Profugiorum ab ærumna/Libro II

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LIBRO II


Qual convenga in noi essere premeditazione e instituzione d’animo per escludere e proibire da noi ogni perturbazione vedesti nel libro di sopra, e credo ti satisfece. Vedesti con quanta brevità e’ ti raccolse molta copia d’ottimi ricordi e sentenze de’ nostri maggiori uomini stati prudentissimi e sapientissimi in vita. In questo libro vedrai in che modo, se forse già fussi occupato da qualche merore e tristizia, o da qualche altro impeto e agitazione d’animo, possi con ragione e modo espurgarla e restituirti ad equabilità e tranquillità d’animo e di mente. Qual cosa accadde che Agnolo Pandolfini, omo eruditissimo e disertissimo, disputò insieme con Niccola di Messer Veri de’ Medici, omo fra’ primi litterati in Toscana non postremo, e fra’ non ultimi umanissimi el primo in cui sia coniunta molta prudenza con molta affabilità. E cadde la cosa in questo modo, che la mattina dopo a’ ragionamenti di sopra, Niccola e io eravamo nel tempio nostro massimo stati ad onorare el sacrificio, e vedutoci insieme ne accogliemmo per salutarci. Erano con Agnolo due messi da’ magistrati massimi. Adunque giunto a noi Agnolo ci salutò e disse: — Questi mi chieggono e instanno ch’io salisca su in Palagio a consigliare cogli altri padri la patria e curare el ben pubblico. Sia della mia volontà e de’ miei studi cognitore e testificatore Dio immortale e gli altri abitatori e moderatori del cielo, come cosa niuna tanto mi sta ad animo né tanto mi siede in mente quanto di conservare e amplificare l’autorità, dignità e maiestà della patria mia insieme colla utilità e pregio di ciascuno privato buon cittadino. Ma che perversità sarà la nostra se noi chiamati a consigliare ci converrà dire non quello che forse a noi parerà utile, onesto e necessario [p. 138 modifica]a’ tempi, alle condizioni del vivere e della fortuna nostra, ma converracci dire quel che stimeremo grato a chi ne richiese? Natura degli uomini prepostera e in molti modi da biasimarla. Noi vediamo le fiere nate a essere impetuose, rapaci e al tutto indomite, che mai s’ametteranno ad iniuriarsi insieme se qualche furore non le eccita e concita. Noi vero uomini, nati per essere modesti, mansueti e trattevoli, par che sempre cerchiamo d’essere contumaci, molesti, infesti agli altri uomini. E questo se egli è furore, chiunque volesse aggiungervi consiglio, costui quasi vorrebbe, come dicea quel poeta, impazzar con qualche ragione. Iersera mi tenneno sino a molta notte, e ora mi rivogliono; né fie tempo d’essere al bisogno di qui a più ore. E s’io vi giovassi, non aspetterei esservi richiesto. Adunque adopereremo questo tempo in altro, e forse a chi che sia gioveremo; dove dicendo lassù quel ch’io sento, non gioverei a me, e dicendo quel ch’io non sento, non piacerei ad altri.

Così disse Agnolo a noi; e poi si volse a que’ due publici e mandònnegli a’ superiori magistrati con buona scusa. E voltossi a Niccola, e sorrise e disse: — Dove eravate voi addritti? Forse ad essercizio, che? Ben fate. L’essercizio e la sobrietà, due cose ottime, conservano la sanità, mantengono la gioventù, producono la vita. E questi be’ soli c’invitano a godere questa amenità di questi nostri prospetti lietissimi. Vorrebbesi testé, Battista, esser laggiù a quel nostro Gangalandi co’ cani, o alle colline o a’ piani, ed essercitarsi qualche ora, e poi ridursi agli studi delle lettere e a filosofia come è tua usanza, Battista. Ma se vi pare, Niccola, e se voi siete oziosi, passeggiamo per insino a’ Servi. Gireremo da S. Marco, e restituiremoci qui. Piacevi? — Questo disse Agnolo.

Risposegli Niccola: — Nulla suol pari dilettar qui Battista quanto l’essercizio; e vidilo io non raro lo ’nverno, perché fuori piovea, uscire da’ libri ed essercitarsi colla palla in ogni moto e flessione e agilità. Gli altri dì asciutti raro fu che non salisse su erto a salutare el tempio di S. Miniato. E in villa quali siano e’ suoi essercizi, ve gli vedete voi, Agnolo, che gli sete vicino. E certo s’io avessi edificio sì atto e sì magnifico in luogo sì grato [p. 139 modifica]e sì salubre come voi, Agnolo, non so dove traducessi molta parte de’ miei dì altrove che solo ivi. Adunque a Battista, a cui diletta lo essercitarsi, non dubito piace quel che a voi. Ed era nostro pensiero essere pure con voi ovunque a voi talentassi; e questo sì per farvi compagnia, — ché a noi l’esser con voi, omo maturissimo e gravissimo, acquista reverenza e grazia, — sì ancora ci diletta essere con voi per richiedere e impetrare da voi quanto poi ieri sera ne promettesti di narrarci oggi, quello che restava circa a moderar e assettare gli animi nostri per vivere liberi e vacui d’ogni perturbazione. A questo siamo non solo oziosi, ma in prima cupidissimi d’udirvi e insieme seguitarvi. Avvianci.

Agnolo. Are’ io forse, come e’ dicono, levatomi di spalla un peso per pormelo in capo? I’ mi levai quella molestia dalle spalle di que’ che mi voleano in Palagio, e venni a voi per caricarmi d’una maggior soma. A quale vi prometto nulla mi succinsi e assettai con premeditarvi quanto io dovea. Ma di che possiamo noi ragionare più accommodato a questi tempi e a questa nostra pubblica fortuna che solo di questa una cosa per quale ne rendiamo liberi e vacui d’ogni estuazione e turbidamento d’animo? E non recuso satisfarvi quanto in me sia. E sarà el mio ragionare un quasi investigare e commentare con voi quel che giovi. Se ci abbatteremo pure a una cosa commoda e che ci attagli, sarà buona opera la nostra, già che el merore, le tristezze e gli altri crucciati dell’animo sono, come dicea Crisippo e come chi lo pruovò el sa, molto maggiori e più acerbi che que’ del corpo. E per curare el corpo quante cose s’investigorono, quante tuttora si ripruovano? Per sanificare l’animo e restituirlo a sua naturale integrità chi sarà che ne biasimi se investigheremo e accoglieremo ogni ragione di argumenti? Ma noi, — come e’ dicono, nihil dictum quin prius dictum, — che potremo noi adducere cosa non spesso udita e racconta da molti altri? Referiremo quanto verremo di cosa in cosa ricordandoci; e forse in molte qualcuna ci si acconfarà. E come alle infermità del corpo uno solo modo di curarlo basta, così alla malattia dell’animo una qualche sola curazione forse basterà. [p. 140 modifica]

