Piccolo mondo antico/Parte prima/La lettera del Carlin
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CAPITOLO IV.
La lettera del Carlin.
Franco discese il monte adagio adagio, tutto chiuso nel suo mondo interiore così pieno di cose, di pensieri, di sentimenti nuovi, fermandosi ogni tratto a guardar la strada biancastra e i campicelli scuri, a toccar le foglie d’una vite o i sassi d’un muricciuolo per sentire la realtà del mondo esterno, persuadersi che non sognava. Solamente a Casarico, nella contrada dei Mal’ari, davanti alla porticina della villetta Gilardoni, si ricordò delle parole oscure di mamma Teresa circa la confidenza fattale dal Gilardoni e si domandò quale potesse mai essere l’arcano che non conveniva rivelare a Luisa. A dir il vero questo consiglio della mamma non gli era piaciuto interamente. «Come mai» pensò bussando all’uscio «nasconderei qualche cosa a mia moglie?»
Il professore Beniamino Gilardoni, figlio del «Carlin de Dàas» era stato fatto studiare dal vecchio don Franco Maironi, dal marito della marchesa Orsola, uomo bizzarro, lunatico, violento, ma generoso. Quando il Carlin morì si vide che la generosità del Maironi non sarebbe stata necessaria. Beniamino ereditò un discreto gruzzoletto e ciò fece andare in bestia don Franco che lo tenne responsabile dell’ipocrisia paterna, gli voltò le spalle nè volle più saperne di lui nel poco tempo che visse ancora dopo la morte del suo agente. Il giovane entrò nell’insegnamento, fu professore di latino nel ginnasio di Cremona e di filosofia nel liceo di Udine. Cagionevole di salute e timoroso assai del male fisico, alquanto misantropo, piantò nel 1842 la cattedra e venne a godersi la modesta eredità paterna in Valsolda. Il natio paesello di Dasio, seduto sotto le roccie dolomitiche dell’Arabione, era troppo alto e troppo incomodo per lui. Vendette i suoi beni di lassù, si comperò l’uliveto del Sedorgg sopra Casarico e una villetta in Casarico stesso, sulla riva del lago; un gingillo di villetta ch'egli chiamava per la sua forma «pi greco» a immagine del digamma di Ugo Foscolo. Dalla contrada dei Mal’ari un andito breve metteva nel cortiletto addossato a un portico minuscolo e aperto verso il lago, fra grandi oleandri, di fronte a sei miglia d’acqua verde o grigia o azzurra, secondo i momenti, fino al monte S. Salvatore inclinato là in fondo, sotto il peso della sua gobba malinconica, ai sottoposti colli umidi di Carona. A levante della casina si stendeva un orto favolosamente spazioso per quei paesi le cui pianure l’ingegnere Ribera soleva definire con questa citazione censuaria: campo grande, detto il campone, tavol sett. Sette tavole son venti o ventidue metri quadrati. Il professore lo coltivava con l’aiuto del suo servitorello Giuseppe, detto il Pinella, e d’una bibliotechina di trattati francesi. Si faceva venire di Francia i semi delle qualità d’ortaggi più celebrate, che talvolta gli spuntavano ignobilmente diversi dalla loro fede di battesimo e magari da qualunque onesta famiglia battezzata. Accadeva allora che filosofo e famiglio, curvi sull’aiuola con le mani alle ginocchia, levassero gli occhi dai germogli beffardi per guardarsi in faccia, il primo sinceramente, il secondo ipocritamente compunto. In un canto dell’orto viveva nella sua stalletta costrutta con tutte le regole dell’arte, una vaccherella svizzera comperata dopo tre mesi di assidui studi e riuscita magra e cagionevole quanto il padrone; al quale, malgrado la mucca svizzera e quattro galline padovane, capitava spesso di non potersi preparare in casa un latte all’ovo. Nel muro di sostegno verso il lago, battuto al piede dall’onda piena della breva, egli aveva praticati dei fori e piantato, per consiglio di Franco Maironi, alquante agavi americane, alquanti rosai e capperi, fasciando così, come soleva dire, con una elegante forma poetica il sostanzioso contenuto dell’orto. E per amore di poesia aveva lasciato incolto un breve angolo dell’orto stesso. Vi era cresciuto un canneto altissimo e a questo canneto il professore aveva addossato una specie di belvedere, un alto palco di legno, molto rustico e primitivo, dove nella buona stagione passava qualche gradevole ora leggendo, al fresco della breva, al mormorio del canneto e delle onde, i libri mistici che amava. Da lontano il colore del palco si confondeva con quello del canneto ed il professore pareva seduto in aria col suo libro in mano, come un mago. Teneva nel salotto la bibliotechina d’orticoltura; i libri mistici, i trattati di negromanzia, di gnosticismo, gli scritti sulle allucinazioni e sui sogni li teneva in uno studiolo vicino alla camera da letto, in una specie di cabina di nave dove il lago e il cielo parevano entrare dalla finestra.
