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antipatica inopportunità. Perchè veniva, con un atto di gretta partigianeria, a rompere la bella concordia che, nel tripudio della liberazione, regnava assoluta in quei giorni tra i Romani. Si disconosceva il primo voto del Popolo Romano liberato, si faceva ingiuria a tre onorati cittadini, che ogni personale loro interesse avean sempre posposto alle esigenze della Patria e della Libertà. Ed, ancor più grave, si offendeva la veneranda canizie di Mattia Montecchi, uomo di tempra antica, figura veramente degna dei tempi in cui Roma fu più austera e più grande. Suppongo Cadorna fosse indotto ad un atto, certo repugnante alla sua lealtà ed alla sua interezza di soldato e di gentiluomo, da ordini telegrafati da Firenze. I quali ordini, immagino, che nessuna urgente necessità politica poteva menomamente giustificare, dovettero esser provocati da taluni degli avanzi del «Comitato Nazionale Romano», così funesto come vedemmo, ch’io avea sempre tanto combattuto e dispregiato; i quali trovarono nello spirito consortesco del Governo molto pronta compiacenza.

Così cessò il mio effimero potere. L’affronto fattomi, come troppo non mi sorprese, così molto non mi dolse. lo nè mai avea ricercate, nè mai ambite pubbliche cariche E, poi, Roma era libera e ricongiunta all’Italia. L’ardente brama di tutta la vita mia era soddisfatta!...


L’ostilità consortesca, però, contro la mia persona, amo credere per eccesso di servile zelo di poliziotti, doveva raggiungere il grottesco. Il giorno 24 si insediava in Campidoglio la Giunta Provvisoria Municipale imposta ai Romani, in luogo di quella da essi, con l’assenso di Cadorna, acclamata al Colosseo. Mi parve mio dovere essere presente, onde dar ragione, occorrendo, dell’opera mia durante i tre giorni dei miei poteri. Ma, andato al Campidoglio, lo trovai circondato da cordoni di Bersaglieri; e, quando mi accingeva ad oltrepassare il primo, un ufficiale di questi, mettendomi una mano al petto, mi domandò ch’io fossi: