Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XLV
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Al termine della mia vita pubblica
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XLV.
AL TERMINE DELLA MIA VITA PUBBLICA.
Nel Novembre 1870 i Romani furono convocati per eleggere la rappresentanza municipale. L’amor dei Trasteverini per me mi valse di essere eletto al Consiglio Comunale con una eccellente votazione; e tanto più notabile, se si considera come la mia nomina fosse aspramente contrastata dai non pochi nemici d’ogni genere e sorte che mi aveano acquistati le lotte degli anni precedenti alla liberazione di Roma. Così tornai a dovermi occupar di cose municipali, come nel 1849 durante la Repubblica Romana. In questa carica di Consigliere Comunale io durai sette anni. Ed intesi con ciò di compiere un dovere ed accettar un onore che io non ambiva affatto. Chè, anzi, le pubbliche cariche non si confacevano ai miei gusti ed alle mie abitudini.
Da poche settimane io era Consigliere Comunale, quando, e fu nel Dicembre 1870, Roma venne per molta parte sommersa da una terribile inondazione del Tevere, di cui non si ricordava l’uguale. Questo mi dette da fare in modo più consentaneo alle mie personali attitudini, col dar attiva opera al salvataggio delle persone rimaste nelle case pericolanti od isolate in mezzo all’infuriar delle acque le quali, giungendo ad un molto alto livello, aveano invaso tutta la parte più bassa della città. E questa noi dovevamo pure rifornire di viveri, non potendosi comunicare con la stessa se non per via di acqua. Si trattava di lunghi percorsi in barche, per vie e piazze tramutate in canali e laghi. In molti punti torrentizi. E, perciò, punto agevoli a navigare. La pioggia durò molti giorni a monte di Roma e localmente; sicchè l’inondazione andò vieppiù crescendo e non fu breve, nè senza rischi, l’opera nostra di salvataggio e di approvvigionamento.
Questa dava luogo ai più vari episodi emozionanti, pietosi e talvolta alquanto comici. Fra tanti rivedo il laborioso salvataggio di una povera vecchietta, rifugiatasi sull’alto di una casuccia, stringendo al petto un gatto ed una gallina, che molto dovemmo penare per trarre giù nella barca assieme alle sue care bestiole.
Mentre tuttora durava la tremenda inondazione, fece una fugace apparizione in Roma Re Vittorio Emanuele; tanto fugace che quasi la maggior parte dei Romani non se ne accorse.
Varie incombenze mi toccarono nella mia qualità di Consigliere Comunale. Vi fu, tra queste, quella di andare, per l’applicazione della Legge che aboliva le Corporazioni Religiose ed ordinava l’incameramento dei loro beni, a prendere possesso per conto del Comune di conventi e monasteri.
Per tutta la mia vita io ero stato avverso al regime clericale, che premeva sul libero sviluppo delle magnifiche doti degli Italiani, tenendoli in un miserevole stato di inferiorità al confronto di altri popoli; e, sopratutto, quello io avea avversato perchè era il maggior ostacolo alla unità ed alla indipendenza dell’Italia, come alla restituzione di Roma al già costituito Regno. E non meno io era penetrato di tutte le ragioni che aveano consigliato la soppressione delle Corporazioni Religiose; e, quindi, io ritenevo giusto e benefico l’incameramento dei loro beni. Con tutto ciò, punto mi era gradito di dovere essere proprio io, in persona, ad affrettare tale incameramento; ed anzi, mi fu talvolta anche addirittura penoso. Nonostante, mai mi sono sottratto ai compiti, che, in proposito, mi venivano via via assegnati.
Ricordo, che, tra l’altro, a me toccò di andare a prendere possesso del Collegio Romano ed a sgombrarne i Gesuiti. E vi andai assistito da funzionari municipali ed accompagnato dalla pubblica forza. Tali operazioni non erano brevi; poichè si trattava di prendere in consegna i vari locali con tutto ciò che contenevano, inventariando, sia pur sommariamente, ogni cosa; e verbalizzando tutto quanto si faceva.
Nel compier tutto ciò, accompagnato da alcuni di quei Padri Gesuiti, io dovetti penetrare dappertutto, anche nelle loro stanze di lavoro e nelle loro celle. Le quali mi testimoniavano di tante esistenze laboriose ed anonime. Vidi quelle camerette bene ordinate e linde, piene di libri, di qualche strumento scientifico, allietate da qualche gabbia di uccelli, da qualche pianta fiorita. Erano alte ragioni, di interesse pubblico del mio paese, che mi aveano condotto a fare quanto io facevo. Debbo, però, confessare che ciò non bastava a difendermi dal sentirmi tra l’imbarazzato ed il dolente, nel pensare ch’io, adempiendo il mio compito, turbavo tanta laboriosa serenità e tante care abitudini di molte vite. Così fu che non ritenni di venir meno al dover mio cercando di attenuare, in qualche modo, quanto nella mia azione vi era comunque di antipatico, adoperandovi non solo urbanità, ma anche gentilezza è generosità. E, colto il momento opportuno, trassi da parte quello dei Padri che erano a me di guida attraverso l’immenso palazzo che mi parve agli altri superiore, e gli dissi che, qualora egli ed i suoi confratelli avesser qualcosa di particolarmente caro da salvar dalla confisca, liberamente me lo dicessero; che io ben volentieri avrei esaminato se potevo chiudere un occhio. Il Padre Gesuita, sorridendomi bonariamente e guardandomi negli occhi, mi rispose:
— Grazie... ma non si dia pena per noi, signore.... Noi della Compagnia siamo da secoli assuefatti a simili casi, ed a questi, ed a peggio, siamo sempre troppo preparati perchè possano turbarci....