Ma donde cominceremo noi? Investigheremo noi quante siano le perturbazioni dell’animo, opera né facile né picciolissima? Se, come si dice, ogni animo perturbato sente d’insania, e infinite sono le spezie della pazzia, saranno e infinite le perturbazioni. A Biante filosofo parea morboso quello animo quale appetisse le cose impossibili. Rido. E guardiamo, Niccola, ancora noi che questa nostra non sia manifesta infermità d’animo volere col nostro ingegno, a tanta opera debolissimo, trattar quello che sia impossibile pur connumerarlo.

Niccola. E’ si legge appresso de’ poeti che quel Sileno insegnò a Mida non temer la morte. Non referisco Platone e gli altri simili quali con suoi ammonimenti e ricordi giovorono a chi forse gli ascoltò. Così voi, non dubito, con tanta vostra copia, quanta ieri ne esplicasti, pari potrete giovarci e satisfarci. Né fie questa cosa a voi difficile e non atta. Vedemmo già prove maggiori del vostro ingegno, e preghiamovi e aspettiamo ne satisfacciate.

Agnolo. A che penso io testé? A tutti quando siamo vacui di merore ci duole el dolore altrui; e quando siamo oppressi da dolore, ci agrata el dolore altrui, e ne’ nostri mali pigliamo conforto da’ mali altrui. Quinci el vendicare, el punire e rendere alle offese. Donde vien questo?

Niccola. E intendiamovi, Agnolo, e dilettaci. Seguite. Voi fate come fece Dario in Asia, qual dispargea qua e là fuggendo l’oro, le gemme e le cose preziosissime per meglio suttrarsi in fuga e per arrestare e ritardare chi lo perseguia. Così voi, per distorci da quanto ci promettesti, ora interponete nuove quistioni, degne certo ma da considerarle altrove. Noi vi preghiamo; donateci questa opera. E quanto sino a qui motteggiasti, sia quasi come proemio a questa materia.

Agnolo. Così vi piace, e Dio ne aspiri. Su, convienci resummere una delle divisioni nostre d’ieri in questa materia; e diremo che le perturbazioni accorreno e insisteno ne’ nostri animi o dalla commozione de’ tempi, o dalla durezza della fortuna nostra, o da qualche sinistro caso, o da malignità e protervia degli uomini co’ quali ne abbiamo in vita, o da qualche nostro detto o fatto con poca maturità e consiglio. Questa fu nostra divisione ieri. [p. 141 modifica]Aggiugniànvi quest’altra, che alcuni sono rimedi che giovano a non più una che un’altra perturbazione. Alcuni giovano a una e non pari a un’altra nostra commozione e perversione di mente e ragione. Addurremo adunque prima a ciascun morbo que’ propri rimedi quali adattati e bene accommodati svelgano e diradichino ed espurghino da noi ogni concetto e infisso rancore. Poi accoglieremo insieme que’ tutti rimedi quali stimeremo atti a sedare ed estinguere qualunque molesto agitamento e furore fusse eccitato e commosso in le nostre menti e pensieri. E cominceremo a curare quelle contusioni e punture d’animo quali importò in noi la nostra imprudenza e temerità. Qui non bisogna preterire uno commune e grave errore di molti, quali si reputano constituti in vita quieta e tranquilla, succedendogli la fortuna e le cose grate secondo li suoi pensieri e voglie. E non s’avveggono costoro così sé essere in mezzo avvinti da veementissime oppressioni, e stimansi poi iniuriati dalla fortuna e affannati dalle avversità dove essi sono a sé stessi gravezza e molestia. Ed eccovi come a colui, omo fortunatissimo, diletta la casa, la villa, gli ornamenti; stima l’amplitudine, la dignità, el potere in sue voglie e sentenze più che altri; agradagli la moglie; gode vedersi fatto padre; gloriasi in ogni buona indole e speranza de’ suoi nati. Oh inezia degli uomini! Oh ragione mal compensata! Questi sono, o mortali, questi a voi sono e’ veneni dell’animo. Quinci insurge quello che corrumpe a’ nostri petti la vera e degna virilità; onde poi effeminati non tolleriamo noi stessi e inculpiamo la innocenza altrui de’ nostri errori. Fu el troppo amare quella e quell’altra cosa, fu el troppo ricevere a te questa e quest’altra voluttà, seme e ignicolo di tanta e sì importuna fiamma qual t’incende ad ira e a dolerti d’avere interlassato e perduto quello che tanto ti contentava.

Ad uno che volea fuggire la patria e irne in essilio, disse Socrate: «Più tosto, per mio consiglio, fuggi questa morosità dell’animo tuo, qual fa che dovunque tu sia abbi te non bene». Voglionsi adunque in prima deporre queste affezioni e adempimenti d’ogni suo diletto, qual cose son radici e capo di tante nostre ansietà e tormenti. Deporremole consigliandoci col vero [p. 142 modifica]e ubbidendo alla ragione. Queste a te mostreranno onde tu possa riconoscere le volontà e instituti di chi tu ami essere da natura volubile e inconstante; e mostrerannoti gli animi di chi ti si porge amico essere iunti a benivolenza teco solo tanto quanto fra voi durerà quel vincolo quale vi strinse ad amarvi insieme. Ché se vi collegò a tanta coniunzione qualche utilità o qualche gratissima ragione di convivervi insieme con festa e sollazzo, non voglio ti persuada avere la fortuna tra voi sempre equabile e secunda. Né dubitare, a te succederanno e’ tempi tali quali per sua usanza e natura sino a questo dì succedereno a te e agli altri mortali. E tu riconoscilo quanto d’ora in ora e’ furono vari e mutabili. Onde conoscerai che queste tue fortune, questo fiore e grazia di vostra età e forma, quando che sia, voleranno fra le cose perdute e spente.

