Poesie friulane/Prefazione

Bindo Chiurlo

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Poesie friulane Invid
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PREFAZIONE

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I.

V’è in questa raccolta di versi, che si presenta anche nella veste tipografica con riservato buon gusto, qualche cosa di ben friulano: varietà composta di ispirazioni, che li mostrano l’uomo non unicorde: misura tra la passione e il ragionamento: giusto temperamento, nelle idee e nelle forme, d’ossequio alla tradizione e di innovazioni personali: spiriti sodamente regionali e, insieme, [p. viii modifica]soffi d’altre letterature. V’è insomma in questo libretto un equilibrio di qualità diverse che richiama rispetto al suo autore: il quale, su di un fondo spirituale simpaticamente popolano, ha severità di gusto aristocratiche. Nato di lavoratori in tempi rigorosi, chiese la vita a un lavoro lontano dall’arte: ma per sè studiò, con intimità e senza dispersioni, più letterature, e particolarmente la francese antica e moderna: attento più alla qualità che alla voga, più a gustare a fondo che in largo da giornalista. E quando sali, in Castello, al suo ufficio, dove bilancia i conti del Comune di Udine, egli smette così naturalmente le pratiche, per darsi a sottili disamine di suoni e di valori stilistici, che dimentichi le cartacce sparse sui tavoli e guardi giù istintivamente il bel manto della pianura friulana: e pochi come lui sanno passare da una decisione di saldo buon senso — di quel buon senso tipico a questa pacata gente friulana, che fu detta, con qualche ingiustizia, “un popolo di ragionieri„ [p. ix modifica]— a palpare, direi quasi sensualmente, una buona vecchia edizione degli Aldi, o del Bodoni, o del Bettoni, o anche di quei nostri valenti tipografi friulani d’un secolo fa, e lodarne, breve, le virtù della caria manosa, dei grandi margini, dei caratteri “perfetti„. Ti dirà allora qualche parola sulla sua biblioteca, messa insieme senza manie di collezionista ma con lungo amore, che i tedeschi gli hanno spazzato: ma sarà ricordo fuggevole e velato di composta malinconia, come in una villotta. Perchè quest’uomo, come il suo libro, è temprato con misura, e, direi, nella sua modestia, “quadrato„: per usare una parola, che gli esce spesso di bocca, accompagnata da un buon gesto di popolo, ad esprimere una fra le virtù meno volgari e vulgate: il sodo equilibrio del giudizio.

E proprio questo equilibrio gli ha fatto lasciare la critica e la narrazione per la poesia, e la poesia italiana per la friulana: restringere il campo cioè, dove si tratti di produrre, a quello che [p. x modifica]possiede direttamente, e, quindi, sente di più: perchè, poi, in arte, l’ampiezza non ha significato, e una ispirata lirica dialettale vale più che mille mediocri liriche in lingua.

II.

Per ciò non farà meraviglia che in queste poesie due tendenze finiscano insieme e talora si fondano: in una schiettamente popolare e friulana, che muove della nostra villotta mirabile di semplicità commossa e di brevità densa: l’altra più dotta e complessa, che sembra provenir soprattutto dalla recente letteratura francese e com’essa si vigila e si effonde.... Disperata cosa il contemperarle in altro dialetto che non sia questo nostro, così ricco di intima serietà, di spirito riflessivo, che anche in rozza bocca nulla perde della sua accorata pensosità: onde sino a ieri fu detto “lingua„ non tanto per ignoranza del preciso [p. xi modifica]significato della parola, quanto perchè i nostri vecchi sentivano in esso quel sigillo spirituale, quell’esperienza di sensi intimi e maturi, che proviene alle lingue dal lungo e diverso uso letterario. Così s’è potuto compiere il miracolo di questa poesia su l’albe, ch’è un poème di scuola simbolista reso perfettamente in friulano: in ischietto efficace friulano, che non stride per nulla al concetto: e se la poesia, in sè, non è un capolavoro, ciò non dipende dall’essere scritta in friulano, ma dall’essere, codesto, genere più d’arte che di passione.

Ma, anche e pur troppo, il friulano, ricco di tali capacità intime, è poverissimo di vocaboli di colto significato: gli italianismi, anche sintattici, vi stridono maledettamente, e la onesta testura della nostra parlata — formatasi solitaria qui, fra i larghi torrenti ghiaiosi dalle paurose piene, quando il Friuli era davvero l’estremo lembo d’Italia, incuneato, lungi dal cuore della nazione, fra il mare e l’alpe tedesca — resta sempre [p. xii modifica]come un edificio di buono stile che non sopporta intrusioni d’altra scuola.