Dopo la morte del vecchio Maironi il professore aveva ripigliato a visitare la famiglia, ma la marchesa Orsola gli piaceva poco e don Alessandro suo figlio, padre di Franco, meno ancora. Finì con andarci una volta l’anno. Quando il giovinetto Franco entrò in liceo, il Gilardoni fu pregato dalla nonna, chè il padre era morto da un pezzo, di dargli qualche lezione durante l’autunno. Maestro e scolare si somigliavano nei facili entusiasmi, nelle collere veementi e fugaci; ed erano caldi patrioti ambedue. Cessato il bisogno delle lezioni si rividero come amici benchè il professore avesse oltre a vent’anni più di Franco. Questi ammirava l’ ingegno del suo allievo; Franco invece stimava assai poco la filosofia mezzo cristiana mezzo razionalista del maestro, le sue tendenze mistiche; rideva della sua passione per i libri e le teorie d’orticoltura e giardinaggio, scompagnata da qualsiasi senso pratico. Lo aveva tuttavia molto caro per la sua bontà, per il suo candore, per il suo calor d’animo. N’era stato il confidente al tempo dell’infelice amore concepito dal Gilardoni per la signora Teresa Rigey e lo aveva poi ricambiato con le confidenze proprie. Il Gilardoni ne fu molto commosso; disse a Franco che avendo nel cuore quel tale culto gli sarebbe parso di diventar un poco suo padre anche se la signora Teresa non volesse saperne di lui. Franco non mostrò di apprezzare questa paternità metafisica; l’amore per la signora Rigey gli pareva un’aberrazione; ma insomma si confermò nell’idea che la testa del professore non valeva gran cosa e che il cuore era d’oro.
Bussò, dunque, all’uscio e venne ad aprirgli il professore in persona portando un lumicino a olio. «Bravo», diss’egli. «Credevo che non venisse più.»
Il Gilardoni era in veste da camera e pantofole, aveva in testa una specie di turbante bianco ed esalava un forte odore di canfora. Pareva un turco, un Gilardoni bey; ma la faccia magra e giallognola che sorrideva sotto il turbante nulla aveva di turchesco. Contornata d’una barbetta rossastra, fiorita pomposamente, nel mezzo, d’un bel nasone bitorzoluto e vermiglio, luceva per due begli occhi azzurri, molto giovanili, pieni d’ingenua bontà e di poesia.
Appena Franco ebbe chiuso l’uscio dietro a sè, l’amico gli sussurrò: «è fatto?». È fatto,» rispose Franco. L’altro lo abbracciò e lo baciò silenziosamente. Poi lo fece salire nello studiolo. Gli spiegò strada facendo che s’era applicato sulla testa delle compresse d’acqua sedativa, secundum Raspail, per una minaccia di emicrania. Egli era un apostolo di Raspail e aveva convertito anche Franco, molto soggetto alle infiammazioni di gola, dalle sanguisughe alla sigaretta di canfora.
Nello studiolo, nuovo amplesso, molto stretto e molto lungo. «Tanto, tanto, tanto!» esclamò il Gilardoni sottintendendo un mondo di cose.
Povero Gilardoni, gli occhi gli luccicavano. Aveva sperato invano una felicità simile a quella dell’amico suo! Franco intese, s’imbarazzò, non seppe dirgli nulla, e ne seguì un silenzio così significativo che il Gilardoni non potè sopportarlo e si mise ad accendere un po’ di fuoco per riscaldare il caffè che aveva preparato. Franco si offerse per questa bisogna e il professore accettò allegando il suo mal di capo, si mise a disfare il turbante davanti a una scodella d’acqua sedativa. «Dunque», diss’egli, dominando la propria emozione con uno sforzo di volontà, «mi racconti.» Franco gli raccontò ogni cosa dal pranzo della nonna fino alla cerimonia nuziale nella chiesa di Castello, eccetto, naturalmente, il colloquio segreto con mamma Teresa. Il professor Beniamino che intanto si era rimesso il turbante, si fece coraggio a mezzo. «E...» diss’egli sostituendo al nome amato una specie di gemito sordo «come sta?» Udito dell’allucinazione, esclamò: «una lettera? Le pareva di vedere una lettera? Ma che lettera?». Questo, Franco non lo sapeva. Uno stridore sulla brace interruppe la conversazione; il caffè bolliva a scroscio e si versava.
