Quel che vidi e quel che intesi/Presentazione
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Capitolo I | ► |
AI MIEI FIGLI MARIA E GUERRAZZO.
In morte di Lord Frederick Leighton Re Edoardo VII, allora Principe di Galles, ebbe ad esclamare:
«Qualcosa vi ha di più bello e più alto dell’arte di Frederick Leighton; ed è la sua vita!»
Lo stesso, figliuoli miei, di quel che fu detto per il suo fraterno amico, e con non minor ragione, può dirsi di vostro nonno Nino.
Rara è davvero altra vita di uomo quanto la sua bene vissuta. Se Egli ebbe la somma ventura di palpitare, fin dai più giovani anni suoi, per i più nobili ideali umani, Patria ed Arte, gli fu pur consentito di consacrare a queste tutto se stesso.
Affacciandosi alla vita Egli volle unita l’Italia, liberata dallo straniero, ed alla stessa ricongiunta Roma. E questo Egli vide. Come, col risorger dell’Italia, vedeva rinnovarsi e nobilitarsi l’Arte Italiana, avendo sicura coscienza di avere anch’Egli per questi due grandi fatti non oprato invano.
Certo l’Italia, fatta una e libera, non fu quale era stata nei sogni della sua giovinezza. Anch’Egli, come tanti altri che per l’Italia avevano oprato e sofferto, si sentiva deluso. Ma se ciò gli era amaro, la ragione lo consolava. Egli soleva ripetere: «Il popolo italiano non ha abbastanza sofferto!...» Con che intendeva esprimere che, la massima parte degli Italiani essendo rimasta estranea al movimento per la conquista della indipendenza e della libertà, non potevano essi apprezzare quanto valgano tali grandi beni, nè assieme a questi avere acquistato animo e virtù quali occorrono ad un popolo per meritarli e farli strumento ad elevarsi a maggiori destini.
Mai, comunque, mio padre rimpianse, come tanti, quanto avea fatto per il Paese, nè mai dubitò che l’Italia si sarebbe fatta un giorno degna della sua passata grandezza. In questa, come nelle grandi virtù della inclita nostra razza, ch’Egli riteneva sopite ma hon spente nel profondo della coscienza degli Italiani, trovava alimento tale sua salda fede. E non meno Egli fermamente credeva che, in questi luminosi giorni per l’Italia, con amore si sarebbe nel Paese ricordato il suo nome e l’opera sua d’italiano e d’artista.
Con tale fede nel cuore Egli chiuse gli occhi. Coraggiosa e serena, come la sua vita, fu la sua morte. Le sofferenze del male sopportò senza lamento; e nelle tregue tornava ad una inconturbata serenità. Poco prima di smarrir la coscienza, e già avea perduta la parola, tuttor ridenti ed affettuosi volgeva gli occhi su quanti gli eravamo intorno, e scherzevole agitava le dita. La morte sua, così, se ci fu estremamente dolorosa, nulla ebbe di angoscioso e di straziante; e nemmen di drammatico. Fu semplice e quieta conclusione della vita, calmo e dolce tramonto di lunga e bella giornata.
I giorni migliori per l’Italia, nei quali vostro nonno Nino avea incrollabile fede, figliuoli miei, sono giunti, son questi, pieni di fattivo ardore e di splendenti promesse, che noi viviamo.
Perchè più intera ai contemporanei ed ai venturi apparisca la bella figura di italiano e di artista che fu mio padre, io pubblico questi suoi ricordi che sono non irrilevante documento dell’epoca in cui Egli visse e degli straordinari avvenimenti nei quali ebbe parte. A questo, però, più che altro mi induceva il pensiero di voi, figliuoli, e di quelli che da voi verranno.
Caro mi è pensare che la pura immagine di vostro nonno Nino stia sempre, nel corso della vita, a voi dinanzi; e che sempre vi mantenga a quella altezza morale in cui Egli, nei lunghi anni che visse, sempre stette. E che i figli vostri ed i figli dei vostri figli, dai ricordi del proavo, imparino che il miglior pregio della vita consiste nell’agire per la bellezza dell’atto e per l’appagamento della propria coscienza, senza attendere da altrui plauso o compenso. E che meglio si vive questa nostra vita mortale, quanto più si conti solo sopra se stessi.
E caro, pure, mi è pensare che queste pagine, con tanti altri nostri famigliari ricordi, valgano a tenere i più lontani nostri discendenti nel solco della ormai più che secolare tradizione della famiglia. Tradizione di assoluta fedeltà, in ogni contingenza, alla Patria nostra; che è il massimo bene che a mortali potesse mai concedere Iddio. Tale tradizione, con quella del costume semplice e puro, abbonda in coloro da cui discendiamo. Entrambe debbono essere conservate.
Simili tradizioni son per le famiglie, come per la Patria, tesoro preziosissimo. Conferiscono a quelle dignità e nobiltà che nulla han da invidiare a quella delle pergamene. Tradizioni che, se nei discendenti infondono alti sentimenti, son pure ad essi sicura guida e saldo sostegno in ogni più ardua vicenda della vita. Ed è dalla somma di tali tradizioni, tenute vive in talune famiglie, non importa se umili, che vengon formate, principalmente, quelle grandi ed irresistibili forze morali che, nei supremi momenti della storia dei popoli, ne governano i destini.
Il mio cuore sempre fu ed è a mio padre ed alla sua memoria riconoscentissimo per tutto quel ch’Egli è stato per me. E, non ultima ragione, perchè l’essere sua figlia aprendomi tutte le porte, ha fatto che, con chiunque mi trovassi, mai io mi sentissi ad un livello inferiore.