Così il Carletti e quanti con lui (primo, intorno al 1880, Pietro Bonini) vollero uscire fra noi dal contenuto puramente popolaresco a più alte mire d’espressione, ebbero ed hanno a lottare con difficoltà gravissime di lessico: e non in tutto possono quindi dirsi riuscite le poesie che mirano a ciò: molte delle quali restano soltanto nobilissimi tentativi che contribuiranno a trarre il friulano verso più larghe possibilità.

Pure in queste nostre, accanto a componimenti di forme e d’imagini troppo colte (e talora le forme troppo colte sono dovute alla cerebralità della concezione, come in A l’òpare e in parte in Matine di cresime), altri ve nè in cui la fusione fra le due tendenze è completa, o quasi, come ne L’Ave, nella finale del Barcarùl, in quella di A Nusse, in qualche tratto di La gnòt di Nadàl, nel principio di Fumate: [p. xiii modifica]


A chèst’òre di sère, Nusse, pai prâds de basse
còme un flâd inglazzâd ’e dà sù la fumate.
Cuàlchi pùar, intardâd, si fèrme sul stradòn
tal scur, e al cuche in pònte di pîds, par un balcòn,
un bièl fug di polènte. Pò al tire la pistagne
su la muse, e al sparìs, cloteànd, pe campagne.
Jò istès. Une fumate ògni sère sòt gnòt
m’invólz e mi travane fin sul uès, gòt a gòt,
e, imbramîd e piardûd te nulate inglazzade,
’o passi còme un çhan di contrade in contrade....

o come nella Gnòt di vint, sino a quell’ultimo verso pieno di soffi viventi:


Di fra i sgardùfs, cujète, in chèste gnòl di vint.

III.

Ma dove il Carletti ha rinunziato a tentare la dura e onorevole prova, nelle Vilòtis di guère e in molti Morosèz e matèz, dove ha stretto più da vicino la musa popolare o i temi tradizionali alla letteratura dialettale, ha toccato spesso non questa o quella ispirazione ma l’ispirazione [p. xiv modifica]senz’altro: e chi sa che sia ispirazione, s’accontenterebbe pure che l’avesse toccata anche una volta.

Poichè qui il poeta non è il solito scrittore popolareggiante che si abbandona all’imitazione del popolo seguendolo nelle forme esteriori, che portano spesso alla povertà e alla faciloneria: egli se ne lascia prendere, ma pieno del suo spirito ricco, infondendo le forme o il tèma popolaresco delle sue conscie sensibilità. Così abbiamo, ad esempio, in Morosèz e matèz, quella indiavolata, e pur triste, Di grinte, dove una qualche stilizzazione non guasta sensibilmente la verace ispirazione: ma soprattutto quelle mirabili quartine Sòt la nape, nelle quali il quadrello di genere di colorito schiettamente locale è infuso di una così intima e larga verità umana.

Così Vilòtis di guère sono certo, nella loro esteriore umiltà, fra le migliori poesie ispirate alla grande guerra: grande, e pur così rimpicciolita nei versi dei poetucoli di progetto. Ma quelle [p. xv modifica]villotte — non proprio poesie di guerra, ma commosse notazioni in margine al gran libro della guerra — hanno accenti definitivi, perchè ispirate ad un tempo alle più immanenti tendenze del popolo nostro e a fatti largamente umani sentiti con vivace passione personale. Talora il poeta tocca qui a quella verità universale, che lo rende la voce di tutti noi che abbiamo dolorato e sofferto: voce elementare, ridotta alla pura nota umana ed eterna, come in Autùm, 27 di otùbar e Tornànd, dove è la guerra sentita dal cuore della campagna friulana alla vigilia di Caporetto, l’esodo doloroso dinanzi al nemico, l’accorato ritorno, fermati in poche note indimenticabili:


          Vin siarâd la néstre puàrte
          vin dâd jù bèn il saltèl,
          e si sin mitûds par strade,
          cui frutins a brazzecuèl.
          .   .   .   .   .   .   .   
          Fortunâds i muàrts sotiàre
          che àn finîd la lór stagiòn,
          che àn siarâd i vói ad òre
          e no san chèste passiòn!....

[p. xvi modifica]oppure al ritorno:


          Duçh i muàrts e sospiravin:
          “séso cà, làude al Signór!„
          Jò vajivi e no savèvi
          distacami plui di lór.

Noi friulani, cui la quartina ottonaria della villolta è “breve e amplissimo carme„, sentiamo — al di là del modesto schema metrico, che ha sopportato persino le chitarronate di “Bella Italia, amate sponde„ — in questi versi conchiusi, quel particolare sigillo di stile e d’intimo ritmo, che condensa nelle migliori nostre villolte popolari un poema di contenuto dolore.

Bindo Chiurlo.