per se l’ingresso, e non per altri, in Tebe:
la madre noma, e di abbracciarla ei mostra
impazíente brama.
Eteoc. Oh! nuova brama!...
Col ferro in man, chiede i materni amplessi?
Gioc. Ma tu, Creonte, di depor quell’armi
non gl’imponevi? I sensi miei piú interni
noti a te sono; il sai, s’io pur la vista
soffrir potrei, non che abbracciare un figlio,
che minacciar col brando osa il fratello.
Creon. Sono le sue parole tutte pace;
né i prodi suoi con militar licenza
scorron pe’ nostri campi: arco non s’ode
suonar finora di scoccato strale;
ed ogni argivo acciar digiuno ancora
del teban sangue sta. Posan sul brando
le immobili lor destre; ogni guerriero
da Polinice pende; e alzarsi udresti
dal campo un misto mormorío, che grida
«pace ai Tebani, e a Tebe.»
Eteoc. Orrevol pace
questa a voi fia, per certo. A me soltanto,
dunque a me sol reca il german la guerra?
Sta ben: l’accetto io solo.
Antig. Ma, s’ei parla
di pace pure?... Udiamlo pria...
Gioc. Solo entri
in Tebe; udire il vo’; né tu vietarlo
a me il potrai.
Creon. Pur ch’ei l’inganno in Tebe
con se non porti.
Antig. Ah! nol conobbe ei mai.
Eteoc. Certo, il sai tu. — Parmi, che a te sian noti
gl’intimi sensi suoi; simíli forse
siete fra voi...
Gioc. Figlio, (ahi me lassa!) oh quanto,