Adunque, non preporre alle espettazioni tue tanta speranza, che tu escluda ogni ragione e consiglio per quale possi dubitare e presentire in te quello che può e suole avvenire ad altri con suo gravezza e tristezza. Eccoti padre a questi e questi figliuoli; eccoti fra’ tuoi cittadini e altrove non rari amici, molti coniunti a familiarità, innumerabili conoscenze e commerzi; eccoti ricchezze pari a un re, amplitudine, autorità, dignità, quanto si può desiderare fra’ mortali. Oh! te uomo e infelice, se forse arai ogni altra cosa, e non arai te stessi. Né pensare aver te stessi ove non possi moderarti molto più in le cose seconde che in le avverse. E non sempre, no, rimane el figliuolo erede al padre; né so se molti più furono padri e madre quali facessero essequie a’ suoi minori che non furono figliuoli quali piangessero e’ suoi maggiori. E questi nostri amici, chi affermerà che ne apportino in vita più piaceri che dispiaceri? Ben disse Valerio Marziale: Nemini feceris te nimium sodalem: amabis minus, dolebis etiam minus.

Dico, Niccola, e dico a te, Battista: Oh perniziosissima peste a’ mortali el troppo amore! Scrive Plinio che Publio Catineio Filotimo, lasciato erede in tutte le fortune di colui a cui e’ fu servo in vita e molto amato, per troppo desiderio del padrone suo si gittò in mezzo del fuoco dove s’ardea e onorava el morto. Fu cosa questa d’animo impotente e furioso. Ma quali siano e’ furori che tuttora traportino que’ miseri mortali in quali arde troppo [p. 143 modifica]amore, altrove ne disputeremo. E queste nostre speranze e contentamenti quant’elle siano certe e stabili, lascio considerarlo a chi più spera e gode che non si li conviene. Questo bene ricorderei a chi mi volesse udire, che in ogni suo accogliere suo ragione e summa in questa causa, soscrivesse insieme le durezze e maninconie qual sono aggiunte e asperse con tante sue voluttà e letizie. E chi non vede ch’ogni umano piacere, altro che quello qual sia posto in pura e semplice virtù, sempre sta pieno d’infinite suspizioni e paure e dolori, ora di non asseguire, ora di perdere quello che gli dilettava e satisfacea? Appresso di Virgilio, Eneas fuggendo da Troia suo patria incesa ed eversa col padre in collo e col figliuolo a mano, non e’ suoi armati nimici, ma e’ coniuntissimi lo perturbavano. Leggiadro poeta!, namque inquit:

et me, quem dudum non ulla iniecta movebant
tela neque adverso glomerati ex agmine Grai;
nunc omnes terrent aure, sonus excitat omnis
suspensum et pariter comitique onerique timentem.

Ma non mi estenderò in demostrarvi che ’l gaudio e lo sperare sono per sé all’animo perturbazione e morbo non meno che si sia la paura e insieme el dolore. Altrove sarà da disputarne. Basti avervi, quasi accennando, mostrato che per vivere vita quieta e tranquilla, bisogna moderarci e frenarci in ogni nostra voluttà e successo d’ogni nostra opinione ed espettazione. E se da qualche nostro o detto o fatto inconsiderato e immoderato, o da qualche passata desidia e inerzia nostra ne perturbiamo, siaci non ingrato quel pentimento per quale impariamo odiare e fuggire ogni immodestia e intemperanza. E se, come dice Catullo poeta, a ciascuno è attribuito el suo errore, ma niun vede quanto a lui sia magro el dorso, giovici qualche volta avere errato dove indi ne riconosciamo fragili e non più divini che gli altri mortali. E così indi a noi stia un certo eccitamento e stimolo a meglio meritar di nostra industria e solerzia: Me dolor et lacrimae, — dicea Properzio poeta, — merito fecere disertum. E quanti, perché fastidirono suoi brutti costumi passati, divennero ornatissimi di vita e virtù! Scrive Elio Sparziano istorico che Adriano principe, beffato [p. 144 modifica]in Senato per una orazione quale e’ pronunziò con troppa inezia, deliberò emendarsi, e datosi con assiduità e diligenza agli studi divenne ottimo oratore. E non senza ragione Peto Trasea, presso a Cornelio storico, dicea che tutte le egregie leggi e onesti essempli quali sono infra e’ buoni, nacquero da’ delitti e mancamenti de’ non buoni. Adunque si vuole non solo come dicea ....., presso a Terenzio, dalla vita altrui emendare la sua, ma in prima dal nostro proprio vivere e costumi si vuole di dì in dì prendere argumento e via a miglior stato di mente e d’animo, e succedere emendandoci e godendo in ogni nostro acquisto e accrescimento in virtù e laude.

Dicemmo delle perturbazioni quale in noi insurgono non altronde che da noi stessi. Seguita testé luogo da investigare in che modo rendiamo e’ nostri animi quieti e tranquilli se forse da iniuria e improbità d’altrui fussimo concitati e vessati. Ma prima assolveremo quanto a questa parte bisogna intendere, che non raro crediamo nulla errare ed erriamo, che ne adduciamo in perturbazione e grave molestia col nostro inconsiderato discorso di ragione e imprudenza. E simile spesso ne stimiamo offesi da altri dove siamo d’ogni nostro dispiacere autori e apparecchiatori.

Che credi tu, Niccola, che sia facile a noi mortali schifare e non ricevere a sé invidia quando ella si succenda e infiammisi da tante parti, or dalle cose quali in altrui vediamo e sentiamo, ora da cose quali in noi riconosciamo? Grave, hui! Grave perturbazione l’invidia! Ma quanto ella possi ne’ nostri animi assai ne scrisse el tuo Leonardo tragico, omo integrissimo e tuo amantissimo, Battista, in quel suo Hiensale, quale egli apparecchiò per questo vostro secondo certame coronario, instituzione ottima, utile al nome e dignità della patria, atta ad eccitare preclarissimi ingegni, accommodata a ogni culto di buoni costumi e di virtù. Oh lume de’ tempi nostri! Ornamento della lingua toscana! Quinci fioriva ogni pregio e gloria de’ nostri cittadini. Ma dubito non potrete, Battista, recitare vostre opere; tanto può l’invidia in questa nostra età fra e’ mortali e perversità. Quel che niuno può non lodare e approvare, molti studiano vituperarlo e interpellarlo. [p. 145 modifica]O cittadini miei, seguirete voi sempre essere iniuriosi a chi ben v’ami? E dovete sì certo, dovete favoreggiare a’ buoni ingegni e meglio gratificare a’ virtuosi che voi non fate. Son questi e’ frutti delle vigilie e fatiche di chi studia beneficarvi? Ma della invidia e degli incommodi quali sono in le lettere, altrove sarà da disputarne. Tu, Battista, seguita con ogni opera e diligenza esser utile a’ tuoi cittadini. Dopo noi sarà chi t’amerà, se questi t’offendono.

