Relazione 28 febbraio 1861 (Comitato Nazionale di Fano)/Relazione

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Dedica

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È ben lieto per noi questo giorno, o Concittadini, nel quale, avverate le speranze sì a lungo nutrite, benchè tante volte deluse, il vostro Comitato può raccogliervi pubblicamente fra i canti di gioja e di trionfo dell’Italia risorta, per invitarvi a trasformare in libera associazione, protetta e garantita dalle leggi, quella Società che tanta parte ebbe al nazionale riscatto, e cui vi ascriveste e restaste fedeli nel mistero imposto dalle tiranne persecuzioni di un abborrito governo. Gratissimo officio, che noi abbiamo vivamente desiderato di compiere fin dal primo momento della nostra liberazione, sia per dare alla Società quella maggior estensione e quel più completo governo di sè stessa, che la nuova libertà rendeva possibile e giusto, sia per toglierci o sminuirci la responsabilità di una rappresentanza delegataci fra l’ansie e i pericoli di una nuova ma la Dio mercè ultima delusione, da quegli ottimi e solerti cittadini che ci avean preceduti, e che le vicende luttuose del 1859 sbalzarono lunge da noi; ma vi si oppose sinora il bisogno di opportune pratiche, onde insediare questa nuova organizzazione su base uniforme in tutte le Marche, ad intendimento che desse si presentino degnamente costituite e compatte come una forte sezione della grande Associazione Nazionale; le quali pratiche se richiesero parecchi mesi, ad onta del commendevole zelo con cui le condusse il Comitato Centrale, furono però coronate da ottimo successo, e si compiono oggi colla trasmissione delle relative istruzioni conformi per tutti, e rese autorevoli dalla discussione e dal voto di una speciale assemblea tenuta in Ancona.

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Sulle norme di tali istruzioni, delle quali vi diamo lettura, dovrà rinnovarsi per schede segrete ed appello nominale dai Soci riuniti in generale Assemblea il nostro Comitato, eleggendone cinque membri: i Comitati Comunali del Distretto, di cui sarà bentosto promossa l’uguale nomina, concorreranno poi ad eleggere altri due membri, coll’aggiunta dei quali il nostro prenderà nome di Comitato di Mandamento; con simile concorso completeranno i Comitati di Mandamento quelli di Circondario, portandone il numero dei componenti a nove, e questi il centrale di Ancona, che, costituito da 11 membri assumerà titolo e autorità di Comitato Centrale delle Marche.

Così in modo libero legale e semplice insieme gerarchicamente impiantata la Società farà appello a tutti quei buoni, a qualunque gradazione dell’opinion liberale essi appartengano, che vorranno aderire ai principii e allo scopo suoi; principii tanto onesti e tolleranti, scopo tanto nobile e giusto, che può sin d’ora accertarsi nessuno vorrà esserne escluso. La rinnovazione periodica dei poteri poi, e la partecipazione a tutte quelle risoluzioni che richiedessero la riunione generale dei soci, darà subito ai nuovi ascritti quella legittima influenza, che loro è, ragionevolmente dovuta.

A questo importante e benefico sviluppo voi preluderete colla elezione del nuovo Comitato; e perchè possa aver luogo con tutta la regolarità e le formalità desiderabili, conviene, o Signori, che si soprassieda ancora di qualche giorno, tanto che possa debitamente compilarsi la lista dei soci elettori sui modelli che ci furono rimessi, e che qui deponiamo; pregandovi a presentarvi individualmente all’officio del Comitato per quelle rettifiche e correzioni che potessero occorrere.

Subito dopo vi riconvocheremo, e saremo felicissimi di deporre in mano degli uomini sui quali porterete la vostra fiducia il potere che finora esercitammo, con forze inferiori purtroppo, ma certo con volontà pari al difficile incarico, nell’ultimo periodo della vecchia organizzazione, il quale se non venne funestato dai rinascenti pericoli e dalle procellose vicende dei precedenti, fu però spettatore di sì mirabili ed improvvisi rivolgimenti, da meritarci, speriamo, il vostro benevolo compatimento, ove talora a fronte delle molteplici ed incessanti cure del momento, la capacità e l’attività nostra fossero rimaste in difetto. [p. 7 modifica]

Ma prima di accennare al poco bene che ha fatto, prima di parlare di sè stesso, il Comitato sente che questa è propizia e desiderata occasione di compiere un’altro dovere, un sacro dovere che noi tutti, o Signori, sentiamo profondamente nell’animo; un caro dovere di ricordanza, di affetto, di gratitudine, che i nostri cuori adempiranno opportunamente in questo stesso giorno, che la Società nostra inaugura la sua trasformazione, per la quale, deposta la gramaglia del dolore, il sommesso e concitato lamento del vinto, gli ardenti e arrisicati propositi dello schiavo, assume la veste della letizia, l’inno del vincitore, l’operoso ed ordinato lavoro di una patria associazione.

