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Sempre come membro del Consiglio Comunale venni, pure, chiamato ad occuparmi di pubblica beneficenza, nella Congregazione di Carità che si andava ordinando.

In queste altre mie funzioni mi fu dato di venire a conoscenza dell’uso che, nel passato, si era fatto del danaro destinato al soccorso delle miserie della povera gente. E dovetti constatare come ben poco di questo danaro, sotto il precedente regime, venisse elargito a sovvenire le vere miserie delle classi popolari. Quei fondi venivano, infatti, per la più grande parte, erogati a vantaggio di nobili decaduti o di borghesi più o meno bisognosi. Taluni sussidi continuativi erano assegnati, anche, per motivi incredibili, strabilianti. Di questi uno solo ne ricorderò. Una certa non lieve somma mensile era versata ad una tal gentildonna, perchè potesse continuare ad andare in carrozza come avea sempre fatto.... Sussidi continuativi, pure, erano attribuiti con tali speciose giustificazioni che troppo lasciavano intravedere reali motivi inconfessabili. Il poco del danaro della beneficenza pubblica che arrivava a gente del popolo, appariva, non di rado, dato per motivi religiosi. E, con ciò non si faceva la vera carità, sovvenendo reali indigenze; nè si promuoveva la fede, bensì l’ipocrisia.

Per quanto poteva stare in me, io mi ingegnai che il danaro pubblico, destinato alla beneficenza, andasse a lenire vere miserie del popolo. E, più che fosse possibile, a sovvenir coloro che aveano buona volontà di vincere, mediante il lavoro, la sorte non benigna.

Nella Roma di allora mancavano quasi del tutto le grandi officine; di grande industria, cessati i lanifici, non v’era alcun esempio. L’artigianato, col piccolo commercio di rivendita, erano quasi i soli sbocchi al lavoro delle classi popolari della città. I maestri falegnami, ebanisti, marmisti, fabbri, tintori, tappezzieri, stagnai, sarti, calzolari, ecc. erano, comunemente, valenti nell’arte loro. Ed eran pure, bisogna dirlo, in genere di molta coscienza nel lor lavoro, come ora non se ne ha più nemmen