Per ora qui basti al nostro proposito constituire che la invidia in molti modi nuoce alle cose pubbliche e alle private: ed è un male occulto quale prima n’ha infetti e compresi che noi sentiamo le sue insidie. E nasce la invidia non tanto da quel che in altrui abbunda, quanto e da quel che in noi forse manca. E surge ancora l’invidia da quello che invero né qui manca né quivi abbunda, ma da quel che la nostra inetta opinione e immoderato appetito e libidine ne suade. E può la invidia questo ne’ petti ancora di quelli che si stimano savi e prudenti, che e’ si reputano iusti e pii dove e’ sono pure invidi, iudicano indegno di tante fortune colui quale appare sordido e troppo astretto a porgere beneficio di sé e gratitudine; e credono el suo dolore essere iusto ove a sé manchi quel che ad altri superabunda; né misurano e’ suoi commodi con quel che si richiede, né pesano le sue copie col bisogno, ma terminan queste cose non colla ragione ma sì con la volontà e collo intemperato appetito; e vogliono non quel che a bene e beato vivere loro manchi, ma sì quello che a loro pare, per qualsiasi o iusta o iniusta ragione, di volerlo; e sono queste cose volute le più volte tali che elle né gioverebbono loro avendole né nuocono non le avendo.

Così adunque ne avviene che, abbagliati dalle faci della invidia, non discerniamo in che modo questi nostri sinistri movimenti siano in noi non addutti da ragione ma commossi e impinti da perturbazione e perversità di mente. Udisti che non so chi Filippides in due dì corse da Atene persino a Lacedemonia, spazio di stadi mcxl: e Filonio, corriere d’Alessandro, mosso da Sitione, in quel dì giunse ad Elim, che furono stadi mcccv. E quel Strabo leggesti presso a Varrone che da lungi spazio incredibile vide l’armata uscire del porto di Cartagine. E dicono che Erodes fu [p. 146 modifica]cacciatore e pugnatore tale che non era da poterlo sostenere, e che egli uccise in uno solo dì fere circa xl. Vorresti e simile tu potere, e ancora a tuo posta forse vorresti come Icaro volare sopra l’acque, o come forse quella Pantasilea scorrere sopra alle somme spiche del grano. Se qui fusse la natura e proccurator delle cose apparecchiata a satisfarti in ogni tuo iusto desiderio, credo periteresti chiedergli simili cose immoderate e superchie. E se pur le chiedessi, ti risponderebbe: assai ti basta per viver lieto e contento quanto io ti diedi, e composi in te ogni loda e prestanza delle mie cose: a te el corpo formosissimo più che agli altri animali; a te e’ movimenti atti e vari più che non sapresti desiderargli; a te ogni senso acutissimo, destissimo, nettissimo; in te ingegno, ragion, memoria, pari agli iddii immortali: quest’altre cose disoneste e non accommodate a beatitudine e felicità, in che parte potranno elle farti migliore e più fermo in virtù? E non ti rendendo migliore, che potranno elle mai ben contentarti?

Avvedianci adunque del nostro errore, e non insistiamo in questa perturbazione di compensare quel che in altrui ci pare male assettato, e desiderarlo a noi ove e’ non bisogna credendoci eccitati non da invidia ma da iusto e libero sdegno. E così riconosciuto in noi che ’l nostro male vien non altronde che dalla nostra male addutta opinione, facile ne emenderemo e rassetteremoci a più quiete.

Succede ancora che non raro per esser troppo indulgenti a’ nostri errori, induciamo a noi stessi gravezza e acerbità, e duolci se altri forse non si ritiene di narrare e predicare quello che noi non ci contenemmo dire o fare con poca ragione e precipitata volontà. Se quel ch’altri referisce di te non è bello, incolpane te che a lui desti materia e istoria di così ragionarne, e inculpane chi prima errò, non chi ora dice el vero. Sentenza d’Agamenon presso di Euripide poeta tragico: tu che ardisti peccare, bisogna sostegni coll’animo non turbato molte cose ingrate. Aggiugni a questo che spesso la troppa cupidità d’essere lodato e il troppo studio di vedersi onorato e riputato, sta pieno di gravissima perturbazione. E certo bisogna qui non dimenticarci quel che e’ prudenti dicono, che il volere piacere a molti non è altro che un [p. 147 modifica]volere dispiacere a’ buoni e a’ savi. Bastici tanto acquistar fama e asseguir gloria fra el vulgo con nostre fatiche e vigilie quanto intendiamo per noi essere satisfatto a’ nostri ozii, e quanto conosciamo che chi ci loda e stima invero può affermarci iusti e temperanti e virtuosi. E de’ biasimi e favoleggiamenti qual forse venissero in nostro detrimento da’ nostri emuli, invidi e inimici, vorrebbesi potere essere di tanta maturità che noi statuissimo in noi uno animo qual più curasse essere in sé e buono e dotto che parere apresso degli altri. Dicono che all’uomo savio la coscienza sua è un grande celeberrimo teatro. Né cerca l’uom savio altri arbitri di suo vita e fatti che sé stessi. E aggiugneva Bion filosofo a queste sentenze che all’uomo perfetto in virtù era dovuto udire e’ detti altrui verso di sé iniuriosi, non con altro fronte e stomaco che se si recitasse una commedia in scena. E vorrebbesi, non niego, come e’ dicono, dall’infestazione degli inimici imparar mansuetudine per sapere poi viver lieto e iocondo co’ buoni amici. E certo quando e’ sia opera d’animo forte più el sofferire con mente equabile e non commossa e’ detti acerbi d’altrui, che con animo turbato vendicarsi, lodere’ io chi in questo frenasse sé stessi e moderassi gl’impeti e movimenti dell’animo suo. Ma poi che oggi così si vive come dicea quel poeta comico: lupo è l’uno uomo all’altro, — forse bisogna contro alle offese e sentirle e refutarle e vendicarle.

