Ricordanze della mia vita/Parte terza/XX. Gennarino Placco
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XX*
(Gennarino Placco).
17 settembre 1854.
Tra le ventidue persone che per causa politica sono state dalla fortuna gettate meco all’ergastolo, è un giovane albanese di Calabria, nato in Civita, paesello della provincia di Cosenza. Voglio parlare di lui per consolarmi e per riposarmi; perché l’anima mia è stanca di contemplare tanta oscena bruttezza di uomini e di cose.
Nel collegio italo-greco di San Demetrio stette egli sino a venti anni sotto quella stolida disciplina che si chiama e si crede educazione. Volevano farlo prete, ma vedendone l’indole troppo ardita, e certe scapataggini d’amorazzi, gli lasciarono scegliere una professione, ed egli scelse quella del notaio. Per apprenderla andò in Castrovillari paese distante un otto miglia dal suo villaggio; e quivi si diede a studiar legge e a far versi e l’amore. Aveva ventidue anni, ingegno vivido e poetico, cuore caldissimo e saldo, e non era ancora uscito dal nido quando venne il 1848, anno di tanta vita e di tante speranze: ed egli che da giovane amava la libertá per istinto d’animo generoso, e per averla veduta dipinta cosí bella nei libri dei greci e dei romani, sentí che un’ignota potenza gli sollevava il cuore e la mente. La Calabria nel giugno di quell’anno si levò in armi: ed egli preso il moschetto chiamò a seguirlo diciassette albanesi del suo paesello; andò ad accamparsi a Campotenese, e quando si dové combattere, combatté da prode, da leone, come si combatté a Maratona, col coraggio di Cinegira. Animoso spensierato, sicuro che tutti gli altri avevano il cuore suo, si avanza solo, non ode chi gli grida di ritirarsi, combatte fra le palle che gli fischiano intorno e sollevano un nugolo di polvere. Ora disteso boccone a terra, ora dietro un albero, ei solo tien fronte a cinquanta nemici irritati e maravigliati di tanto ardire. Due soldati non visti lo assaltano di fianco, gli scaricano due fucilate, una palla gli porta via il moschetto e il dito indice della mano destra, gli vanno sopra per trapassarlo con le baionette; ma egli, benché disarmato e ferito, slanciasi, afferra con le mani le due baionette, le separa, le svia, e abbranca uno dei soldati per farsene scudo, e non morir solo. Sovraggiungono gli altri, che gli danno vari colpi in testa, sulla fronte, in una natica; e l’avrebbero disonestamente ucciso, se un caporale da lui ferito in una gamba, non l’avesse generosamente salvato e frenata l’ira soldatesca.
Mutilato e sanguinoso, è trascinato in Castrovillari: e risanato dalle ferite, dopo due mesi, è gettato nel carcere di Cosenza; dove sempre lieto, sempre confidente, cantava, poetava, occhieggiava quante donne si volgevano al suo canto. Interrogato dal giudice, disse schiettamente il fatto com’era andato: e ripreso dall’avvocato che quella schiettezza lo perderebbe, rispose: «Oh era meglio mentire e disonorarmi?» La prima causa politica trattata innanzi la corte criminale di Cosenza, fu la causa sua e di Giovanni Pollaro, giovane palermitano, al quale in un altro combattimento una palla tolse un occhio e metá del naso: ed ambedue furono dannati a morte. Con la scure sul collo, in mezzo ai piú fecciosi assassini e nel piú scellerato carcere, egli sperava, confidava, rideva, cantava, verseggiava, folleggiava giovanilmente e si compiaceva del dispetto che si avevano coloro che avevano pensato di atterrirlo. Dopo dieci mesi venne la generosa grazia ad entrambi; e la pena di morte fu commutata in quella dell’ergastolo. Indi a poco i due mutilati ed onorati giovani con una lunga funata di settantadue ribaldi condannati alla galera, furono menati da Cosenza a Paola, dove imbarcati sovra un brigantino rimorchiato da un battello a vapore, sbattuti pel Faro e lo Spartivento, pel Jonio, per l’Adriatico, sbarcarono a Pescara, e furono