Egli è ben vero; le sventure e le gioje della nostra piccola ma non oscura città si perdono nel mare di sventure che sommerse per tanti secoli e per poco non affogò la Nazione, nel torrente di gioja che ora la inonda e la vivifica dai gioghi dell’Alpi all’estrema punta di Sicilia; i nostri piccoli fatti si confondono e scompaiono nella serie portentosa di eventi pei quali la provvidenza richiama l’Italia ad insperati e gloriosi destini; ma come senza il concorso anche delle picciole parti non può il tutto comporsi, così i nostri fatti concorsero nella lor picciolezza a spingerci verso la sublime meta che abbiamo raggiunta. — La Nazione scriverà a caratteri indelebili nelle pagine della sua epopea la lealtà e il valore di un Re miracoloso, la civile sapienza, la politica sagacia di un ministro patriotta, l’ardimento, la modestia favolosa di un eroe popolare, le gesta dell’esercito, le imprese dei volontari, la prudenza e l’annegazione dei rettori, la fede e la costanza del popolo. — Noi in questa riunione di famiglia, senza pompa e senza ostentazione vi rammenteremo con cittadina compiacenza le fatiche dei nostri, portando la nostra pietra all’edificio della Nazionale riconoscenza.

Ci conviene indietreggiare di 12 anni, fino ai giorni di squallore che succedettero ai disastri nazionali di Novara, di Roma, di Venezia. Il colpo era cosi tremendo da parer l’ultimo crollo d’ogni italiana speranza; invece fu quella l’aurora della italiana salute. Perocchè, colma la misura, le sventure cominciavano ad ammaestrarci. Noi eravamo sconfitti, perchè divisi e discordi, pugnanti per lo stesso principio ma con diversità di direzione, di mezzi, d’intendimenti; pugnanti più coll’ardore e la foga [p. 8 modifica]dell’entusiasmo, che colla forza e la disciplina degl’ordini. Colpa non tutta nostra; conseguenza piuttosto delle artificiali barriere colle quali i despoti ci impedivano l’intenderci e perfino il conoscerci; della raffinata corruzione colla quale, per averci docili e sommessi, ci snervavano di mente e di corpo; delle inumani e sanguinose torture colle quali inasprendo la natìa dolcezza e offuscando la fredda ragione ci istillavano nel cuore aspri e feroci propositi di vendetta, ci faceano sfiduciosi, sofistici, insofferenti, ribelli a tutto che si chiamasse autorità, ordine, giustizia, giacchè da tempo immemorabile per noi giustizia voleva dire arbitrio, ordine oppressione, autorità dispotismo.

Il nemico ebbro per la vittoria si riversava sulle nostre città, e più conseguente di noi, che tuttavia astiosi seguitavamo a farci vicendevole rimprovero della sofferta iattura, egli ci confondeva tutti in un fascio; ci sprezzava e perseguiva tutti egualmente, moderati o esaltati, bianchi o rossi, costituzionali o repubblicani; e senza distinzione alcuna gettava lo scherno e l’obbrobrio sui nostri martiri comunque e dovunque immolatisi per l’Italia; a Roma come a Novara, a Venezia come a Milano, a Napoli come in Sicilia, per la Croce di Savoja come pel berretto Frigio, nell’esilio, nel carcere o sul patibolo. — Aspra, ma salutare lezione, che portò i suoi frutti. Non così fiera era stata mai la caduta; ma ognuno dovea farne suo prò per maturare una riscossa non mai così unanime, così risoluta.