Vendetta si potrà fare niuna maiore che coll’opere buone render bugiardo chi di te mal parli. E sarà vendetta rara e massima se chi nulla vorrebbe, molto convenga lodarti, e chi molto vorrebbe, nulla possa biasimarti. Tu, voglio, scrisse Cicerone a Dolobella, coll’animo sia forte e saputo in modo che la tua moderanza e gravità infami l’iniuria altrui. E Planco a Cicerone scrive: «In questo piglio io voluttà che certo quanto più e’ mi odiano questi miei nemici, tanto maggior dolore apporta loro el non potere biasimarmi». E Socrate, offeso da que’ suoi poeti, ridea e dicea: «Voi con questi vostri motti illustriate ogni mia vita, e morsecchiandomi mostrate qual siano e’ vostri lezi, e qual sia la mia virtù. Tal porrà or mente a’ miei costumi che prima non mi curava; e tal mi amerà che mi conoscerà virtuoso, qual prima di me [p. 148 modifica]iudicava sol quello che egli udia. Io, come un scoglio a mezzo el mare, persevero sopportando le vostre onte, e sofferendo vinco, in modo che quanto più arditi mi pettoreggiate, tanto più infrangerete voi stessi, ed evvi tanto più acerbo poi el pentirvene». Così faremo e noi: colla pazienza e col soffrire la insolenza altrui vinceremo; e imiteremo Antonio oratore, qual dicono che col frenarsi e ritenersi facea che chi l’aizzava con parole immoderate parea al tutto furioso. Marco Ottavio ruppe colla tolleranza e’ furiosi impeti di Tito Gracco. E appresso di Iosefo istorico, dicea quell’Agrippa re de’ Ierosolomitani che chi è offeso e soffre, facile induce col suo soffrire a chi l’offende un vergognarsi di tanto perseverare in sua malignità. Numa re de’ Romani, abducendo e’ cittadini suoi dall’uso ed essercizio dell’arme al culto e osservanza della religione, gli rendè meno infestati e meno molestati da’ suoi finittimi e vicini, e acquistò loro amore e reverenza. E vuolsi sapere perdere qualche volta quando il vincere sia non necessario; ed è in guadagno quella perdita onde pello avvenire segue che tu men perda.

Ma se forse questi tuoi avversari e inimici cominciassero pur aversi teco con loro ingiurie e malignità troppo infesti e molesti, non sono io quello qual voglia da uno animo umano cosa alcuna non umana. Scrive Iulio Capitolino che ad alcuni quali vetavano piangere un calamitoso in sua presenza, disse Antonino Pio: «Lasciatelo essere uomo, imperoché gli affetti dell’animo non si possono con imperio togliere né con alcuna filosofia in tutto distenere». Così io non vieto che tu non senta le cose acerbe agli uomini quando e tu sia uomo. Proverbio antiquo presso de’ Greci: chi non sente le iniurie, si è più di sei volte bue. E come diceano, presso a Livio istorico, que’ Tarquini: egli è cosa pur pericolosa vivere fra’ mortali non con altro che colla sola innocenza. Conviensi alle volte mostrare che ’l tuo stomaco ha collera come quello del compagno. Un che avea l’occhio non sincero e netto, rispose a un zembo e zoppo: «Ben dicesti ch’io veggo male quando io ti stimai diritto ed equale». Così noi. E per non lasciare oltre errare ad altri, e per non cadere, come dicea Laberio poeta, che la spesso offesa pazienza diventa furore, con modo scuoteremo e distorremo da [p. 149 modifica]noi chi troppo assiduo fusse mordace e petulante, per non abbatterci poi a rompere in qualche superchio cruccio; e piacerammi provegga di non esser sempre quel cantuccio dove ogni botolo scompisci. Ma voglio in questo servi modestia; e quel detto di Senofonte, qual dicea che del vincere molto mai fu da pentirsi, voglio interpetri in migliore parte che tu forse non stimi. Assai molto vince e’ suoi malivoli chi nulla perde; e perderesti a te stessi ove tu te precipitassi ad immatura alcuna ira e cruccio. Non cedere all’iracundia, ma serbati a qualche attemperata e adattata occasione e stagione di satisfarti, dove tu in tempo possi spiegare le tue copie e forze. Intanto quasi come in insidie contieni, qual fece Socrate appresso di Platone in quel Gorgias morso di parole contumeliose da ....., non rispose allora, ma dopo molto ragionare, ove accadde gli rendè suo merito e con bel modo gli rimproverò ch’egli era temulento, e disse: «Tu che farai quando sarai vecchio, se ora giovane non ti ricordi di qui quivi?». Simile noi, dove bisogni non altro che parole, gioverà per una volta sfogarsi, versarvi quanto vorremo ogni impeto, qual fece Tullio in Vatinium testem. E poi, spenta quella vampa e evaporato l’incendio, sarà da rivocarsi e raccogliersi. E dove forse bisogni altro che parole, Niccola, le ingiurie sono mala cosa; ma non conviensi stizza e subitezza, ma consiglio e maturità. Col tardo consiglio si fanno e’ fatti presto. L’ira si è nimica d’ogni consiglio, però che l’ira è una breve insania; né condicesi l’insania col consigliarsi. E fie quella via brevissima a satisfarti qual sia sicura.

Que’ buoni Sabini, spogliati con fraude da’ Romani, per vendicare la ingiuria acerbissima ricevuta in loro moglie e figliuole, nulla con furore, nulla con ostentazione, ma con ragione e modo si preparorono; onde in tempo ruppono con tanto impeto d’animo e d’arme che chi gli offese gli conobbe uomini e virili e indegni di tanta ingiuria e contumelia. Così noi non precipiteremo le nostre faccende, ma comporremole e porgeremole a miglior fine. E se il tempo e occasione non ci si presta come forse desideriamo, non però faremo come Iunone dea presso a Virgilio poeta, quale offesa serbava eternum sub pectore vulnus; ma faremo secondo che ammoniva Fenix quel buon vecchio presso di Omero, qual [p. 150 modifica]dicea ad Achille: «Doma questo tuo animo sbardellato, quando gli dii, quali certo ti superano di virtù e dignità, sono flessibili». Domeremo noi stessi, fletteremo più a facilità e indulgenza che a severità e austerità. E forse non rarissimo gioverà fare come fece Agrippina, quale, avvedutasi in quella nave del suo pericolo sotto le macchine tese da Nerone per opprimerla e sfracellarla, iudicò utile e solo rimedio de’ suoi mali el mostrare di non le conoscere e dimenticarle. Ultimo e ottime fine di qualunque ingiuria sempre fu el dimenticarla. E quando pure el conceputo sdegno ne contamini in modo che a nulla ci sia lecito el dimenticarlo, almeno lo asconderemo o dissimuleremo. Presso a Curzio istorico, quello Eustemon, uno de’ iiij M. presi e stagliuzzati da’ Persi, quando e’ si consigliavano insieme se dovessero ritornare in Grecia così deformati, senza naso, senza occhi e senza mani, dicea: «Coloro sopportano bene le sue miserie quali le ascondono; agli afflitti la patria è solitudine; niuno ama chi e’ fastidia; e la calamità si è querula, e la felicità è superba. Ciascuno si consiglia colla fortuna sua quando e’ delibera della fortuna altrui. Se noi non fussimo insieme così a un modo miseri, l’uno sarebbe fastidio all’altro. Che maraviglia se e’ fortunati cercano e’ pari a sé fortunati». Parole degne di memoria; però le raccontai.

