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dalla pubblica forza. Tali operazioni non erano brevi; poichè si trattava di prendere in consegna i vari locali con tutto ciò che contenevano, inventariando, sia pur sommariamente, ogni cosa; e verbalizzando tutto quanto si faceva.

Nel compier tutto ciò, accompagnato da alcuni di quei Padri Gesuiti, io dovetti penetrare dappertutto, anche nelle loro stanze di lavoro e nelle loro celle. Le quali mi testimoniavano di tante esistenze laboriose ed anonime. Vidi quelle camerette bene ordinate e linde, piene di libri, di qualche strumento scientifico, allietate da qualche gabbia di uccelli, da qualche pianta fiorita. Erano alte ragioni, di interesse pubblico del mio paese, che mi aveano condotto a fare quanto io facevo. Debbo, però, confessare che ciò non bastava a difendermi dal sentirmi tra l’imbarazzato ed il dolente, nel pensare ch’io, adempiendo il mio compito, turbavo tanta laboriosa serenità e tante care abitudini di molte vite. Così fu che non ritenni di venir meno al dover mio cercando di attenuare, in qualche modo, quanto nella mia azione vi era comunque di antipatico, adoperandovi non solo urbanità, ma anche gentilezza è generosità. E, colto il momento opportuno, trassi da parte quello dei Padri che erano a me di guida attraverso l’immenso palazzo che mi parve agli altri superiore, e gli dissi che, qualora egli ed i suoi confratelli avesser qualcosa di particolarmente caro da salvar dalla confisca, liberamente me lo dicessero; che io ben volentieri avrei esaminato se potevo chiudere un occhio. Il Padre Gesuita, sorridendomi bonariamente e guardandomi negli occhi, mi rispose:

— Grazie... ma non si dia pena per noi, signore.... Noi della Compagnia siamo da secoli assuefatti a simili casi, ed a questi, ed a peggio, siamo sempre troppo preparati perchè possano turbarci....

E, sempre sorridente e bonario, con solo una piccola punta di malizia aggiunse:

— Ci hanno tante volte, e da tanti luoghi, cacciato; ma, prima o poi, siamo sempre tornati!... |