Ricordanze della mia vita/Parte terza/XXI. La speranza dell'ergastolano
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XXI
(La speranza dell’ergastolano).
Santo Stefano, 1 dicembre 1854.
. . . Son passati sei anni, e chi sa quanti altri ne passeranno, e quanti pochi di noi usciran vivi di questo naufragio! Alcuni de’ miei compagni, specialmente i piú vecchi, sperano e credono che usciranno tra breve, e da che sono entrati in carcere hanno sempre sperato e creduto che fra un mese, fra due, fra sei, fra un anno al piú sarebbero fuori: e se talvolta si dice loro che hanno sempre sperato e creduto invano, essi rispondono che oggi non è come ieri, e dimani non sará come oggi. Quanto io li invidio! quanto vorrei anch’io cosí credere e sperare! Desidero sí, ma spero poco. C’è tra noi un vecchietto di sessantadue anni, arzillo e allegro, il signor Michele Aletta di San Giacomo in provincia di Salerno, il quale da che venne nell’ergastolo quattro anni fa ha detto e dice sempre, che egli sta qui provvisoriamente, che uscirá nel mese corrente. «Io voglio uscire, debbo uscire, ed uscirò». «Non usciremo, don Michele». «Ed io vi dico che usciremo subito». «Usciremo morti». «No, vivi, per Dio: mi han veduto nel mio paese due volte con la bandiera in mano, nel 1820 e nel 1848, mi rivedranno cosí la terza volta, e diranno come dissero: ‘Costui non muore piú’». «Sí, ne usciremo dopo trentanni». «No, dimani, oggi, piú tardi può venire un vapore a prenderci. Il mondo cangia in un momento». «Noi siamo morti». «Siamo vivi, ed io vivrò sino a novantanni: lo sento: cosí sará. Voi non mi fate paura, none, none! Non ci facciamo il malaugurio!». E cosí vive il povero vecchio condendo una scodella di fave o di pasta, che egli stesso pulitamente si cuoce, con quest’accesa speranza che in lui non viene mai meno, anzi piú contrastata piú cresce: sicché egli non pensa, ma spera. Che disgrazia è pensare!