Un sol Principe dei nostri, colpito nei più cari affetti di figlio e di Sovrano, un solo, dopo aver strenuamente resistito, vinto ma non umiliato, tenne alta ancora la bandiera d’Italia in faccia all’oste nemica che, cacciato suo padre, occupava prima il piccolo Stato, poi lo accerchiava per 10 anni con una selva di baionette. Egli solo restava fedele e costante alle sue regali promesse in faccia allo spergiuro, al tradimento degli altri tutti, compreso l’infallibile e il santo di Roma. Egli solo, sapientemente temporeggiando, raccoglieva e difendeva le vittime loro, tornati d’un tratto mancipii e satelliti dello straniero, e colle poche armi ma forti, coi prudenti consigli ma schietti, mantenea viva e brillante la sacra scintilla, da cui, giunta l’ora, divampasse non più struggitrice, ma ordinatrice e purificatrice l’Itala fiamma. [p. 9 modifica]

A lui tutti gli occhi si rivolsero, a lui tutti i cuori bentosto. Erano dunque possibili autorità, ordine, giustizia in Italia, e quindi grandezza, quiete, libertà, senza ricorrere, all’opera lunga, faticosa ed incerta di tutto demolire per ricostruir tutto. V’erano nel presente, nelle istituzioni accettate e provate in Europa una forza e un punto d’appoggio che potevano esser leva possente alla gloria e all’unità della patria, senza evocare da un lontanissimo passato nomi e concetti non rispondenti alle mutate condizioni dei tempi, ai mutati costumi degli uomini, e che per questo solo intimorivano, se non offendevano, molti legittimi interessi, molte oneste convinzioni. V’era un angolo di questa terra finalmente, dove si poteva, anzi era lodato e protetto, parlare d’Italia, proclamarne altamente i diritti, alzarne il venerato simbolo tricolore, svergognare e combattere i suoi nemici senza coprirsi di misterioso silenzio, riunirsi in tenebrose congreghe, ed affilare i pugnali a suprema, ma unica difesa dal ferro del galeotto, dalla forca dell’assassino. Era possibile dunque un Re galantuomo non solo conservatore, ma promotore assiduo di quelle stesse franchigie, per le quali si era tanto patito e combattuto, e che erano il sospiro di tanti oppressi, come furono l’ultimo voto di tanti martiri!

Felice disinganno! chi non farà sagrificio di un vano nome alla realtà vera delle cose? di un’effimera forma esteriore alla interna sostanziale solidità? di un’intima e individual preferenza alla universale unione e concordia? — Il centro, il nesso era trovato. Il discendente dei Dogi, l’incorrotto cittadino, l’intrepido difensore di Venezia repubblicana, ultima a cedere nel 1849 all’Austriaca rabbia, alzò la sua voce veneranda per mostrarlo ed inculcarlo all’Italia, e fu l’ultimo grido di Manin. — Il filosofo liberale e religioso, il pensatore profondo, l’autore del Primato di Roma Cattolica, riconosciutolo impotente a salvar la Nazione, vi sostituiva il Rinnovamento civile, e la militare egemonia di Torino, e fu l’ultima parola di Gioberti. — Lo stesso illustre instancabile agitatore, che da trent’anni unico scuoteva, in mezzo al generale letargo, la infralita fibra dei popoli colla ardente eloquenza della parola, coi mistici riti delle segrete congiure, colle brevi e disperate riscosse, per cui un lampo generoso di vita solcava la terra dei morti, Mazzini stesso diceva [p. 10 modifica]«osate» e fu l’ultima formula colla quale potesse ormai rivestire la sua antica opposizione.

Il centro era trovato; or conveniva a quello richiamare tutte le sparse forze; il nodo era scoperto, ma bisognava raccogliere e stringere le divergenti fila. Uomini preclarissimi si accinsero alla difficile impresa; altri distinti per senno, per braccio, per mezzi la spalleggiarono. Si fece capo a Torino, e di là cominciò quell’attiva propaganda che chiamò e preparò gli Italiani ai futuri destini, diffondendosi per le Provincie o con successivo e continuato procedere, o a lunghi sbalzi e intervalli, secondo che le politiche circostanze lo permettevano.

Le condizioni della Provincia nostra non erano delle migliori. Lontana dai due centri che a parti opposte s’eran costituiti contemporanei, ma non unisoni subito; lenti e mal sicuri i rapporti, non tutti consenzienti sulle prime lungo la linea di comunicazione. Perciò scarsi od incerti o diversi i consigli; fiacchi o sconcordi gl’incitamenti, debole l’esempio, poco o nullo l’appoggio.

Ma era in questa Provincia una eletta di animosi, che trovarono in sè stessi e nelle proprie convinzioni quanto ancora mancava, e rompendo gl’indugj si prepararono per tempo ad entrare compatti e ordinati nel novello arringo.

