. Le lettere sue sarebbero quarantotto; di conosciute non ve n’è che dieci o dodici; ma bastano a far capire con che buon volere e che cuore il Foscolo facesse il dover suo. Si vede che il proprio servizio egli lo pigliava sul serio quanto il proprio genio, e che il suo maggior dolore era di non poter compiere questo servizio meglio di quel che facesse, sia perchè si trovava male in arnese fin dal giorno del suo arrivo al campo, sia perchè i depositi difettavano di tutto, persino del più necessario alla vita; coloro cui spettava di provvedervi avendo il capo alla guerra più assai che ad ogni altra cosa.
Un gran tormento per lui era l’amministrazione.
I superiori gli raccomandavano continuamente l’economia, e a lui non bastava il cuore di farla con quei poveri soldati già ridotti agli estremi. «Mi ingegnerò; — rispondeva al generale — e d’ora in poi darò solo la metà paga; ma è impossibile, atteso il freddo e il bisogno che il soldato ha della birra, di fargliela aspettar tutta.»
I soldati dei depositi erano travagliati dalla febbre; ma poco male la febbre. «I rognosi — scrivea egli al suo capo di stato maggiore — vanno guarendo; ma i nuovi arrivati ne hanno avuto la loro porzione.»
Anche la rogna!
E sempre, in queste sue lettere, l’accento della più sincera e più calda premura: «Io vi supplico, mio generale, di scrivermi s’io devo continuare a far somministrare il pane da zuppa.» E un’altra volta: «Vi supplico di far sì che i capi dei corpi mi mandino la porzione di massa pel pane da zuppa. Il capo battaglione Begani è testimonio delle noie con cui mi punge il fornaio pel suo credito di un mese; e fra otto giorni sarò forzato a sospendere la zuppa. Che se a questa privazione s’aggiunge anche la privazione della paga, immaginate che diverrà del povero soldato!»
A dar un’idea dello stato in cui codesti soldati si trovavano, valgano i seguenti periodi, che sono veramente commoventi, e si notino quelle parole sul cappotto, sui depositi, sulle rappezzature, sulle frodi, che son proprio quelle stesse che si senton dire tutti i giorni nei nostri reggimenti: mali sempre veri e lamenti sempre inutili.
«Il buon volere di tutti i soldati — scrive al generale — e le cure dei sotto-ufficiali hanno sino ad ora riparato con l’industria e con le rappezzature l’imminente nudità. E posso dire che i tre depositi giunti a Valenciennes logori e indecentissimi potrebbero presentemente ad una rivista sostenere il confronto della tenuta con ogni individuo de’ reggimenti; ove per altro non si guardi più oltre della scorza e si conceda il cappotto copritore di magagne a quegl’infelici che non hanno nè uniforme, nè giubba con maniche. Ma tutti questi ripari vanno diventando insufficienti, e le rappezzature consumano una parte della paga del povero soldato. So che i Corpi sogliono riguardare i depositi come un ammasso di pezzenti; ma vera o falsa quest’opinione, io non soffrirò mai che il soldato sotto i miei ordini abbia a vergognarsi della propria persona; ed invocherò con tutto il vigore il vostro aiuto per fare osservare quelle leggi che pagano il sudore del soldato e lo proteggono dalla frode.»
Bene e bravo!
S’occupava egli stesso della compra delle camicie pei soldati, e a furia di ricerche, essendo riuscito a trovarne delle buone a tenuissimo prezzo, scriveva al generale per fargli notare che nei corpi si pagano molto di più e che sulla massa dei soldati si ruba.
Per dare un premio ai sott’ufficiali di buona condotta, e perchè non gli reggeva l’animo di vederli mal vestiti, il povero Foscolo anticipava loro, di sua tasca, un po’ di danaro sui risparmi futuri delle loro masse; faceva man mano accomodare gli oggetti dei soldati coi pochi sussidii che la sua povertà gli concedeva di prestare; assisteva egli stesso a tutti i contratti perchè non si defraudasse il soldato; ratificava gli atti più minuti dell’amministrazione; esigeva che gli operai e i mercanti andassero di persona al suo ufficio a prendere le ricevute; e così a forza di pazienza e di cura faceva in modo che le cose camminassero il meno peggio possibile.