E voi, figliuoli miei, ben sapete come al primo annunziarsi del grande cataclisma che doveva scuotere il mondo, e dal quale il nostro Paese poteva essere travolto, subito, senza sbigottimento e senza esitanza, gli animi nostri e le azioni fossero all’altezza delle supreme necessità della Patria. Questo io ricordo, perchè non può affatto essere, per noi, motivo di vanto; essendo, allora, il sangue dei nostri venerati vecchi che in noi agiva irresistibilmente. Ma la Vittoria, della quale mai dubitammo, infondeva in noi una gioia più che umana. E dalla Vittoria nasceva tutto il gran bene che or gode l’Italia, che gode il più umile degli Italiani; e fa che anche il vostro babbo ed io, che da un pezzo non lo siamo più, ci sentiamo giovani.
Per la Patria e per i nostri discendenti, voglia Iddio che da queste pagine, e da tutte le nostre famigliari tradizioni, essi imparino a non essere diversi dai nostri maggiori.
La vostra Mamma.
AVVERTENZA.
La massima parte di questi ricordi suoi mio padre dettava a me nelle sere invernali, a cominciar dall’inverno 1892-93. Ed io li conservo in parecchi quaderni di quell’epoca. Egli intendeva di dedicarli al suo fraterno amico Lord Frederick Leighton, per incitamento del quale si era deciso a dettarli. Venuto a morte l’amico sui primi del ’96, mio padre da tal lavoro si disamorò e lo lasciò interrotto. Più tardi, avendo Olivia Rossetti Agresti impreso a scriverne la biografia, Egli dettava a lei altri ricordi che trovarono posto nel volume uscito a Londra dopo la morte di mio padre.1 Degli stessi mi son servita per completare questo libro.
Il più del quale, quindi, è il primo sbozzo di un lavoro che, senza dubbio, mio padre avrebbe ampliato ed arricchito di altri episodi e particolari circa le memorande vicende cui ebbe parte e le numerose e varie personalità con le quali fu in contatto. Ciò nonostante io ritengo che, anche così come sono, non sia poco l’interesse di questi ricordi, se pur non accresca ad essi pregio l’essere lavoro di primo getto. Che io pubblico tal quale; guardandomi bene anche di temperarne talune crudezze, che non mancano. Le quali, se giovano a rivelare intero il carattere di mio padre, concorrono anche a chiarire lo spirito dei tempi a cui si riferiscono.
Per quanto tutto questo libro sia pieno di Lui e della azione sua, io conservo il titolo che mio padre gli dava: Quel che vidi e quel che intesi.
I ricordi si fermano al 1870. Dei trentadue anni circa che mio padre durò ancora in vita, Egli non lasciò nulla dettato da lui. In questo ultimo periodo fu la sua vita, per quanto pienissima, esclusivamente artistica. Fonte per la biografia di lui, e per la storia dell'Arte in quegli anni, è sopratutto il libro di Olivia Rossetti Agresti; come lo sono gli scritti d’Arte di mio padre pubblicati in vari giornali, ed i suoi carteggi; i quali offrono materia per altro libro.
G. G. C.
Narrando a diversi amici alcuni aneddoti della mia vita, quasi tutti mi han detto:
— Scrivili!...
Ed io ho sempre ad essi risposto:
— Aspetto di essere curvo sotto il peso dei molti anni per ripiegarmi su me stesso.
Federigo Leighton, che mi è amico da quasi mezzo secolo, mi replicava:
— Comincia prima di perdere qualcuna delle tue facoltà.
Mi son messo all’opera per porre in carta quel che vidi e quel che intesi. Ed a lui lo dedico.
Principiando, una cosa mi spaventa: quel misero Io seminato dappertutto. Ma come fare? Tutto si vede attraverso l’Io....
Io; dunque, non ho mai desiderato di conoscere i dettagli delle cose come degli uomini.
Infatti non son mai montato su di un’altura per vedere un panorama; dove si vede tutto troppo distinto e circoscritto.
Così mai ho voluto prender molta dimestichezza con uomini illustri per tema che i dettagli me ne guastassero la linea grande.
Quantunque nato all’ombra della cupola di San Pietro, non son mai salito nella palla che le sovrasta; andato giovanissimo a Bologna, non volli salir sulla Torre degli Asinelli, come pure a Pisa rinunciai a vedere le Alpi Apuane ed il Tirreno dall’alto del celebre campanile.
Quei di casa mia dicono che, per trovarmi quando dipingo sul vero, bisogna cercarmi in luoghi ove è d’uopo stare con i piedi nelle pozzanghere. Una montagna della quale ignoro le falde, e che erge la cima lapislazzuli dall’onda di colline dorate, ha per me fascino grande. Lo stesso senso ho provato per gli uomini grandi; e mi son sempre guardato dal cercare i dettagli della loro vita e di vederli troppo da vicino.
Spettatore di grandi avvenimenti del Risorgimento Italiano, non son mai salito sul palcoscenico, nè fra le quinte a veder come gli attori si truccavano per far la loro parte. Ma, restando in platea, d’un salto io entravo fra gli attori per far la parte che vedevo mancare.
E non ho mai applicato all’orecchio la tromba, per udire chi non sapeva, o non voleva, farsi intendere.
Note
- ↑ Olivia Rossetti Agresti, Giovanni Costa. - His life, work and times. London, Grant Richards, 1904.