Vi posero gli uni quell’intelligente amore, quella invitta fede, quella influenza simpatica, che lor veniva da intemerata vita, da severi studï, e dalle prime prove politiche del 48 e 49; gli altri quella indomita ed onesta fierezza, quella incrollabile costanza, quella meritata popolarità che ritraevano da una lunga serie di patimenti e di lotte. E qui, a giusta significazione di onore, ci sia lecito nominare fra i molti instancabili e caldi propugnatori della causa nazionale il nostro Giulio Cesare Fabbri, bersaglio designato ma fermo all’odio e agli strazï di un reo Governo per 17 anni, che animandosi di leali sentimenti di conciliazione fra la vecchia e la nuova dottrina liberale, rese possibili le fraterne intelligenze fra i nostri concittadini d’ogni classe, e circondò di autorità e di fiducia i suoi fidi e giovani amici, i novelli apostoli di quella religione politica che dovea condurci all’indipendenza e alla unità. Aiutatori della patriottica impresa molti e molti altri dovrebbero essere menzionati; [p. 11 modifica]ma ci basti il raccomandare alla pubblica lode e al cittadino esempio il Nestore dei popolani, il moderatore di quella classe d’artigiani che tanta forza comunicarono all’associazione, il nostro Gregorio Caprini, vecchio amico di libertà e indefesso cospiratore contro le tirannidi straniere e nostrali; i nomi pure di Getulio Vampa, di Domenico Gremolini, di Domiziano Castellani vanno ricordati, come quelli che nella sfera delle proprie attribuzioni potentemente contribuirono a preparar gli animi, ad accendere i cuori dei popolani.

E nella Provincia la Città nostra ha il vanto d’essersi fatta iniziatrice moderatrice della patriottica impresa. Due concittadini nostri, l’Avvocato Girolamo Civilotti e l’Ingegnere Enrico De-Poveda promossero una riunione dei più eminenti liberali d’ogni partito, che fissò le basi del nuovo programma politico di franca, esplicita, incondizionata adesione alla propaganda Piemontese. Su quelle basi modellarono uno Statuto che provvedeva alla costituzione, allo sviluppo della società, all’unità e alla disciplina dell’azione. Lo Statuto approvato da un’Assemblea di Rappresentanti di tutte le Città; eletti in tutte i Comitati Cittadini, e postovi a capo uno Provinciale con ampli poteri. — Così ordinatamente si progredì in pochi mesi che, cessata ogni gara, ogni più lieve dissidio, la Provincia di Pesaro e Urbino offerse spettacolo nuovo di concordia e di energia; esempio salutare alle vicine Provincie che da noi si ebbero conforti ed aiuti per imitarci; freno insuperabile alle mene dissolventi dei tristi, che invano tentarono penetrare anche qui per infrangere le anella d’una catena che tutti d’accordo avevamo congiunte. E quanto utile e previdente fosse il lavoro lo mostraron gli eventi; che da questo trasse la Provincia modo e forza di parteciparvi con onorati fatti.

Siedettero al Comitato Provinciale nel 1859 que’ due medesimi concittadini, l’Avvocato Girolamo Civilotti e l’Ingegnere Enrico De-Poveda fanesi, insieme ai Conti Andrea Marzetti e Adolfo Spada di Pesaro, che si aggregarono ad utile collaboratore e Segretario l’altro fanese, pur benemerito, Achille Tomei; il terzo surrogato sul principio dell’anno al Conte Spada, fatto segno all’ira e al sospetto della pretesca polizia, imprigionato come reprobo e racchiuso fra i rei di comuni delitti. Perduto [p. 12 modifica]quel caro compagno e la sua preziosa esperienza, non per questo veniva meno al proprio cómpito il Comitato. — Ricostituito, concentrava qui in Fano la sua direzione, e di qui raddoppiando di prudenti cautele, raddoppiava insieme di attività per trovarsi pari agli avvenimenti. Egli sentiva che non solo l’onore della Provincia, ma quello di tutte le Marche dovea sostenere; perocchè più dappresso al teatro delle politiche fazioni, prima forse sarebbe chiamato a prendervi parte. Crescevano pertanto le sue cure, la sua vigilanza, ma con mirabile corrispondenza cresceva d’ugual passo la stima, l’amore, la fiducia, di cui lo ricambiavano i Comitati dipendenti. Si era così per lui raggiunta la desiderata certezza, che le Città tutte erano egualmente pronte a levarsi con un sol grido «Vittorio Emanuele Re d’Italia».

