Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo I

Capitolo I

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Presentazione Capitolo II

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I.

LA MIA FAMIGLIA.


«Dio vi guardi da quelli della costa!...» Così dicevano i naviganti del Mar Tirreno; perchè i corsari della costa Ligure, abili e coraggiosi, assai erano temibili. Da questi, in gran parte, l’origine degli innumerevoli Costa.

La mia famiglia deriva da Santa Margherita Ligure. Ignoro come mio padre si sia trovato a Roma fanciullo in tanta povertà da dover girare la ruota per far corde. E la ruota girava velocemente e col cuore allegro, come se fosse stata questa la ruota della fortuna.

Più tardi, cresciuto, mio padre — che avea nome Gioacchino — si allogò in un lanificio. Quivi un certo Lera, conosciutolo, si invaghì della intelligente operosità del giovine. Ed un giorno gli domandò:

— Gioacchino che faresti tu se tu avessi nelle tue mani seimila scudi?...

— Io? — rispondeva il giovine. — Io farei i borgonzoni.

Il Lera allora gli profferse i seimila scudi. E mio padre aprì una fabbrica di panni avendo socio, per la metà degli utili, il proprio sovventore.

Fatti i primi panni si trattava di tingerli. Molti tintori eranvi, allora, in Roma; mio padre, però, pensò darli a tingere a certo Andrea Chiappi, che fra quelli primeggiava. Questi avea [p. 4 modifica]officina in una casa di sua proprietà in Via della Lungaretta; casa che, più tardi, gli eredi Chiappi vendettero non so bene se ai Tavani od agli Arquati. Andrea Chiappi, fra una numerosa figliolanza, avea una figlia, Mariuccia, bella ed intelligente che piacque al giovine lanaiolo. Ma la domanda in moglie, che ne fece al padre, non venne, sulle prime, accolta.

Col tempo, però, Andrea Chiappi, visto che gli affari di Gioacchino Costa progredivano a meraviglia, una bella sera, verso le ventiquattro, chiamò la figlia Mariuccia e seco la condusse a spasso per lo stradone di San Francesco a Ripa. Gioacchino Costa stava chiudendo allora la sua fabbrica. Ed Andrea, ammiccatolo alla figlia, le disse:

— Vedi quello?... È ora che tu pensi a maritarti ed io te lo scelgo per sposo. Ti va?

Rispose la fanciulla:

— L’ho visto qualche volta, quando è venuto a portare a tingere i panni. Ma, caro signor padre, m’han detto che tutte le sere, dopo aver chiusa la fabbrica, va a «Fontana Secca» a far la foglietta.1 Questo non mi piace!

— Lo correggerai tu di questa piccolezza, — replicò Andrea. — Frattanto, è quello il tuo sposo.

Pochi mesi dopo Mariuccia era sposa di Gioacchino Costa. E questi, raddoppiando di operosità potè restituire al Lera la somma che aveva impiegata nella sua fabbrica. Più tardi, però, mio padre ebbe a subire una gran perdita in una speculazione del Lera andata a male, tanto che questi dovette fallire. E di tal perdita assai mio padre si accorava. Fu la moglie, allora, a confortarlo, a rincorarlo, a dargli aiuto, tenendogli anche i conti e la cassa.

Mio padre raccomandò il suo primo figlio, Antonio, alle cure educative di certo padre Francesco Maria, francescano, perchè [p. 5 modifica]gli insegnasse a leggere, a scrivere, e far bene, ma bene assai, i conti e anche un po’ di italiano, aggiungendo:

— A dodici anni, però, sia tutto finito, perchè il ragazzo mi bisogna in fabbrica.

Così avvenne. Gli affari prosperarono sempre di più.


Mio padre non era forte in aritmetica ma faceva qualunque conto a memoria, con maggior prontezza di un contabile moderno. Era religiosissimo; per lui non esisteva che la Santissima Trinità in cielo e in terra chi tiene il Triregno.

Dopo Antonio ebbe, mio padre, altri quindici figli, quattro dei quali morirono prima che io nascessi. Furono gli altri: Filippo, Giuseppe, Francesco, Anna, Paolo, Artemisia, Pietro, Angela, Giovanni, Teresa, Luigi.


Con la famiglia andarono sempre più crescendo i mezzi per mantenerla ed educarla.

Mio padre non facea per i suoi figliuoli risparmio in maestri di ogni genere e la famiglia tenne con molta e signorile larghezza: casa ampia e comoda, cappella gentilizia, cavalli e carrozze, partite di caccia, ville, villeggiature e teatri. Nulla a quella facea mancare.

Non più andava mio padre a «Fontana Secca», ma soleva passare un’ora, la sera, in casa giocando a tresette con certi De Vecchis, Poggioli ed Anzani, mentre i giovani si divertivano dal canto loro.