chiusi in quel bagno. Colá rimasero i galeotti: i due giovani con altri due ergastolani furono per gli Abruzzi, di carcere in carcere, orribilmente trascinati per lunghissima via sino a Gaeta. Fa pietá a udire gli strazi che patirono; in Pescara avevano la febbre, dimandarono un po’ di brodo dell’ospedale o il permesso di farsene a loro spese, e fu loro risposto dal feroce comandante: «Per voi c’è il brodo delle fave». E piú feroce del comandante era un cappellano sbilenco e deforme nella faccia, che all’udire i poveri giovani lamentarsi di certe durezze soverchie, voleva farli battere colle verghe; e il tigre chiercuto l’avría pure fatto se la moglie del comandante impietosita non avesse dissuaso il marito da quell’atto scellerato. Per il lungo viaggio coi polsi stretti dalle manette e le braccia dalle funi, non avevano forza di camminare: la pioggia gl’immollava, affondavano nelle fangaie, la febbre li bruciava, i gendarmi li insultavano e li spogliavano, morivano di fame e non avevano denaro da comprarsi il pane, la notte tremavano di freddo e non avevano per ricoprirsi che le vesti immollate d’acqua, spesso erano chiusi in orrendi cessi e dovevano poggiare il capo su fetide cloache; gli sfortunati credevano di morire di stenti, di fame, di spossatezza. Da Gaeta, dove finalmente giunsero furono sopra una barca trasportati in Santo Stefano, in ottobre del 1850: qui non erano altri ergastolani politici.
Nel giorno che io e i miei due compagni giungemmo in Santo Stefano, che fu il 7 febbraio 1851, mi fu presentata una lettera che io apersi e dentro vi lessi un sonetto a noi indirizzato e sottoscritto da Gennarino Placco. Il sonetto era bello, affettuoso, pieno di nobili sensi. Dimandai chi fosse lo scrittore: mi fu risposto essere un giovane calabrese politico. «E perché», dissi, «non è qui sul terzo piano?» «È al pianterreno coi suoi paesani», mi risposero. Mi affacciai, lo vidi, lo salutai, lo ringraziai del bel sonetto. Dopo forse un quindici di una sera eravamo stati chiusi allora allora nei camerini, quando udimmo un grido terribile, vedemmo accorrere i custodi verso il pianterreno, e gli ergastolani chiusi meco dissero: «Sangue tra i calabresi»; ed affollati alla finestra dicevano fra loro: «Chi sará?» «Sará qualche ferito grave, vengono gl’infermieri per portarlo all’ospedale». «No, viene la bara: sará morto; è morto, chi sará? Lo portano: ai calzoni pare che sia don Gennarino...» «Gennarino!» rispos’io, «Gennarino assassinato, e perché?» e mi sentii spezzare il cuore. Uno seguitò: «Forse non è desso».
Io non dissi piú, venne il buio, fu deposto il cadavere nella bara, levato il ponte, ogni cosa tacque. Che notte orribile fu quella per me, piansi per quel povero giovine, che io non conoscevo, che avevo veduto poche volte sol da lontano, ma che giá sentivo di amare. L’altro giorno come s’apre la porta, dimando ansiosamente dell’ucciso, so che era uno sciagurato, voglio riveder Gennarino, lo saluto, e gli dico che egli deve ad ogni modo uscir di lá e montare sul terzo piano.
Quel giorno stesso ci montò, ed io abbracciai un bel giovane, una faccia greca, occhi scintillanti, parlante con certa sua enfasi albanese, e con l’erre come la pronunziava Alcibiade. Stringendogli la mano gliela vedo mutilata dell’indice: ed egli sorridendo mi dice: «Lo perdei combattendo presso Castrovillari».
Corre il quarto anno che questo valoroso e sfortunato giovine è mio amico ed io lo amo con tenerezza fraterna, e son certo di essere da lui riamato. Ora ha ventinove anni, ma egli sente, ed a me pare, e tutti dicono che egli non giunga a venti; non perché il povero giovine non porti sul volto i profondi solchi che vi segna la sventura, e non abbia gli occhi dipinti di mestizia; ma perché l’anima sua odora di tutta la freschezza, di tutta la ingenuitá, di tutta la spensieratezza, di tutta la candidezza d’un fiorente giovanetto.
