Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo II
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo I | Capitolo III | ► |
II.
LA MIA INFANZIA.
Venendo a me, dirò che io nacqui nell’ottobre del 1826.
La prima cosa che io ho veduto e che ricordi al mondo, fu il mare a Fiumicino, biondo per il Tevere che vi si getta. Quivi mi portarono per curarmi la pancia grossa, facendomi bere acqua di mare, che a me dispiaceva assai. Piansi tanto e tanto mugolai: «Voglio tornare a casa mia!» che furono costretti ad accontentarmi e mandar mio fratello Filippo per ricondurmi a casa.
Un’altra cosa ch’io ricordo, con piacere e con dolore di bambino, è un albero di moro gelso che si elevava su di una specie di rialzo del nostro giardino. Godimento quando maturava il frutto, dolore quando questo cadeva infracidito. Di qui ebbi la prima idea della vita e della morte.
Ricordo ancora che mio padre mandò i quattro figli minori — Pietro, Teresa, Luigi e me — a scuola dalla Sora Gesualda, fattora delle monache di Santa Cecilia, dove erano mescolati ragazzi e bambine, dove si pregava da mattina a sera: rosarii e litanie all’infinito, in ginocchioni e con le mani sotto le ginocchia per penitenza, croci per terra con la lingua (spesso da me aiutata col naso), calzettina, ecc.
Fatti più adulti mio padre volle, per educarci, fisso in casa un certo Don Pasquale Iannucci di Segni ottima persona. Ad esso fummo affidati interamente, dandoci ad abitare il terzo piano del palazzetto paterno di San Francesco a Ripa. Don Pasquale non eccedeva in cultura; ma era amante della caccia, della musica, appassionato della storia dei tempi biblici e di quella dei Romani. Ci faceva piangere con la storia di Giuseppe, ci infervorava con Muzio Scevola e Cincinnato. Non mi ricordo che egli fosse caldo per i Re e gli Imperatori; ma ci presentava Bruto I e Bruto II come veri eroi. Credeva che Romolo, invece di essere assunto in cielo durante la bufera, fosse stato portato via a pezzetti sotto le toghe dei Senatori.
Era Don Pasquale rettore della Chiesa di Santa Maria dell’Orto alla quale mi conduceva per servir messa; ed io ve ne ho servite fino a sei in una sola mattina. Alle ultime messe ero stizzito e, nel momento dell’elevazione, alzava molto la pianeta e la sottana, cosicchè, mentre scampanellava si vedeva il prete in mutande. Il prete, poi, io avea già punito, versandogli poco vino nel calice, ritirando l’ampolla mentre egli, malcontento, lo scuoteva.
Uno dei piaceri a Santa Maria dell’Orto era l’altalena con le corde delle campane, nel campanile, che spesso finiva tra gli scapaccioni per l’inopportuno scampanìo.
La chiesa di Santa Maria dell’Orto è del sedicesimo secolo, tutta marmi, pitture ed oro. Pittura degli Zuccari: Fuga in Egitto con paesaggio orientale che a me piaceva molto, un asino (fatto bene), la Vergine Maria, il povero San Giuseppe ed il Bambino. Mi facevano un brutto senso gli angeli di stucco sulle arcate.
Uno dei miei piaceri era quando Don Pasquale mi conduceva, in ottobre, alla caccia delle lodole. Si andava, con la nostra carrozza, nelle tenute di famiglia in Campagna Romana. L’eroe era mio fratello Antonio, che portava due fucili ultimo modello ed un servitore a sé per caricarli. Di questo Don Pasquale era un poco geloso, quantunque avesse me per servitore e cane. Ma io ero bracco che avea odorato per altra caccia. Mi mettevo a guardare i bei punti di vista, non dava i tratti al mazzolo per far aprire le ali alla civetta, non vedevo il punto dove l’animale andava a cadere. Ricordo che rimanevo incantato a guardar i monti che si disegnavano sotto il cielo puro di una bella mattina di autunno. Il mistero dei piani che vanno a coprire le falde dei monti, la gioia che traspariva nelle forme e nel colore di ciò che era a pochi passi da me, mi rapivano. Al ritorno da una di queste caccie manifestai il desiderio di fare il pittore. Ed allora tutti i miei mi classificarono come il più ignobile dei Costa. E facevano, a tavola, discorsi di questo gusto:
— Ho visto oggi quel disgraziato pittore tal dei tali, quell’infelice libertino tale tal’altro; già è etico marcio.
E mio fratello Antonio rincalzava:
— Mai e poi mai io darei una mia figlia in sposa ad un pittore.
Altro dei miei piaceri era quando Don Pasquale ci menava nella stagione estiva a Segni. Si andava fino a un certo luogo detto «Osteria Bianca» in diligenza, stivati come acciughe, snocciolando rosarii e litanie, guardando dai finestrini se apparisse qualche brigante, sopratutto quando si facevano le salite al passo. Questa diligenza, di color giallo, era molto alta e fatta a bigoncia; le ruote erano fermate all’asse da un chiodo torto che si chiamava «acciarino». Il quale acciarino, in uno dei nostri viaggi a Segni, essendo saltato via, la diligenza ribaltò. Uscirne fu difficilissimo; perchè una donna molto grossa, avendo voluto uscir dal finestrino vi si era incastrata otturandolo. Essa gridava e dimenava le gambe sferrando calci a noi miserelli, che eravamo al buio. Fortuna che i cavalli, i quali non amavano che l’immobilità, non si mossero!... Non uscimmo di lì fino a che, attaccatici tutti alle gambe della donna, non la tirammo dentro.