Ma quanto a noi bisogni, così faremo: consiglierenci colla nostra fortuna, e in le calamità saremo non queruli, e in le buone speranze del vendicarci saremo non rigidi né superbi. E intanto asconderemo e’ nostri mali aspettando qualche accommodata occasione e luogo di satisfarci. E faremo come presso a Silio poeta fece Annibal, udita la morte del fratello, quale:

compescit lacrimas... vincitque ferendo
constanter mala, et inferias in tempore longo'
missurum fratri, clauso immurmurat ore.

E se pur ti duole né puoi sofferire te stessi, e forse te conosci tale quale conoscea Tibullo poeta sé, ove e’ dicea:

Non ego firmus in hoc, non haec patientia nostro
ingenio, frangit fortia corda dolor, [p. 151 modifica]

farai come presso d’Omero fece Ulisses, quando quel citarista cantava in cena cose a lui forse iniocunde, che si coperse el capo e lacrimò; poi, finito el cantare, si discoperse e mostrossi lieto bevendo a grazia degli dii. Così noi cederemo alla nostra imbecillità quanto potremo occulto e coperto. Ma che cerchiamo noi in questi nostri ricordi? Onde possiamo noi accogliere altronde erudizione accommodatissima che da Omero, poeta certo divino, qual sì atto e con tanta grazia esplicò quello si debba in vita dove esso scrive in qual modo e con quanta ragione Ulisses tradusse e’ casi suoi? Vide Ulisses costumi di molti uomini, e vide le consuetudine di molte città; scorse lontani paesi, e sofferse varie e dure e molte fatiche in vita, fra l’arme, in mezzo l’onde e tempesta del mare, con tanto e sì intero consiglio che egli acquistò indi nome e immortale fama; e pertanto affermano che fu uno sopra tutti gli altri prudentissimo ed essercitatissimo. Riconosciamo adunque gli andamenti suoi per meglio sapere in tempo seguire e’ suoi vestigi bisognando.

Doppo a tanti suoi naufragi Ulisses, tornato alle gente sue sconosciuto e mal vestito, vide la casa sua fatta quasi come una taverna pubblica, piena di gente lasciva e immodesta qual dissipava e consumava ogni sua domestica entrata. Addolorò, e deliberò vendicarsi; ma intanto si contenne e seco disse: o cuore che altrove già tempo obdurasti nei tuoi mali, sostieni. Fu chi diede a Ulisses un calcio, e Ulisses quieto e muto, e per più dissimulare, simile a un gaglioffo porgendo la mano pregò a uno a uno chiunche ivi era in sala; in qual sala forse più volte avea ricevuto e onorato e’ principi di Grecia. Ancora di nuovo percosso con uno deschetto, e lui pur quieto e saldo, niuna parola, niuno atto, se non quasi come fusse un sasso; nulla più che un poco mosse el capo. Vollono que’ temerari pacchiatori che facesse a’ pugni con quello Irone, omo abiettissimo, qual volea cacciar Ulisses di casa; e lui nulla ricusò, e pugnando non volle quel che e’ potea; ma per non impedire quello dove e’ tendeva a maggior fatti, gli diede un pugno de’ suoi lieve. Ancora di nuovo Ethisippus gittò uno stinco di bue per ferire Ulisses nel capo, e Ulisses, quieto, solo acclinò el capo. Oh pazienza in uno uomo incredibile, fermezza inaudita e [p. 152 modifica]rarissima! Oh essemplo degno di memoria fra e’ mortali! In casa sua da gente insolentissima e perfino da’ gaglioffi mal ricevuto, svilito, percosso, ributtato, e lui né in parole né in gesti mai scoprirsi. Tutte le ubriachezze degli altri sofferse, con tutti dissimulò el suo sdegno, a tutti si diede giuoco e strazio, a ogni altrui iniuria tacito e paziente, perché così bisognava al suo instituto. Lui solo: quella brigata e molta e bestiale. Lui non atto per ancora a vendicarsi: coloro presti e pronti a superchiarlo d’iniurie. Lui né discoprirsi sanza estremo suo pericolo né partirsi sanza intollerabile tristezza e acerbità d’animo: loro e ivi lieti e pieni di vino, e altrove molti e pertanto quasi insuperabili. Adunque deliberò soffrire e dissimulando aspettare se il tempo o la stultizia di chi l’offese aportasse occasione e luogo alcuno di rimeritarli e vendicarsi. Solo a quella Melancum, fanticella di Penolopes, quale infestava Ulisses con parole femminili e proterve, si rivolse col piglio grave e collo sguardo sì terribile ch’ella impaurì. Prudentissimo Ulisses non volle quella molestia quale e’ potea deporre sanza interturbare suo incetto. Fece come amonia Plutarco, che non si vuole ultro et sponte offerirsi alle molestie e maninconie non bisognando. Ma dove così attagli, fie nostro officio non recusare occasione alcuna per quale ne adopriamo in virtù. Così adunque fece Ulisses. Ultimo, quando fu tempo, quella brigata inzuppata di vino, stracchi del ridere, lassi dalla sazietà e pienezza; e Ulisses pronto e sobbrio coll’arco in mano prima tenta le cocche, rivede la corda e ogni suo nervo, prepara e sé e sue saette a quel che avvenne. Nulla volle preterire onde potesse per sua negligenza o precipitata voglia di vendicarsi avvenire che e’ forse meno si satisfacesse in tanta impresa. Indi vedi con quanta virilità e’ rende opera a chi da lui meritava male.