Nè tardarono occasioni di provarne lo spirito, e la risolutezza. Scoppiò la guerra d’indipendenza, e a un semplice appello del Comitato accorsero numerosi e spontanei i giovani a rappresentare degnamente nelle fila dell’esercito Nazionale i nostri paesi; invece di spingere ci fu necessità di rattenere per non privarsi d’ogni braccio; e gli allegri drappelli di que’ che partivano erano oggetto, più che d’ammirazione, d’invidia ai mesti compagni che dovean rimanere.

Sui campi di Magenta e di Solferino si maturavano intanto le patrie sorti. Com’era possibile che non si commovesse l’Italia al rombo del cannone che decimava i ranghi de’ suoi eterni nemici, allo spettacolo d’un Re, già suo per gratitudine, aspirazione, interessi reciproci, il quale si diceva e si mostrava il primo soldato dell’indipendenza?

Scossero il molle ma non meno odioso giogo Toscani e Parmensi; scossero Romagnoli e Modenesi la efferata tirannia; l’intrepida Perugia che di là s’univa al movimento insorse a protestare per l’Umbria. Non toccava forse a noi di quà per le Marche?

Ben lo comprese il Comitato Provinciale, e come tutto era sagacemente predisposto, non ebbe che a dare il segno. — La sera del 15 Giugno raccolti qui i deputati dei Comitati Cittadini furono comunicati gli ordini. La mattina del 16 Fano per prima, Pergola e Fossombrone subito con lei, e nel giro di 24 ore Senigallia, Urbino, Cagli e quante terre e castella ha la [p. 13 modifica]Provincia abbattevano gli stemmi papali, e salutavano il tricolore acclamando Vittorio Emanuele. Pesaro fremente dovè restarsi innanzi agli Svizzeri accorsi soverchianti nella notte; ma chi, ignorando l’avvenuta mutazione, avea data la parola per Pesaro, nobilmente la tenne, e il Guerini a capo di una schiera di coraggiosi ne sortì a sostegno delle minori città più fortunate.

Avevamo noi allora al nostro Comitato Cittadino Giulio Cesare Fabbri, Giovanni e Vincenzo fratelli Rossi, Giuseppe Benini, e il conte Domenico Amiani. A questi e ai due membri del Comitato Provinciale era affidata la scelta delle nuove autorità, e cadde di comune consenso sui più illustri per nome, per principii, per intelletto, per fermezza, preponendo alle cose di Governo i conti Camillo Marcolini e Annibale di Montevecchio cogli Avvocati Gabriel Angelo Gabrielli e Girolamo Civilotti; a quelle del Municipio i Conti Lodovico Bertozzi e Stefano Amiani, alle Militari l’Ingegnere Enrico De-Poveda, fatto capo superiore delle cittadine milizie, e datigli a valido aiuto Rossi Vincenzo, il Fabbri, il Benini, il Vampa, e il Barone Rodolfo Lüttichau.

Tutti qui sanno quanto onorevolmente ognuno tenne il suo posto, suffulti dalla pubblica fiducia e dal concorso degli altri tutti, in mezzo alla critica posizione di Fano.

A sole 7 miglia da noi si eran raccolte le vendute milizie fuggenti dalle Romagne, e un pontificio proconsole, il Bellà, furente che la nostra unanime e subita mossa l’avesse sorpreso ed accerchiato d’un tratto nella sua principal residenza, troncando ogni sua relazione con Roma, sfogava in orgie svergognate fra’ suoi pretoriani lo sbirresco livore, e ne imbaldanziva la vigliacca ferocia promettendo saccheggi e stupri, e minacciando con furibondi proclami le città ribellate.