Usciti fuori, fu per me spettacolo sorprendente il presentarsi ai miei occhi della catena azzurra ed oro dei Volsci, con gemme di piccolissime case bianche che speravo di poter prendere con le mani; ma, purtroppo, avvicinandomi diventavano odiosamente grandi.
Altro non mi ricordo, di Segni, che del padre di Don Pasquale, di un tronco di albero che ardeva nel camino attorno al quale ci raccoglievamo alla sera a mangiar castagne arrostite, del bosco di lecci dei Cappuccini; e mi ricordo, pure, della sensazione che producevano questi frati barbuti a me non avvezzo a veder barbe perchè in quell’epoca non si costumava portar barba; e credevo che i Cappuccini fosser interamente coperti di pelo.
Mi ricordo pure di Monte Piano che si erge come una enorme piramide; e dalla cui cima, assicurava Don Pasquale, si vede il Vesuvio ed il mare.
Il ritorno da Segni compivamo a cavallo per diciotto miglia fino a Velletri; ed a me toccava star in groppa dietro a Don Pasquale, arrotando il naso sulla schiena di lui.
Se ripenso alla mia infanzia, la rivedo invasa dalla malinconia. Sentivo che non era stata, dai fratelli maggiori, salutata con gioia la madre incinta di me. Appena acquistato l’uso della ragione, sentii che c’era qualcosa di meglio della educazione che ci davano, della religione che ci volevano inculcare, alla quale non ho mai creduto. A confessarmi obbligato, mai l’ho fatto in buona fede; mai ho temuto l’inferno, mai ho sperato di vedere un angelo. Tutta la mole di una religione, che si presenta col Dio uno e trino, la Madre Vergine e Cristo in carne ed ossa dentro l’ostia e si fa trangugiare, legioni infinite di angeli, di cherubini, di serafini, ecc. e l’innumerevole schiera dei santi, dei patriarchi, non poteva entrar nella mia povera mente; la quale ripiegata in se stessa per i poco buoni trattamenti, non sentiva che la verità. E sentiva che questa religione era una specie di Ancora rugginosa e spuntata, ferro battuto da un popolo in decadenza. Naturalmente io non aveva, allora, formulato nella mente queste idee, ma era quel che confusamente provava un giovinetto allo stato naturale, che cercava il suo avvenire.
Io mi rammento di una gran tristezza che mi possedeva. Solo la campagna e la musica mi trasportavano e mi commovevano in modo da farmi piangere. Di musica io ne aveva della eccellente in casa, la migliore che si facesse in Roma; poichè mio fratello Paolo era uno dei primi pianisti e buon compositore, Don Pasquale suonava il violoncello, Don Mauro Liberatore, monaco benedettino, il flauto, un altro, benedettino, di cui non ricordo il nome, la viola, mio fratello Giuseppe il flauto ed il mandolino. Venivano, pure, a far musica in casa nostra, cantanti come Cacurri e Cocolini che ebbero, in seguito gran successo sui teatri. E vi veniva anche, a suonarvi il violino, Monsignor Morichini che venne, poi, innalzato alla porpora cardinalizia. Quantunque non ammesso nella sala, io rimaneva in estasi nell’anticamera; e, quando mi riusciva di scivolar inosservato dentro la sala, ero al colmo della felicità.
Più tardi i quadri di concerti del Giorgione mi han rammentata quell’epoca, facendo parte nei concerti in casa mia anche la moglie del mio fratello maggiore, Antonio, la quale era una Armellini, una delle più belle e più colte donne di Roma.
Anche ricordo che, andando nei giorni di festa alla Cappella Sistina, mentre vi si faceva musica antica, ho pianto nell’ascoltarla, guardando le pitture che decoran tal gran monumento.
Tornando un giorno a casa, dal Vaticano, Don Mauro Liberatore mi domandò quali pitture più mi fosser piaciute ed io risposi:
— Quelle di Pinturicchio.
Da quel giorno, per scherno, mi imposero il nome di Pinturicchio. Bisogna sapere che, a quell’epoca, questo pittore era tenuto in dispregio; quasi non si sapeva esistesse l’appartamento Borgia. Posso vantarmi di esser stato, in seguito, uno dei primi a richiamar l’attenzione su quel monumento, un dei perfetti che esistano.
Verso quel tempo là, per la prima volta, infierì in Roma il colèra. Era il 1837, io avea undici anni e mi sono rimaste impresse le spaventose scene, specialmente di notte, quando si vedeva il chiarore delle torce a vento, e, tra il lento cigolìo dei carri, si sentiva la lugubre voce dei becchini gridare:
— Chi ha morti?
Nel vicino convento francescano il morbo mietè molte vittime; e quei miserandi cadaveri di frati eran presi per le spalle e per i piedi da due becchini che dondolandoli li gettavan di colpo sul carrettone. Di notte si sentivan pure, da Santa Sabina, i colpi di fucile con i quali si giustiziavano quelli che aveano spogliato i morti o ne aveano abusato.
Nella mia famiglia morì una vecchia domestica, che la serviva da quarant’anni e che, allora, tiranneggiava noi piccini.