Simile faremo e noi. Se forse al tutto deliberiamo satisfare a’ nostri sdegni, provederemo col maturo consiglio quel che bisogni, aspetteremo con sofferenza quel che attagli, useremo non stizza, non subitezza, ma virilità e fermezza d’animo dove e quando così ci si presti luogo e tempo a satisfarci; e in ogni nostro discurso escluderemo ogni fretta e ardore di volontà. Mai venne tardi quel frutto qual venne in tempo; e persino alle pine, frutto durissimo e [p. 153 modifica]tardissimo, hanno suo tempo e maturità. E piacciati bene sperare delle voglie tue quando elle sono giuste. Favoreggiano e’ cieli alle iuste imprese. In questo mezzo seda te stessi, e non aggiugnere al tuo dolore nuovo stimolo e cruccio; ma ripensa una e un’altra volta quanto e’ sia necessario teco statuire tanta impresa. Ciò che tu potevi restare e ricusare di fare, questo fu non necessario. Ma tu forse stimi questa offesa, e misurila col viver tuo, e pesila co’ tuoi costumi. Oh cosa dolce el viver nostro, se tutti e’ mortali fossero e buoni e simili a te! Ma forse tu argumenti così: questo mai feci io, né questo fare’ io. Non torresti el suo capro a Dameta, né Dameta torrebbe el bracco ad Atteone, né Atteone torrebbe a Platone que’ libri pittagorici tanto pregiati. Trahit sua quemque voluptas. E molto più la necessità, e non meno la natura e consuetudine del vivere alletta e tira e’ nostri animi a vari costumi e vita. Ma non ci stendiamo. Vuolsi tanto diminuire alla ricevuta offesa quanto a chi offese s’aggiunse o ragione o condizione di così farti e così trattarti. Era Codro povero; però tolse a Crasso. Era M. Celio formosissimo; però accedette a quegli amori di quella Clodia. E simile, in questo comparare e accogliere tutti e’ calculi, forse t’occorrerà che l’offesa ti si presenterà maggiore fatta in quel tempo, fatta in quel luogo, fatta da costui quale tu amavi e di dì in dì obligavi ad amarti con assiduo beneficio e grazia. Non insistere quivi, però che ogni tempo è alieno, e in ogni luogo è indegno d’usarvi iniustizia. E se cosa niuna, come si dice, a noi sta acerba se non quanto la stimiamo, né stanno e’ tuoi incommodi posti nella stultizia altrui, ma seggono in la tua opinione, a lui qual fu incontinente e immoderato se ne aggradi el biasimo non a te s’aggravi el dolore. E scopertasi occasione di vendicarti, qual sarà maggiore vendetta che adducerlo a pentersi d’avere offeso chi e’ non dovea? Questa vendetta fie più facile essequirla col beneficare chi t’è iniquo che col superchiarlo d’offese. E sarà beneficio gratissimo e laude prestantissima donar questa nuova grazia alla amicizia antiqua; e sarà officio d’animo degno d’imperio con questo rarissimo beneficio fundare nuova benevolenza. Ma qualunque siano e’ tuoi pensieri, tanto ti rammento che in ogni tuo deliberare e statuire tua impresa, mai acceda dove [p. 154 modifica]la perturbazione t’alletta; ma come chi navica, se ’l vento preme questa banda, tu in quell’altra osta e offirmati. Non favoreggiar sempre alla causa tua, ma confirma teco ogni ragione e scusa di chi ti spiacque. Così seguiranno tuo corsi in vita, sopra e’ flutti e tempesta del vivere, equabili e sicurissimi.

Dicemmo de’ dispiaceri quali in noi occorsero da noi stessi, e dicemmo de’ dispetti e iniurie ricevute dagli altri uomini. Ora investigheremo ragioni e modo di sedarci e acquietarci dalle perturbazioni commosse in noi da’ tempi communi, da’ casi e fortune nostre. Ma qui prima interporrò quanto mi si porge a mente che noi non rarissimo in nostre molestie e affanni incolpiamo forse e questo e quell’altro uomo di cose quali in prima surgono d’altronde che da chi noi le riputiamo. Et tu, dicea Valerio Marziale,

sub principe duro,
temporibusque malis ausus es esse bonus.

E quale imperitissimo non conosce quanto possano e’ tempi e ragion pubblice negli animi de’ privati cittadini? Quinci avviene forse che tu truovi costumi perversissimi e modi di vivere pieni di fizione e falsità. Pènsavi tu se mai fusti in terra alcuna ove quanti vi siano uomini, tante vi siano trappole, quante vi s’usano parole, tante vi siano bugie e periuri. E conviensi fra simili uomini pendere col viver pubblico. E che la fortuna possa in noi mortali, o Niccola, che in noi mortali possa la fortuna, tu, o Battista, riconosci. Riconosci e’ tempi nostri, quanti buoni vivono vita misera e non degna alle loro virtù. E contro, mira che monstri e quanto inauditi e incredibili crebbero nelle cose della fortuna; che dicea Iuvenale satiro poeta:

Si Fortuna volet, fies de rhetore consul;
si volet haec eadern, fies de consule rhetor.

E se così è che non pochissimo in noi possino e’ cieli, fia nostra opera fare come chi giuoca: se gli avviene buono, vinca; se forse caddero sinistri partiti, moderigli con qual vi si adatti ragion migliore. E certo conviensi, secondo quell’ottimo proverbio [p. 155 modifica]antiquo, vivere oggi come si vive oggi. Dicono che ben consigliarsi e ben mantenersi son cose felicissime in vita. Sì; ma chi stimasse ben consigliato colui qual con dolersi de’ suoi casi e fortune pur non volesse quel che a lui è necessità sofferire? Dicea Tales Milesio che la necessità vince. E qual si truova cosa che adduca necessità pari a’ cieli? Onde ben disse Mannilio poeta:

Heu nihil invitis fas quemquam fidere divis.

