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carcere, orribilmente trascinati per lunghissima via sino a Gaeta. Fa pietá a udire gli strazi che patirono; in Pescara avevano la febbre, dimandarono un po’ di brodo dell’ospedale o il permesso di farsene a loro spese, e fu loro risposto dal feroce comandante: «Per voi c’è il brodo delle fave». E piú feroce del comandante era un cappellano sbilenco e deforme nella faccia, che all’udire i poveri giovani lamentarsi di certe durezze soverchie, voleva farli battere colle verghe; e il tigre chiercuto l’avría pure fatto se la moglie del comandante impietosita non avesse dissuaso il marito da quell’atto scellerato. Per il lungo viaggio coi polsi stretti dalle manette e le braccia dalle funi, non avevano forza di camminare: la pioggia gl’immollava, affondavano nelle fangaie, la febbre li bruciava, i gendarmi li insultavano e li spogliavano, morivano di fame e non avevano denaro da comprarsi il pane, la notte tremavano di freddo e non avevano per ricoprirsi che le vesti immollate d’acqua, spesso erano chiusi in orrendi cessi e dovevano poggiare il capo su fetide cloache; gli sfortunati credevano di morire di stenti, di fame, di spossatezza. Da Gaeta, dove finalmente giunsero furono sopra una barca trasportati in Santo Stefano, in ottobre del 1850: qui non erano altri ergastolani politici.

Nel giorno che io e i miei due compagni giungemmo in Santo Stefano, che fu il 7 febbraio 1851, mi fu presentata una lettera che io apersi e dentro vi lessi un sonetto a noi indirizzato e sottoscritto da Gennarino Placco. Il sonetto era bello, affettuoso, pieno di nobili sensi. Dimandai chi fosse lo scrittore: mi fu risposto essere un giovane calabrese politico. «E perché», dissi, «non è qui sul terzo piano?» «È al pianterreno coi suoi paesani», mi risposero. Mi affacciai, lo vidi, lo salutai, lo ringraziai del bel sonetto. Dopo forse un quindici di una sera eravamo stati chiusi allora allora nei camerini, quando udimmo un grido terribile, vedemmo accorrere i custodi verso il pianterreno, e gli ergastolani chiusi meco dissero: «Sangue tra i calabresi»; ed affollati alla finestra dicevano fra loro: «Chi sará?» «Sará qualche ferito grave, vengono gl’infermieri per