Nè Fano si disanimava. — Provvedeva imperterrito il Governo alla piena sicurezza interna ed esterna, e al più perfetto ordine che mai si fosse veduto; spediva atto di adesione a Bologna; cominciava la pubblicazione delle leggi assimilatrici; e facea fronte con delicato pensiero ai pecuniari bisogni, ponendo severa e sindacata parsimonia nell’impiego del pubblico denaro. Toglieva ogni comunicazione con Pesaro intercettando i dispacci legatizi, rompendo il telegrafo, e fermando la linea a [p. 14 modifica]Fano, ov’era improvvisato in poche ore un ufficio telegrafico completo, e regolarmente funzionante. Partecipava i suoi atti e risoluzioni alle Ambasciate di Francia e Sardegna a Roma, e ai rispettivi Consoli di Ancona spediva officialmente l’egregio Avvocato Giuseppe Tomassoni a perorare la causa della città, e invocare l’alta protezione del Re eletto, e del suo magnanimo alleato. Con amplo mandato di fiducia, e facoltà di disporre a vista fino alla somma di cinquantamila scudi, inviava pure in Ancona il Conte Bertozzi a promuovere e concertare con que’ cittadini il modo di rinnuovar l’occasione, fatalmente sfuggita, d’impossessarsi del Forte; e lo stesso conte Marcolini, cui dalla deferenza e stima dei colleghi era stata assegnata la Presidenza del Governo, sacrificando al comun volere e vantaggio il nobile desiderio di non abbandonare il paese in sì stringenti pressure, partiva pel campo ad offrire a Vittorio Emanuele i voti e le speranze della fanese popolazione. — Il Municipio assecondava il Governo con ogni sua possa, mentre dignitosamente rispondeva per le stampe il Gonfaloniere alle intimazioni del Bellà con una lettera che resterà esempio del civile coraggio suo, e del fermo volere dei fanesi nel cui nome parlava. I cittadini, senz’altre armi che le poche e disadatte tollerate dalla miticolosa paura dei poliziotti papali, accorrevano premurosi ad abbarrare le porte, ad afforzare le mura, e quando il sospetto o la coscienza del vicino pericolo dava l’allarme, bello era il vederli prepararsi a disperata difesa, facendo arma di tutto che lor veniva alle mani, e dichiarandosi ad alta voce parati ai più estremi partiti.

Ma Perugia cadeva fra il sangue sotto gli occhi dei liberi fratelli toscani; simil sorte apprestavaci il Bellà, nè le Romagne davan segno di voler soccorrere questa Provincia, il cui movimento le avea pur liberate da quelle truppe che or piombavan su noi, tanto più deboli e men numerosi, intatte d’uomini e d’armi. La virtù e lo slancio de’ popoli erano elisi dai diplomatici impegni o dalla esagerata timidezza de’ Governi, che pur col nostro avean comune l’origine e lo scopo.

Lungi da noi l’idea di attribuire a nessuno men che rette intenzioni; ma certo che dovea riescir ben grave e doloroso a quegli uomini che tanta cura avean posta nel coordinare e predisporre l’azione pronta e vigorosa della Provincia, nel promuoverla [p. 15 modifica]e dirigerla non appena fu richiesta, tanto che Forlì, Cesena, Rimini tacevano ancora sotto l’incubo dell’occupazione Svizzero-papale quand’essa insorse, trovarsi ora in sì completo abbandono.

Alle calde rappresentanze fatte era giunta risposta officiale che, dimostrando la impossibilità del soccorso, consigliava di risparmiare un’inutile spargimento di sangue.

Sempre più difficile diveniva in siffatte circostanze la posizione di Fano, designata all’odio del Delegato Pontificio per la iniziativa assunta, ed esposta per la breve distanza ad un improvviso assalto delle truppe papali che sempre aumentavano. Ma non perciò venner meno la popolazione e il governo fanese al loro dovere e dignità, decisi di non cedere che alla violenza e a forze preponderanti e sproporzionate, per protestare appunto col fatto e per sè e per l’intera provincia, che la sola forza brutale poteva soffocare i loro legittimi voti così unanimemente e pacificamente espressi.

La mattina del 19 avanzandosi da Pesaro una forte colonna di carabinieri, fu loro negato l’ingresso, e dovettero passar oltre in presenza degli armati cittadini e di gran moltitudine d’uomini e donne corse alle mura per dividere, benchè inermi, la sorte comune.

Niuno però si dissimulava l’imminenza di un grave pericolo. Già erano in Pesaro più di 4000 soldati tra mercenari e carabinieri, e tenevano la città in istato di assedio. — Avevan brutalmente abbattuta e lacerata la bandiera Sarda, e apertamente si parlava di eccidi e di vendette sanguinose contro la vicina città.

