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84 parte terza - capitolo xx [370]


portarlo all’ospedale». «No, viene la bara: sará morto; è morto, chi sará? Lo portano: ai calzoni pare che sia don Gennarino...» «Gennarino!» rispos’io, «Gennarino assassinato, e perché?» e mi sentii spezzare il cuore. Uno seguitò: «Forse non è desso».

Io non dissi piú, venne il buio, fu deposto il cadavere nella bara, levato il ponte, ogni cosa tacque. Che notte orribile fu quella per me, piansi per quel povero giovine, che io non conoscevo, che avevo veduto poche volte sol da lontano, ma che giá sentivo di amare. L’altro giorno come s’apre la porta, dimando ansiosamente dell’ucciso, so che era uno sciagurato, voglio riveder Gennarino, lo saluto, e gli dico che egli deve ad ogni modo uscir di lá e montare sul terzo piano.

Quel giorno stesso ci montò, ed io abbracciai un bel giovane, una faccia greca, occhi scintillanti, parlante con certa sua enfasi albanese, e con l’erre come la pronunziava Alcibiade. Stringendogli la mano gliela vedo mutilata dell’indice: ed egli sorridendo mi dice: «Lo perdei combattendo presso Castrovillari».

Corre il quarto anno che questo valoroso e sfortunato giovine è mio amico ed io lo amo con tenerezza fraterna, e son certo di essere da lui riamato. Ora ha ventinove anni, ma egli sente, ed a me pare, e tutti dicono che egli non giunga a venti; non perché il povero giovine non porti sul volto i profondi solchi che vi segna la sventura, e non abbia gli occhi dipinti di mestizia; ma perché l’anima sua odora di tutta la freschezza, di tutta la ingenuitá, di tutta la spensieratezza, di tutta la candidezza d’un fiorente giovanetto.

Egli è rozzo nelle maniere, anzi talora è selvatico, come albanese e montanaro: ma a me piace assai quella durezza, segno di animo saldo e maschio, quei suoi recisi no e , senza quella convulsione civile che chiamasi sorriso, senza quelle cortesi parole che sono intonaco sopra muro fradicio: sotto quella dura scorza palpita un cuore nobile e generoso. Di sé sente assai modestamente: eppure ha sufficienti studi,