D’animo assai generoso, mio padre, come il Lera aveva con lui praticato, così egli, quando si trovò nella prosperità, fece per un giovine lavorante della sua fabbrica. Gli fornì una vistosa somma perchè potesse metter su fabbrica a conto proprio e questo giovine Guglielmi tanto prosperò negli affari e tanto salì di stato che giunse ad avere la corona di marchese. Così pure egli aiutò molti altri lavoranti suoi. E fu per spirito caritatevole che nel terribile colera del 1837, benchè pregato e quasi obbligato, mai accondiscese a chiudere il suo [p. 6 modifica]lanificio perchè i suoi operai non mancasser di lavoro e di guadagno; e così, dopo l’invenzione dei telai a macchina, egli, per i vecchi lavoranti continuò con l’antico sistema. Ed io ricordo questi vecchi curvi venire alla fabbrica, benedicendo il Sor Gioacchino. Naturalmente questo lavoro era tutto a remissione.

Era mio padre assai largo con tutti. E non scendeva una volta dalla propria carrozza senza regalare un papetto al cocchiere. Negli ultimi anni il suo largheggiare fu quasi eccessivo, ciò che fece che il suo corteo funebre fu seguìto da migliaia di persone.

Mio padre fu zoppo per caduta da un albero e per essere stato morso da un gatto arrabbiato; per guarirne si recò, pieno di fede, a San Domenico di Cucullo e ne tornò guarito.

Non inglorioso fu il lavoro di mio padre, nè ad esso mancarono, per questo, soddisfazioni morali. Esiste nella mia casa paterna di San Francesco a Ripa, ove io l’ho veduta, una vecchia pergamena nella quale si dichiarava Gioacchino Costa degno di premio e veniva riconosciuto primo in Roma nell’arte della lana. Questa pergamena gli venne rilasciata dal Campidoglio ove aveano stanza i diversi corpi di arti e mestieri e portava, a colori, precisamente lo stemma con la sovrapposta corona. Allora in Roma l’Arte della Lana veniva subito dopo l’Agricoltura.


I miei fratelli venuti al mondo dopo il maggiore Antonio, furono istruiti meglio di questo. Il secondo figlio Filippo Costa, fu come matematico noto anche all’estero. Come ingegnere fece il Porto di Terracina, progettò quello di Ostia e relativo canale. Disegnò l’architettura del palazzetto paterno di San Francesco a Ripa. Maggiore di artiglieria, nel 1848 difese Ancona contro gli Austriaci. Egli, inoltre, fabbricava violoncelli e pianoforti di sua invenzione. Per queste sue fabbricazioni si era riservato un piano della nostra ampia casa, nel quale v’era una sala dove ogni violoncello era adagiato in una poltrona. Questo appartamento era quasi impenetrabile, tuttavia un giorno potei romper la consegna e vidi la conversazione dei violoncelli ed [p. 7 modifica]in un’altra camera i pianoforti coi loro piani di ferro. In una terza camera vidi una enorme tavola sulla quale erano schierati a battaglia, in terreno accidentato, non meno di cinquemila soldatini di piombo, e modelli perfetti di piccoli cannoni da campagna con i loro attrezzi. Confesso che fui preso da una frenesia tale di possederne uno che, senza saperlo, me lo trovai in tasca. Ma, subito dopo, mi rodeva tanto la viltà commessa che fui felice quando lo ebbi rimesso a posto.

Filippo era alto di statura, di aspetto militare. Di animo coraggioso, di poche parole. Per tal sua qualità era a me fanciullo simpaticissimo.

Terzo fratello, dopo Filippo, fu Giuseppe. Poeta arcade tradusse in poesia, e n’ebbe lode, il libro di Giobbe. Fece versi in romanesco degni dell’epoca del Belli; e, come suonator di flauto, egli era forse il primo in Roma dopo Nicoletti.

Veniva quarto Francesco che abbracciò la carriera ecclesiastica e divenne Canonico. Egli non si distinse in alcuna cosa tranne che nella memoria fragile in tutto fuor che per gli inviti a pranzo, dal giorno ch’ebbe l’uso della ragione al giorno della morte, che lo colse di 77 anni. Canonico, buon diavolo, di cuore, ha sempre aiutato i parenti poveri sebbene non ricco.

Dopo Francesco veniva Paolo. Forte in computisteria egli fu, coi Borghese, uno dei primi fra gli institutori della Cassa di Risparmio, tra i fondatori della Società Promotrice di Belle Arti e di varie altre instituzioni di Roma. Coltivava la musica, anche il contrappunto, ed era pianista degno dell’epoca di Rossini, Bellini e Donizetti. Era di sentimenti liberale.

Veniva dopo Pietro, uomo di carattere duro e secco.

Dopo io, Giovanni. Ed ultimo Luigi, uomo di carattere poco forte.

Ebbi anche, come ho detto, quattro sorelle: Anna, di molto spirito; Artemisia, carattere di suora di carità un po’ medioevale; Angela che per le pressioni di Artemisia ebbe guastato il carattere; Teresa che non vide altra felicità nel mondo all’infuori del claustro.


Note

  1. «Far la foglietta» significa in romanesco giocare a carte una misura (foglietta) di vino. «Fontana Secca» era il nome di una famosa osteria in Trastevere.