Prose campestri/Me vero primum dulces ante omnia Musae
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Me vero primum dulces ante omnia Musæ,
Quarum sacra fero ingenti perculsus amore,
Accipiant.
La poesia mi fa passar tante ore sì piacevolmente, che io non posso non averne un alto concetto, senza maravigliarmi di coloro, che sentono di lei altrimenti, e ch’io scuso; perciocchè udendo chiamar poesia certi versi per un matrimonio, una laurea, una monacazione, o pedanteschi e servili, o licenziosi e barbari, e forse di lei non sapendo altro, se non merita lode la loro ignoranza, non è però da biasimare il giudicio. S’abbiano le città questa poesia: i campi ne vantano un’altra, che certo, ove sappiasi coltivarla, è molto più bella.
La solita querela, che si muove contra quest’arte di tutte la più difficile, è della poca sua utilità: ma coloro, che di ciò l’accusano, mostran non conoscer punto nè la natura della poesia, nè quella dell’uomo. Perchè l’uomo ricever possa gli ammaestramenti de’ filosofi, convien che la sua ragione sia stata prima coltivata non poco e disposta; e la più parte degli uomini non ha nè tempo, nè comodo di dare alla sua ragione questa coltura. Ma v’è un’altra facoltà in noi, che per sè medesima si disviluppa, e dicesi fantasia. Se dunque, riducendo al materiale l’astratto, e dando corpo ad ogni pensiero, io parlerò ai sensi, e alla fantasia, e quindi al cuore; chi non m’intenderà? Chi non potrà ricever quelle lezioni, ch’io gli presento in tal modo, aggiungendovi la magía del numero, dalla cui forza vien l’uomo naturalmente rapito?
Ma concedasi ancora, che tutti d’una certa istruzione scientifica capaci sieno. Basta, io domando, per seguire il vero, conoscerlo? Ohimè, che gli uomini si trovano troppo spesso nel caso della Medea d’Ovidio,. . . . . video meliora, proboque,
Deteriora sequor . . . .
Veggo il meglio, e l’approvo; e il peggio seguo.
Bisogna dunque farlo amar questo vero, bisogna muover gli animi ed infiammarli; e ciò non s’opera nè con definizioni e divisioni accurate, nè per forza di sillogismi, o di calcoli. Se quell'antico filosofo, il qual disse, che ove la virtù si mostrasse sotto aspetto sensibile, ciascuno alle sue attrattive resterebbe preso, si fosse ricordato, che i poeti sanno appunto d’un corpo visibile in qualche modo vestirla, non gli avrebbe per avventura sbanditi dalla sua troppo bella repubblica. Non v’ha cosa, a cui non si possa condur l’uomo per la via del diletto: non v’ha spezie d’entusiasmo, che in lui destar non si possa con la voce focosa ed invitta dell’entusiasmo.
Ma lasciando anche questo, io domanderei, se utile non è molto ciò che diletta, e se gli uomini non coltivan molte di quelle facoltà, che si dicono utili, unicamente per procacciarsi i lavori di quelle, che prometton solo di dilettare. Certo l’arte più utile è l’agricoltura. Ma perchè tanto ti studj a migliorare i tuoi campi? Ciò, che ti rendono, basta al tuo vivere onesto ed agiato. Con quel più che ne ritrarrò, tu rispondi, potrò comperarmi di bei quadri, di buone statue, potrò piantare ed ornare un giardino. Ma non è egli per cagion del diletto, che si vuole il quadro, la statua, il giardino?
Molti confessano, che la tragedia, la commedia, il poema epico, la satira, o il sermone che dir vogliamo, l’apologo, o sia la favola, esser possono di qualche utilità: ma si ridono della canzone, del sonetto, del madrigale, e dell’epigramma. Ed a questi parmi dover risponder così. Tutto ciò che contiene (qualunque ne sia l’argomento, purchè onesto) pensieri o grandi e sublimi, o delicati e gentili, o profondi ed acuti, e sempre nobili, scelti, naturali, veri, ed espressi con quanto ha una lingua di garbo e forza, di colorito e armonia, che è come dire il fiore, la quintessenza del pensare e dello scrivere su qualunque soggetto; chi potrà credere, che far non debba assaissimo alla coltura più squisita, all’ornamento, e alla perfezione così del cuore, come dello spirito?
Nondimeno voglio anch’io star contento a quella definizione, secondo la quale è la poesia un’arte di verseggiare per fin di diletto. Ma un’arte, che parla, e si serve parlando di quanto ha di più possente e più vittorioso la lingua dell’uomo, può ella essere indifferente mai? Sarà di vantaggio, o di nocumento secondo il modo del maneggiarla, come avviene di quelle arti ancora, che diconsi utili, anzi come d’ogni cosa nel Mondo.
La definizion sopraddetta piacemi anche per questo, che mi par sola terminare senz’altri argomenti quella celebre questione, se possa essere poesia senza verso. Non direm poesia il Telemaco? Nol diremo, perchè la poesia è arte di verseggiare. Nel tempo stesso (così amano alcuni di confonder le arti tra loro, e d’avviluppar tutto) dicono non esser poesia, ma storia, il poema di Lucano, come quello ch’è privo di favola. Ma perchè s’introduce la favola? Perchè si crede che renda più dilettevole, più bello il poema. Questo non cesserà dunque d’esser poema senza essa, ed ove diletti, sarà, anche senza essa, un poema bello.