Protestò la Giunta, protestò il Municipio con apposita deputazione al Delegato: che il pronunciamento di Fano niun’altro scopo e senso aveva fuor quello di seguire sollecitamente ed interamente il fatto di Bologna, e, invocata del pari la protezione di Vittorio Emanuele, correre con Bologna e le altre Città sorelle una medesima sorte. Che quindi smettesse dalle sue minacce e venisse a più miti e prudenti consigli; dacchè la città, veggendosi fatta unico ed odioso eccezional segno a quelle, era in grave esaltamento ed agitazione, e forse potea trasmodare nel suo contegno, sino allora ordinato ed irreprensibile, se fosse [p. 16 modifica]stata posta nelle vie del tumulto e del disordine da un’ingiusta e prepotente aggressione.

Dall’altro canto riuniti a consiglio e Giunta e Municipio e Capi delle milizie, fu data conoscenza a tutti delle ricevute istruzioni, raccomandando la quiete, la vigilanza, e specialmente l’obbedienza passiva alle risoluzioni che fossero per prendersi nelle contingibili evenienze. Queste previsioni adottavansi per la massima stabilita di non esporre in una lotta disuguale ed inutile la città intera alle rappresaglie di una truppa feroce, dopo l’esempio di Perugia; laonde fu anche deciso che il Governo si sarebbe allontanato all’ultima estremità cedendo alla forza maggiore.

Ognuno intanto restava al posto assegnato nascondendo l’interno sconforto, e il severo silenzio era sol rotto dai concitati parlari dei militi cittadini, fatti sospettosi della dura verità, che mal si rassegnavano al pensiero di deporre senza resistenza le armi tanto decisamente imbrandite; e sol piegavano innanzi all’autorevole e commovente parola di quegli uomini che da tanti anni eran soliti veder precederli nella via dell’onore e del sacrificio.

Avea replicato per tutta risposta il Delegato che sul da farsi aspettava ordini da Roma; che giunti questi sarebbe stata preventivamente avvisata la Città innanzi che le truppe movessero contro Fano, e anche dopo mosse sarebbe fatta la formale intimazione. A ciò lo Svizzero Generale Kalbermatten impegnava la sua parola d’onore.

Quand’ecco, in sul far del giorno 23 Giugno, contro le previsioni di molti che non temevano di veder turbare da truppe papali la solennità cattolica di quella giornata, con impudente mentita alle promesse date, fu segnalata la discesa di numerose truppe ed artiglierie dai monti di Pesaro a tre miglia da Fano; erano circa 3000 uomini con quattro cannoni che venivano ad assalire una città difesa da 150 fucili da caccia.

Il Gonfaloniere incontrava arditamente il Generale a brevissima distanza, rimproverando per parte dell’autorità militare la mancata parola, e annunziando che ove le truppe avessero avanzato a tiro senza concedere la tregua necessaria alla salvezza di tutti, sarebbersi ricevute a fucilate. E lo svizzero di rimando, [p. 17 modifica]che non si avean patti coi ribelli; che ove la Città non cedesse subito, sarebbe stata trattata con tutto il rigore; che un sol colpo di fuoco sarebbe stato il segnale del saccheggio, che avea ordini espliciti, ma suggellati e da aprirsi dopo l’ingresso in città; e solo alle istanze di Monsignor Vescovo convenne che la truppa avrebbe avanzato sempre, ma più lentamente per dare il tempo richiesto alla completa sommissione.

La Giunta allora, spediti a Rimini gli atti del Governo, ordinò il licenziamento della guardia cittadina, e si ritrasse. Poco appresso entravano i papalini fra le grida di «Viva Pio IX» alle quali niuna voce cittadina rispondeva, mentre i militi lasciavan fremendo ed armati le mura, alcune porte erano ancora chiuse, e si manteneano spiegate le tricolori bandiere. Un Commissario papale entrava ed imponeva una multa di 10 mila scudi odiosamente divisa fra il Comune e tre benemeriti cittadini Montevecchio, Fabbri e Bertozzi; requisiva tutte le armi; proclamava lo stato d’assedio, e usava sevizie e abusi d’ogni fatta.

In mezzo alle truppe insolenti e schiamazzanti, le quali non nascondevano il loro rammarico perchè un sol colpo di fucile non avesse giustificato il saccheggio, accompagnati dalle più vive dimostrazioni di affetto e di simpatia della popolazione, uscivano intanto dalla città i nostri migliori senza preventivo concerto nè fra loro, nè colle famiglie, senza poter munirsi nè di vestiario nè di denaro, e si mettean sulla via dell’esilio.