E, sempre sorridente e bonario, con solo una piccola punta di malizia aggiunse:
— Ci hanno tante volte, e da tanti luoghi, cacciato; ma, prima o poi, siamo sempre tornati!... |
Sempre come membro del Consiglio Comunale venni, pure, chiamato ad occuparmi di pubblica beneficenza, nella Congregazione di Carità che si andava ordinando.
In queste altre mie funzioni mi fu dato di venire a conoscenza dell’uso che, nel passato, si era fatto del danaro destinato al soccorso delle miserie della povera gente. E dovetti constatare come ben poco di questo danaro, sotto il precedente regime, venisse elargito a sovvenire le vere miserie delle classi popolari. Quei fondi venivano, infatti, per la più grande parte, erogati a vantaggio di nobili decaduti o di borghesi più o meno bisognosi. Taluni sussidi continuativi erano assegnati, anche, per motivi incredibili, strabilianti. Di questi uno solo ne ricorderò. Una certa non lieve somma mensile era versata ad una tal gentildonna, perchè potesse continuare ad andare in carrozza come avea sempre fatto.... Sussidi continuativi, pure, erano attribuiti con tali speciose giustificazioni che troppo lasciavano intravedere reali motivi inconfessabili. Il poco del danaro della beneficenza pubblica che arrivava a gente del popolo, appariva, non di rado, dato per motivi religiosi. E, con ciò non si faceva la vera carità, sovvenendo reali indigenze; nè si promuoveva la fede, bensì l’ipocrisia.
Per quanto poteva stare in me, io mi ingegnai che il danaro pubblico, destinato alla beneficenza, andasse a lenire vere miserie del popolo. E, più che fosse possibile, a sovvenir coloro che aveano buona volontà di vincere, mediante il lavoro, la sorte non benigna.
Nella Roma di allora mancavano quasi del tutto le grandi officine; di grande industria, cessati i lanifici, non v’era alcun esempio. L’artigianato, col piccolo commercio di rivendita, erano quasi i soli sbocchi al lavoro delle classi popolari della città. I maestri falegnami, ebanisti, marmisti, fabbri, tintori, tappezzieri, stagnai, sarti, calzolari, ecc. erano, comunemente, valenti nell’arte loro. Ed eran pure, bisogna dirlo, in genere di molta coscienza nel lor lavoro, come ora non se ne ha più nemmen l’idea. Era questo, se vogliamo, anche parte della personale dignità che l’artigiano romano vivamente sentiva. Questi maestri facevano ottimi allievi; i quali, però, quando si trattasse di stabilirsi per proprio conto, trovavano ostacolo, spesso per essi insormontabile, nella mancanza dei mezzi necessari per acquistare strumenti ed arnesi e per mettere su bottega. Queste difficoltà venivano, in quei primi tempi di Roma Capitale, assai accresciute dall’affluirvi di artigiani di ogni parte del Regno.
Io ottenni, allora, che la Congregazione di Carità fosse larga di sussidi ad artigiani di Roma, per metterli in grado di comprarsi ferri ed istrumenti dell’arte loro.
A qualche artigiano, pure, ottenni piccoli prestiti per potersi stabilire da sè. E tutto ciò ebbe i migliori risultati pratici.
In quegli anni, immediatamente successivi al trasporto della Capitale in Roma, molta soddisfazione mi procurava il prestar l’opera mia all’insegnamento serale ai popolani adulti. In questi trovai terreno fertile per le lor doti intellettuali e morali, che se amorosamente coltivato, è capace dei migliori frutti.
Qualche attenzione, pure, io detti ai vari problemi edilizi e dell’ingrandimento di Roma. Ma, fino da allora, ben si comprendeva come, purtroppo, la valanga degli speculatori avrebbe finito per imporsi al Municipio ed allo Stato. All’infuori delle cose municipali, però, io ben poco ebbi ad occuparmi più di politica. E ben presto, e con viva contentezza, del tutto cessava la mia vita pubblica. Ben meno arduo che ad altri sarebbe stata, per molte ragioni, a me crearmi quel che suol dirsi una, «posizione politica». Ma non era, ormai, la politica più affar mio. Fatta l’Italia, liberata Roma, ogni mio compito politico io consideravo finito. I combattimenti, le cospirazioni, con i loro pericoli, aveano in sè molta attrattiva; lottar di astuzia con la sbirraglia alta e bassa era anche divertente. Ma tutto ciò era, ormai, finito. Nella politica s’era fatta avanti gente nuova, con la quale io non poteva più intendermi; e vi prevalevano intrighi, interessi, sètte. Tutte cose a me repugnantissime....
D’altra parte io era giunto all’età matura, vivendo un po’ come uccello sulla frasca; tempo era venuto, anche per me, di fare il mio nido. Ed anelavo di darmi intero all’Arte, per la quale mi sentivo nato. Ed il culto di questa non può lasciar posto ad altro. Sempre ho assai commiserato qualche artista, che si è avvilito nella meschina politica parlamentare degli ultimi decenni.
Di darmi tutto all’Arte fino ad allora mi aveano conteso le urgenti necessità della Patria; e la Patria non potevo ormai meglio servire come e quanto nell’Arte. A questa, quindi, da allora tutto mi dedicai. Anche in questo campo non mancarono lotte, le quali non furono sterili per l’Arte Italiana. Nè, in specie per i pochi ed eccellenti amici che Dio mi concesse, l’Arte non fu avara a me delle maggiori soddisfazioni alle quali possa aspirare un suo cultore.