«Interponete la vostra autorità, mio generale — egli scriveva — perchè io possa vedere i miei soldati contenti di me come io sono omai divenuto contento di loro. La sala di disciplina è vuota; il servizio, regolare; i tre corpi, concordi, e tutti zelanti per il proprio dovere.»
Ma non era sempre così. Egli aveva ragione di lamentare, fin d’allora, la poca subordinazione in cui vivono naturalmente gl’individui lontani dalle severità dei corpi, ed esigeva che i sott’ufficiali contabili, lontani dai suoi occhi, venissero a presentargli ogni giorno il proprio lavoro. Brontolava anch’egli, fin d’allora, perchè i sott’ufficiali tendevano a violare l’ordinanza dell’uniforme. Deplorava che il vestito dei soldati fosse fatto, anche allora, a casaccio, e che la cintura dei calzoni, in ispecie, non arrivasse al ventre, e che quei benedetti fondi si logorassero in così poco tempo. E si doleva col generale che gli ufficiali comandanti i drappelli lasciassero per la strada gli infermi e si portassero via i cappotti; «cosa non so se contro i regolamenti — soggiungeva — ma certamente contro l’umanità e la prudenza;» anche allora. — Gli toglievano i migliori sergenti; scriveva ai corpi, e i corpi non gli davan retta; voleva chiudere i conti e non gli spedivan le carte; ed egli s’indispettiva, povero Foscolo, e si rodeva, e si sfogava col suo generale: «Sono assai male trattato; lasciatemi almeno il foriere Gilli, unico capace ad aiutarmi nella noiosa, imbrogliata e per me nuova contabilità di tre differenti Depositi.»
Oh povero autore dei Sepolcri!
E a questo s’aggiungevano altri guai. Il vivandiere aveva tre figliuole; queste tre figliuole non adornavan l’amor d’un velo candidissimo, punto punto; ne seguivano gelosie tra i sergenti, risse, duelli; e il povero Foscolo era costretto a consegnare i soldati in quartiere, ad arrestare, ad inquisire, a stendere relazioni su relazioni. I sergenti rubavano sui fogli di prestito; un sergente-maggiore gli scappava, un soldato portava via le catene dai carri d’artiglieria, un altro veniva alle mani coi cittadini, e lì richiami, proteste, scandali. E intanto sopraggiungevano in folla i prigionieri inglesi, e bisognava rafforzare il servizio di guardia, e il numero dei soldati non bastava, e i soldati si lamentavano.
«Ah! mio generale — scriveva allora il Foscolo disperato — confesso che la forza e la pazienza mi cominciano a mancare.»
L’anima del Foscolo, disse giustamente un critico, era lirica; lirica nelle lettere famigliari, lirica negli articoli di giornale, lirica nelle prefazioni, lirica persino nelle postille di commentatore. È vero, e queste sue lettere sono liriche anch’esse, piene di passione, di vigore, di vita.
«Vi raccomando mio fratello — scriveva al vice-presidente della Repubblica italiana. — Egli è colto, coraggioso e bello.» Curioso quel bello, messo lì in fondo a una supplica con quella franchezza; chi ce lo mettesse ora!
«Il solo Bravosi — scrive al generale di divisione — resta fidecommesso nella stanza della rogna; ed il solo Ragazzi, ladro, esce tutti i giorni dalla sua prigione, fra l’immondizia e lo squallore, esempio quotidiano ai malfattori.» È scolpito.
E poi certi passaggi curiosi. Scrivendo a un sergente-maggiore, dopo un’invettiva violenta, conclude solennemente:
«E il cacciatore Gabbetto è creditore vostro di lire 3 per una camicia!»
Altrove una tirata sulle stufe, sulle marmitte, sui vetri rotti.
E di qualunque cosa parlasse, sempre lo stesso impeto, lo stesso fuoco, come se declamasse una poesia o improvvisasse un’orazione.