E che così sia, vedi a Vergilio quel Laocon sacerdote, qual curando la salute della patria sua percosse col dardo quella macchina di quel cavallo di legno sacrato a ⟨Pallade⟩ e pregno d’armati. Erano e’ tempi fatali in eccidio di Troia, e però non gli fu creduto. Non vorrei errare adducendo da’ cieli in tutte le cose de’ mortali necessità inevitabile, e quel ch’io al tutto niego essere. Forse come e’ medici allo infermo danno per giovargli quel che nocerebbe a’ sani, e quel che e’ vietano in altri, come incanti e filaterie, aggiungono a sé quando e’ duole loro; così e noi, in nostre perturbazioni e mala fermezza d’animo, non senza qualche utilità ascolteremo chi forse disse che ciò che ora è, mai potrà non essere stato, e ciò che avvenne, qualche himarmones e fatal condizione e cagione fu, onde e’ non potea non avvenire. E poi che quella e quell’altra cosa accrebbe, ella durerà non più nulla se non solo quanto in lei potranno que’ suoi cieli e fati quali sono volubili e instabili. Adunque saranno le cose né sempre in uno essere né continuo in una quadra. Dicea Properzio:

Tempora vertuntur; certe vertuntur amores.
Et deus, et durus vertitur ipse dies.

Qual volubilità vediamo pari in le cose pubbliche come nelle private. Non fu sempre la fortuna pubblica de’ Romani seconda e vittoriosa: trovorono Annibale quale in molta parte gli domò e distrinse. Né fu sempre la fortuna propizia ad Annibale contro e’ Romani: abbattèssi a Marcello, qual mostrò ch’e’ cartaginesi esserciti si poteano vincere. Adunque facciamo colla fortuna come scrive Laerzio Diogene che facea quel Demofon in mensis [p. 156 modifica]prefetto d’Alessandro Macedone, quale al sole abrigidava e in umbra sudava. Quando e’ tempi e successi delle cose appaiono gravi, si vuole opporvi consiglio e prudenza in evitare gl’impeti avversi; e dove forse le cose sinistre ti si presentano inevitabili, bisogna opporvi fortezza d’animo e pararsi a sofferirli, e non fare come alcuni enervati quali alla prima ombra avversa caggiono in tristezza e addolorati languiscono e giaciono perduti. In quel numero furono da biasimare que’ Gallogreci racconti da Iustino, quali perché in loro sacrifici vedeano segni di fortuna prossima non lieta, timidi non cadere alle mani de’ loro inimici, uccisero suo madri e suoi figliuoli, e perderono ogni sua cosa, e arsero casa e suoi beni e sé. Furore immanissimo, per dubbio di male farsi male. Molte cose accennano da’ suoi principi esser dure e dannose, qual poi riescono contro a ogni tua opinione a fine buono e commodo. Piacemi di quei tuoi cento apologi, Battista, a questo proposito, quello Lxxxviii, quando e’ laghi credeano ch’e’ nuvoli fussero montagne per aria e pendessero sopra loro in capo tuttora per cadere, e per questo e’ laghi eran divenuti pallidi, squallidi, e tremavano; poi quando videro che que’ nuvoli si colliquifaceano in pioggia e acqua, tutti si sullevorono e grilleggiorono di letizia. E come dicea colui in Eunuco presso a Terenzio, qualche volta el male suole essere cagione di molto bene. E intervenne a non rarissimi che chi volea loro fare male, gli fece bene. Qual caso avvenne a molti altri, e fra loro a quel Fedro Iasone, quale da’ suoi nimici ricevette una ferita in luogo che per quella tagliatura e’ guarì da morbo prima non sanabile per cura de’ medici.

Adunque a’ nostri preveduti mali opporremo consiglio e ragione ad evitarli e a prepararci a bene soffrirli. E in prima sarà utile preparare a se stessi buona espettazione delle cose che hanno a venire, ché quando bene avvenisse la cosa in male, almeno in quel mezzo viverai sanza quella sollicitudine e ansietà d’animo. Così quando appaiono e’ tempi lieti, interpognianci qualche suspizione di cose avverse quasi come temperamento di tanta letizia. E se alle tue iuste e lodate imprese ti si attraversa qualche sinistro intoppo, non abbandonare te stessi: fa come disse la Sibilla ad Enea: [p. 157 modifica]

Tu ne cede malis, sed contra audentior ito,
quam tua te fortuna sinet. Via prima salutis,
quod minime credis, Graia pandetur ab urbe.

Dicono che nulla si truova fidissimo renditore quanto la terra. Ella ciò che tu gli accomandasti rende, secondo el precetto di Esiodo, non a pari ma a maggior misura. Ancora più troverai fedele la industria e vigilanza tua, presertim quella qual tu porrai a cose oneste e degne, quando in queste e’ cieli e ogni fato si adopera in satisfare a’ tuoi meriti. Mai fu la virtù senza premio di lode e grazia. E gustate, priegovi, questo argumento: le cose di quaggiù sono rette o da noi uomini o da altri che noi mortali. S’altri le regge che noi, lasciànne la cura a chi già tanto numero d’anni le resse e con ragione e bene. Ma se forse, come tu scrivi in una delle tue iocundissime intercenali, Battista, la fortuna di noi mortali non viene dal cielo ma nasce dalla stultizia degli uomini, ricevianle fatte come dagli uomini simili a te, proclivi e dati a ogni passione d’animo e inconstanza. Qual tua sentenza mi diletta, e confermola; già che se Cesare non avesse tratto Ottaviano in tanta amplitudine, e que’ suoi commilitoni non si fussero sottomessi a Cesare, sarebbe né questo né quello stati principi e ministri di tanto imperio. Anzi l’uno forse sarebbe stato simile al padre argentiero, e l’altro forse causidico. Adunque, se le cose di noi uomini conseguono contro a nostra voluntà, elle succedono secondo el volere di chi così le guida. E certo sarebbe intollerabile arroganza la mia, se io pur volessi ch’ogni cosa isse a mio arbitrio, e nulla uscisse del mio disegno e proponimento. Tante nostre volontà adempiemmo altrove; ora lasciamo che altri ancora in qualcuna sua voglia si contenti.

Ma poi che giugnemmo a questo religiosissimo tempio, entriamo a salutare el nome e figura di Dio. E, quel che sopra tutti e’ documenti e ammonimenti de’ prudentissimi scrittori giova, preghianlo che e’ non ci adduca dura alcuna condizione di vivere, e prestici buona sanità di mente e buon consiglio e intera fermezza a nostre membra, e concedaci animo virile e constante a sostenere e soffrire ogni impeto e gravezza delle cose avverse.