Egli è rozzo nelle maniere, anzi talora è selvatico, come albanese e montanaro: ma a me piace assai quella durezza, segno di animo saldo e maschio, quei suoi recisi no e sí, senza quella convulsione civile che chiamasi sorriso, senza quelle cortesi parole che sono intonaco sopra muro fradicio: sotto quella dura scorza palpita un cuore nobile e generoso. Di sé sente assai modestamente: eppure ha sufficienti studi, ingegno vivo e facile, scrive bei versi: facilmente ha appreso il francese e l’inglese dai compagni dell’ergastolo: non c’è faccenda da cui non sappia cavar le mani, non c’è bisogno d’amico a cui egli non corra, volentieri rende servigi a tutti, è sempre operoso, sa molto fare, poco parlare; sdegnasi se alcuno lo ringrazia di alcuna cosa che egli fa. Scrive, legge, copia scritture d’amici, purché abbia da fare, è contento. Pretende d’essere astuto e malizioso, ma la sua è malizia di seminarista, è acume di giudizio che non è esercitato né in molte cose né in malvagitá.
Non cape malizia in un cuore come il suo, senza superbia, senza pretensione alcuna. Fra gl’ignoranti non ha spaccio di sapere, come molti fanno che non vergognano di volere ammirazione dagli stolti: con le persone colte non si smarrisce, né si fa disprezzare; facile con tutti, è sempre desso, schietto e semplice. Del mondo, degli uomini e delle cose non conosce altro, se non quello che ne ha letto sui libri, o ne ha veduto in un cerchio di poche miglia intorno il suo paesello, il quale, come tutti gli altri albanesi del regno, è rimasto nello stato di tribú, ancora mezzo barbaro: nell’ergastolo egli ha vedute, udite ed imparate molte cose a lui prima sconosciute del tutto, né nasconde questa sua ignoranza, ma ne ride, e cerca sempre di apprendere ogni cosa da chicchessia. Un giorno io comperai un’aligusta, che non ne aveva veduto mai, ne fece le meraviglie e le risa grandi: la ghermí, mentre batteva, la guardò, la considerò attentamente, ne dimandò tante cose, né si persuadeva che la si potesse mangiare. Un altro dí mi diceva: «Se io dovessi menare una donna, una signora a braccetto io morirei di confusione. Oh che le dovrei dire? e come potremmo camminare?» Un’altra volta mi portò a vedere un passerino che uscito la prima volta dal nido che era in mezzo dell’ergastolo gli era caduto innanzi ai piedi. «Povero passerino», gli dissi io: «è simile al povero Gennarino che al primo volo che spiccò dal nido cadde nell’ergastolo». «Sí davvero», mi rispose, «e lo voglio educare, perché la sorte sua è simile alla mia».
Spesse volte egli discorre meco della lingua e della poesia albanese, mi recita e mi spiega molte belle canzoni, alcune fatte da lui all’improvviso, e che la notte andava cantando per le vie del suo paese innanzi le case delle amate donne. Mi descrive le usanze, le cerimonie, i riti che usano nei funerali, nelle nozze, nella nascita dei figliuoli; mi narra come le donne credono ciecamente alle fatture e agli stregoni, e come egli, l’astuto seminarista, le dava a bere a quelle poverette certe sue trappolerie per carrucolarle ai suoi voleri, e mi vuol far credere che esse cadevano spaurite dalle sue baie, e non prese dai suoi occhi lucenti e dalla bella giovinezza che gli fioriva sul volto. Mi dipinge i suoi monti, il suo paese, la sua casa, la sua famiglia tutta quanta, il collegio di San Demetrio, i suoi studi, i suoi compagni, le sue follie, le sue audaci imprese d’amore: come la notte dalla finestra della sua stanza si calava per una fune e andava a cantare ed amoreggiare: come al tempo della mietitura egli andava in campagna per ischerzare con le spigoliste, e come si mescolava alla gioia delle fanciulle che spannocchiavano il gran turco. È usanza di queste fanciulle che quale trova una spiga rossa di gran turco deve dare un bacio a chi ella vuole, e poi rompe la spiga. Ora egli adoperava ogni arte per avere in mano una spiga rossa e dare un bacio a qualcuna; e la baciata, per non rimanere essa sola col bacio, cercava di trovare la spiga rossa e nascostamente la dava a lui, affinché ne baciasse un’altra; questa faceva lo stesso: tutte volevano che avesse egli la spiga in mano; e il baciatore era sempre egli. A questi racconti che ei mi fa con parole vive e palpitanti, con motti pittoreschi, con affetto crescente, con gesti animati agitando la mano mutilata che io sempre gli guardo, io mi sento rinfantocciare, mi pare che sono fuori l’ergastolo, e che con lui mi aggiro pei monti: mi tornano a mente i lieti giorni della mia fanciullezza, la casa mia, la famiglia mia: mi si ridestano tante memorie, tanti affetti.