Nè queste cure impedivano al Foscolo di studiare. Dopo gli esercizi militari, che spesso Napoleone faceva fare per lunghe e lunghe ore anche colla pioggia dirotta, e specie nei giorni di riposo, mentre i soldati coltivavano gli orti intorno alle baracche, e gli ufficiali ballavano, amoreggiavano o giocavano al biliardo, il Foscolo studiava ardentemente la lingua inglese, incominciava la traduzione dello Sterne, scriveva la stupenda Epistola a Vincenzo Monti; e commosso dallo spettacolo di dugentomila uomini accampati sulla sponda dell’Oceano, meditava la seconda edizione del Montecuccoli e volgea in mente i carmi alteri come il brando che dovevano accender la musa di Silvio Pellico; tanto è vero, come scrisse il Pecchio, che chi sa rinunciare alla bottiglia, alla pipa e alle carte, abbonda sempre di tempo anche in mezzo alle funzioni della guerra. In una parola, il poeta fortificava in lui, anzichè snervare il soldato, e gli dava lena a sopportare con animo invitto i disagi, nonostante ch’egli avesse amato prima ed abbia amato poi la vita molle ed agiata. L’amò poeta, soldato la disprezzò. E certo doveva aver virtù di tal genere, — osservò giustamente uno de’ suoi biografi, — nè altre virtù potevan renderlo così accetto, com’ei fu, ai militari, non punto propensi a concedere la loro ammirazione a chi segue più riposato cammino.
Tale fu la vita militare di Ugo Foscolo.
Da ultimo, per i mutamenti politici e per quelli dell’animo suo, si stancò della carriera delle armi, e deliberò di escirne; ma non l’ottenne senza difficoltà e senza noie. Aspettava una riforma, non venne; chiese le demissioni, non gliele volevano dare; la divisa militare gli pesava; cosa che segue sovente anche ai dì nostri a chi la vestì con troppo ardore e troppe speranze.
«Questa divisa italiana — egli scriveva, — mi pare sì umiliata, sì misera, sì perigliosa, che io darei un paio di scudi a chiunque la portasse, quando io sono alle volte obbligato a portarla.»
E non la vestiva che per far rispettare la sua carrozza dai gabellieri.
Ma non fu colpa sua; a suo tempo ei l’amò, codesta divisa, e la vestì con orgoglio, e con orgoglio scrisse a Gioachino Murat quelle memorabili parole:
«Principe, le lettere sono il primo scopo della mia vita; ma io le ho sempre associate alle armi per dar loro il coraggio e l’esperienza, che distingue i grandi scrittori.»
E ricordino queste parole, e le ripetano sempre tutti i letterati militari presenti e futuri.
E ricordino pure, in certi momenti d’uggia e di stizza, quando il giogo della disciplina preme più forte, e il sangue comincia ad accendersi, ricordino che molte volte anche l’autore dei Sepolcri si sentì dire da qualche maggiore arrabbiato:
— Signor Foscolo!... le scale son sudicie.... Signor Foscolo!... lei non ha la cravatta d’ordinanza. Signor Foscolo!... si eserciti; lei non maneggia ancor bene lo stile d’ufficio! —
E Foscolo, focoso, indocile, superbo; Foscolo, che travedeva cogli occhi della mente le generazioni avvenire chinate innanzi alla sua immagine, Foscolo stette a sentire, e mandò giù e tacque; e s’egli tacque, altri può ben rassegnarsi a tacere: lo si pigli ad esempio anche in questo.
Ed oggi che la sua salma è restituita all’Italia, e di lui, della sua indole, del suo cuore, della sua vita si parla e si scrive con ardore nuovo e giudizi diversi, non ci sfuggano allo sguardo, tra le foglie della corona d’alloro, i galloni del vecchio berretto di capitano; tra i versi dei Sepolcri raffiguriamoci le cifre e le righe dei registri; poichè anche quel berretto coperse dei nobili sudori, e fors’anche su quei registri, qualche volta, a tarda notte, in una cameretta solitaria del quartiere di Valenciennes, egli lasciò cadere la fronte stanca e contristata. Teniamo conto della pietà gentile ch’ei nutriva pei suoi soldati laceri ed infermi, e dell’ira generosa con cui ne difendeva i diritti e ne proclamava i sacrifizi; mettiamo sulla bilancia anche quelle fatiche, quei disinganni, quei dolori; e in mezzo agl’inni e alle musiche che lo salutano grande cittadino e grande poeta, sorga un grido soldatesco accanto alla tomba, che dica:
Gloria al capitano Ugo Foscolo!
Forse, chi sa? s’egli si potesse destare un istante, quel grido, più che ogni altro, varrebbe a richiamare sulle sue smorte labbra un sorriso e un lampo nei suoi occhi infossati. Forse egli mormorerebbe con voce commossa: — Oh!... il mio campo di Boulogne! I miei soldati! —