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atto primo 121
quanto mal chiuso fiele entro a’ tuoi detti

aspri traluce!... Ah! venga, ei venga in Tebe,
tra le mie braccia; e quí deponga ei l’armi. —
Ad impetrar pace dai Numi, o figlia,
al tempio intanto andiamo... Ei di me chiede?
Figlio amato! gran tempo è ch’io nol vidi!...
Forse in me sola, e nel materno immenso
imparzíal mio amore egli ha riposto,
piú che ne’ suoi guerrieri, ogni sua speme.
Mi è figlio al fine; ei t’è fratello: io sola
arbitra son fra voi. Quale ei ritorni,
prego, dona all’oblio per brevi istanti;
rammenta sol, quale ei n’uscia di Tebe;
quanti anni andò per tutta Grecia errante,
contro tua data fede: in lui ravvisa
un infelice, un prence, un fratel tuo.


SCENA QUARTA

Eteocle, Creonte.

Eteoc. Con minacce avvilirmi, e a me far forza,

quel Polinice temerario spera? —
Vedi ardire! in mia reggia ei solo adunque
verrá, quasi in mio scherno? E che? fors’egli,
sol col mostrarsi, or di aver vinto estima?
Creon. Tutto previdi io giá, dal dí che venne
di Polinice a nome il baldanzoso
Tidéo, chiedendo il pattúito regno.
L’aspre minacce, i dispettosi modi,
che alla richiesta univa, assai mi fero
di Polinice il rio pensier palese.
Pretesti ei mendicava, onde rapirti
per sempre il comun trono. Or, chiaro il vedi,
il vuol, per non piú renderlo giammai:
e ad ogni costo il vuole; anco dovesse