E tal’altra volta mentre la sera i compagni o passeggiano, o dormono, o ciarlano a caso, io mi distendo tacito sulle tavole del mio letto, ed egli compagnescamente viene a distendersi vicino a me, e per lunghissime ore mi parla della sua famiglia con affetto immenso che quasi mi sforza alle lagrime. «Mio nonno», egli dice, «era un prete albanese, ed io me lo ricordo vecchio vecchio, di novantasei anni, accanto al focolare con un bastoncello in mano, col quale tirava bastonate da orbo alla pignatta che bolliva al fuoco, o alla povera madre mia che cuciva vicino a lui, credendo che fosse il gatto o il cane che forse gli era passato fra le gambe. La mia famiglia era povera; ma mio padre attendendo ai lavori della campagna, e mio zio prete amministrando e regolando gli affari di casa, solamente con le fatiche e col giudizio, a poco a poco ci hanno acquistato una certa comoditá.
«Mia madre che aveva nome Marta, fece cinque figli tutti maschi, dei quali io sono il primogenito, e la perdei che avevo sedici anni. Povera madre quanto mi amava, e che crudele malattia ella ebbe! Io la vestiva, la prendeva tra le braccia, io la tramutava da un letto ad un altro, ed ella morí tra le mie braccia chiamandomi a nome e benedicendomi.
«Io l’accompagnai alla chiesa, io primo mi accostai alla bara, le baciai la mano e la faccia per l’ultima volta. Quanto era buona quella cara mamma e quanto mi amava!
«Rimasti cosí tutti e cinque noi fummo educati da un nostro zio, che è un savio e dabben uomo, e ci ha tenuto luogo di madre e di padre. Mio padre, come sapete, è morto per una caduta da cavallo, e qui ne ho avuto la trista novella. Nel carcere di Cosenza seppi d’aver perduto di febbre un fratello. Ora la mia famiglia si compone di mio zio, di tre fratelli, e di me che sono nell’ergastolo, e non so se potrò rivedere la casa mia, se potrò tornare accanto a quel focolare dove ho veduto mio nonno, dove ho dormito tra le braccia di mia madre, dove baciavo le vecchie e dure guance del padre mio, quando la sera tornava dai campi; se potrò sedere un’altra volta a mensa con mio zio e coi miei fratelli vicino a quel fuoco; se potrò un’altra volta baciare la mano al mio buon zio, e chiedergli perdono dei miei trascorsi giovanili, che tanto addoloravano lui e mio padre. Io ne ho fatte molte pazzie giovanili, ed ora merito ciò che soffro».
E cosí affettuosamente parla di cose che io non potrei né saprei ridire.
O mio caro Gennarino, caro e sfortunato giovane, se molti ti udissero e ti conoscessero come ti ascolta e ti conosce l’amico tuo, molti ti amerebbero come io t’amo.
Fa cuore, o mio Gennarino, Dio certamente non vorrá che un sí bell’ingegno, sí bel cuore, sí schietta anima si perda nell’ergastolo.
Non si male nunc et olim sic erit. Non è senza un perché cotesta confidenza, cotesta lietezza che ti sta nell’animo; ed è certo presagio di un avvenire men reo!
Che se altrimenti è scritto di noi, se dovremo penar qui per lunghi anni, e forse qui morire, ti sia conforto l’affetto e la stima di un amico, il quale, essendo sventurato come te, non ti chiede altro se non che tu seguiti a riamarlo.