Onorevoli ed illibati cittadini che ben potevano alzar la voce e la fronte a tutela dei diritti di questa Provincia e delle Marche tutte; non un atto nè un istante del provvisorio Governo fu per loro adombrato da mire personali ed estranee alla causa suprema della libertà e della Nazione; non un centesimo toccavano delle casse governative, nè in altro modo provvidero a fondi pecuniari per la sicurezza loro ed altrui, come pur erano in diritto di fare, e come il Conte Bertozzi con nuovo atto di coraggio addimostrò restando a dare regolare consegna delle Amministrazioni Governativa e Municipale in mano delle Pontificie Autorità, prima di pensare a sfuggire al loro rigore.

Tutti partivano i membri dei nostri Comitati Provinciale e Cittadino; il solo Giovanni Rossi rimanendo, riceveva dai partenti il pericoloso mandato di restringere subito i legami dell’associazione [p. 18 modifica], per rialzar gli animi dalla prostrazione in cui eran caduti e prepararli a nuove fatiche.

Quelli fra noi che qui restavano egli raccolse intorno a lui; si ricompose il Comitato, si riassunsero le interne corrispondenze, si crearono relazioni esterne colle libere provincie; si estese viemaggiormente la società fra le persecuzioni e gli odii della polizia e de’ soldati papali, sempre in attitudine di sospetto e di guerra; e fu alimentata e sostenuta come prima nei cuori la pura religione della patria colla diffusione degli scritti e delle notizie, colla ben mantenuta gerarchia, col supremo conforto della speranza, colle larghe e generose contribuzioni pei bisogni della Nazione, dell’armamento, dell’emigrazione, e con quelle improvvise dimostrazioni che più d’una volta misero lo sgomento nella indarno vigilante masnada che ci opprimeva.

Giunse finalmente il sospirato giorno che dovea por termine a tanti dolori. E noi rafforzati da alcuni degli esuli che, liberi di sè, erano accorsi fra’ primi ad affrontare gli sgherri di Roma, agendo al fine alla luce del sole, promovemmo a decoro della città nostra il maggior concorso al solenne voto che ci unì alla gran famiglia Italiana, guidammo la pubblica opinione nell’esercizio dei conquistati elettorali diritti, aprimmo e conducemmo a termine le trattative per la ricostituzione della Società, che or vi annunciamo.

E basti di noi; che ci tarda di sciogliere quel debito di gratitudine che abbiamo verso coloro i quali tanto s’adoprarono per la fondazione e lo sviluppo di questa nostra fanese associazione, per l’onore e pel lustro di questa nostra Città.

Molti trattenuti ancora in servigio della patria, o nelle fila dell’esercito, o negli uffizi civili seguono da lungi con vivo e crescente interesse i progressi nostri; altri qui s’adoperano tutt’oggi con persistente cura a giovarli — A tutti giungerà doppiamente gradito un segno di cittadina memoria e riconoscenza che, in mezzo a sì grandi mutazioni, lor viene spontaneo da chi li ha conosciuti dappresso, e dividendo i loro pericoli e le loro fatiche, ne ha potuto giustamente apprezzare le rare doti di mente e di cuore, l’illuminato e costante patriottismo, le forti e incrollabili convinzioni. Vi proponiamo pertanto la seguente deliberazione. [p. 19 modifica]

La vecchia Società Nazionale di Fano, riunita in generale Assemblea per inaugurare il suo riordinamento in libera Associazione Nazionale, dichiara benemeriti di questa Città in particolare, e in generale della Nazione, i Signori:


Avvocato GIROLAMO CIVILOTTI
Ingegnere ENRICO DE-POVEDA
Conte ANDREA MARZETTI
Conte ADOLFO SPADA
promotori dell’Associazione, e membri del Comitato provinciale nel 1858 e 1859.



GIULIO CESARE FABBRI
GIOVANNI ROSSI
VINCENZO ROSSI
GIUSEPPE BENINI
Conte DOMENICO AMIANI
Membri del Comitato Cittadino nel 1859.



Conte CAMILLO MARCOLINI
Avvocato G. ANGELO GABRIELLI
Conte ANNIB. DI MONTEVECCHIO
Avvocato GIROLAMO CIVILOTTI
Membri della Giunta di Governo provvisorio nel Giugno 1859.



Conte LODOVICO BERTOZZI
Conte STEFANO AMIANI
Magistrati Municipali nel Giugno 1859.



«La proposta è accolta e votata per generale acclamazione.»




PER IL COMITATO

CAMILLO FRANCESCHI