La cura delle definizioni chiuderebbe la porta a contese infinite. Non pare incredibile, che sul fatto appunto della poesia gli uomini non s’intendano ancora? Giacchè secondo alcuni il diletto è fine, e secondo altri solamente strumento, e fine l’utilità. Ma negli argomenti più famigliari e triti veggiam la medesima discordanza; della quale cesserai di stupire, quando, finito il contrasto, si domandino le definizioni: ciascuno ha la sua. Ma guai domandarle! è allora che apparisce nel suo maggior lume l’ignoranza umana. E veramente non può negarsi, che dall’esser le idée degli uomini così poco chiare, distinte e fermate, diminuiti non vengano molto i piaceri del conversare, piaceri che pur tanto si esaltano generalmente. Quindi mi parve sempre aver del ridicolo la compassione di tanti per colui, che vive solo nella sua villa, dicendo esser privo affatto di società: perchè quanto è grande, secondo loro, la perdita che l’uom fa della lor compagnia, altrettanto disprezzano, o non consideran punto quella degli uomini di contado, tra i quali, e i tronchi stessi degli alberi, par che non mettano differenza niuna.
Ciò, che saper bisogna all’uom di campagna, a formar viene tal massa di cognizioni, che può dirsi una scienza vasta, a rispetto della profonda e generale ignoranza di tanti uomini della città, dai quali nulla hai ad apprendere; ove da quello non poco puoi trarre, che degno sia della tua considerazione, non solo in agricoltura, ma in meccanica ancora, e in meteorologia. Se poi, fuori dell’arte sua, è assai ristretto il circolo delle sue idée, queste son molto più chiare e più giuste, che in una gran parte del popolo cittadinesco. Del che si veggono due ragioni: l’una è questa, che colui che esercita la mente in un’arte, tien sempre, anche fuor di essa, più discrezione e giudicio, che non quegli che lascia in un totale ozio le sue facoltà; l’altra, che nel contadino il lume naturale, non offuscato dalle infinite opinioni torte delle società umane, ha una forza molto maggiore. Non sa il contadino tante cose, cioè non sa tanti errori.
Non dirò in riguardo al costume, che le campagne abbiano quella semplicità ed innocenza, che veggiam dipinta nelle storie de’ Patriarchi, e nell’egloghe de’ Poeti; ma certo men guaste deggiono essere delle città. In queste la libertà del pensare, l’ozio, il lusso, la dissipazione, l’egoismo, ed altre somiglianti pesti si propagano di classe in classe dalle più alte e più ricche sino alle più abbiette e più povere; ma da queste non passano all’ultima, cioè a quella de’ contadini, che vive da tutte le altre affatto disgiunta. Poco questi nelle città si fermano; e i signori Italiani non vivono nelle campagne abbastanza, per corromperle col loro esempio, e con quello de’ lor domestici.
Quanto alla felicità, con piacere io mi ricordo sempre di ciò, che un tratto mi disse il Lavoratore di questi campi. Volli un giorno sapere, se da qualche desiderio tormentata era quell’anima, che pur pareami tranquilla, e ciò, ch’io dalla sua bocca e fisonomia raccolsi, fu, ch’egli credea che a tutti, lasciando ancora il bisogno di vivere, necessaria fosse l’occupazione; ch’egli aveva osservato ch’io stava su i libri, come se da questi trarre io dovessi la mia sussistenza, esser veramente il mestier suo faticoso assai, ma, avezzo a questo sin da’ primi anni, non saper quasi desiderarne uno men laborioso, e bastargli che l’anno corra in maniera, che a rimaner non abbia al di sotto. Questo, non so s’io lo chiami o Socrate o Seneca campagnuolo, ho io sotto un tetto medesimo. Direte voi ancora, abitanti delle città, che non passa differenza niuna tra un contadino, e il tronco d’un albero?
Ma tu, voi soggiungerete, non vorrai comunicare i versi, che vai facendo, a cotesti tuoi villani, benchè tanto da te pregiati, e converrà che ti contenti di recitarli alle selve. Ciò sarebbe un gran male per que’ poeti, che non possono aver composto un sonetto, senza correr tosto a ficcarlo nelle orecchie altrui; non lascian mai di far sentire la loro voce nelle radunanze accademiche; sono veri incomodi del secolo. Io, grazie al Cielo, non disturbo il secolo per tal cagione, e m’accusi d’orgoglio chi vuole, e dica ch’io serbo le cose mie per gli orecchi di Giove.
Non ego nobilium scriptorum auditor et ultor
Grammaticas ambire tribus, et pulpita dignor:
Hinc iliæ lacrimæ. Spissis indigna theatris
Scripta pudet recitare, et nugis addere pondus.
Oltre che la campagna e la bella stagione sono a me presso che necessarie per dettar versi. Certo io trovo molto più facilmente le rime sopra le cime degli alberi, che non su quelle de’ campanili; e la mia picciola vena, che nel verno rimane agghiacciata, non iscorre propriamente, che dall’equinozio di Primavera fino a quello d’Autunno.