Il Gilardoni somigliava al suo giovane amico pure in questo che gli si leggeva il cuore in faccia. Il giovane amico, ch’era del resto un lettore di facce infinitamente più sagace e pronto di lui, capì subito ch’egli aveva pensato a una data lettera e gli chiese, mentre il caffè stava posando, se fosse in grado di spiegar quell’allucinazione. Il professore si affrettò a rispondere di no, ma tosto pronunciato il no lo attenuò con parecchi altri no misti a inarticolati brontolii: «eh no — no già — non saprei - insomma no». Franco non insistette e ne seguì un altro silenzio alquanto significativo. Preso il caffè con molti involontari segni d’inquietudine, il professore propose bruscamente d’andare a letto. Franco, dovendo ripartire prima di giorno, preferì non coricarsi ma volle che si coricasse l’amico, e l’amico, dopo infinite proteste e cerimonie, dopo aver esitato fin sulla soglia della porta con la sua scodella d’acqua sedativa in mano, fece di colpo un voltafaccia, si gittò alle spalle un «addio» e scomparve.
Rimasto solo, Franco spense il lume e si distese sulla poltrona con la buona intenzione di dormire, cercando il sonno in qualche pensiero indifferente, se gli fosse possibile di fermarvisi. Non erano passati cinque minuti quando fu picchiato all’uscio e subito entrò precipitosamente, senza lume, il professore dicendo: «insomma sono qui!». «Cosa c’è?», esclamò Franco. «Mi rincresce che ho spento.» Si sentì in pari tempo le braccia del buon Beniamino intorno al collo, la sua barba, la canfora e la voce sul viso.
«Caro caro caro caro don Franco, io ho un peso enorme sul cuore, non volevo parlarle adesso, volevo lasciarla quieto ma non posso, non posso, poss no, poss no, poss no!»
«Ma parli, si quieti, si quieti!», disse Franco sciogliendosi dolcemente da quell’abbraccio.
Il professore lo lasciò e si portò le mani alle tempie gemendo: «oh che animale, che animale, che animale! Potevo ben lasciarla tranquillo, potevo ben aspettare domani! o posdomani! Ma oramai è fatta, è fatta».
Afferrò le mani di Franco. «Creda, avevo cominciato a spogliarmi quando mi ha preso come una vertigine e lì, andiamo, metti su da capo la vesta e via corri qua come un matto, senza lume! Nella furia ho persin rovesciato la scodella dell’acqua sedativa!»
«Accendiamo il lume?», chiese Franco.
«No no no! Meglio parlare al buio, meglio parlare al buio! Guardi, mi metto persino qui, io!» Andò a sedere al suo scrittoio fuori del chiaror debole ch’entrava dalla finestra, e parlò. Parlava sempre nervoso e disordinato; figurarsi adesso con l’agitazione che aveva in corpo.
«Comincio, neh? Chi sa cosa dirà, caro don Franco! Tutte chiacchiere inutili, queste; ma cosa vuole, là, pazienza. Comincio dunque; di dove comincio? Ah Signore, vede che bestia sono che non so nemmeno più dove cominciare? Ah, quell’allucinazione! Sì, Le ho detto una bugia poco fa, posso benissimo sospettare l’origine di quell’allucinazione. Si tratta d’una lettera, proprio d’una lettera che io ho fatto vedere due anni sono alla signora Teresa. Una lettera del povero don Franco Suo nonno. Bene, adesso cominciamo dal principio.
Il mio povero papà, negli ultimi giorni della sua vita mi parlò di una lettera di don Franco che avrei trovato nel cassettone dov’erano tutte le carte da conservarsi. Mi disse di leggerla, di custodirla e di regolarmi, a suo tempo, secondo la mia coscienza. «Però», disse, «è quasi certo che non vi sarà niente a fare. «Il povero papà viene a mancare, io cerco la lettera nel cassettone, non la trovo. Frugo tutta la casa; non la trovo. Cosa vuole? Mi do pace con l’idea che non ci sarà niente a fare e non ci penso più. Bestia, vero? Animale? Me lo dica pure, me lo merito, me lo son detto tante volte io. Schiavo, andiamo avanti. Lei sa com’è stata regolata la successione di Suo nonno? Sa come sono andati gli affari di casa Sua? Mi perdona, neh, se Le parlo di queste cose?»
«So che mio nonno morì senza testamento e che non ho niente» rispose Franco. «Passiamo, andiamo avanti.»
Era un argomento penoso davvero, per Franco. Alla morte del vecchio Maironi non s’era trovato testamento. La vedova e il figlio don Alessandro s'erano divisa la sostanza per metà, d’amore e d’accordo. Per riuscire a questo il figlio aveva fatto alla madre una donazione assai grossa dichiarando d’interpretare la volontà paterna cui era mancato il modo d’esprimersi. Il giovane, vizioso, giuocatore, prodigo, era già impigliato, alla morte di suo padre, nei lacci degli usurai. Nei sette anni che visse ancora si governò per modo da non lasciare un soldo al suo unico figlio Franco, il quale rimase con una ventina di mila svanziche, la sostanza di sua madre, morta nel metterlo alla luce.
«Sì, sì, andiamo avanti» riprese il Gilardoni. «Tre anni fa, dico tre anni fa, ricevo una Sua lettera. Ricordo ch’era il due novembre, il giorno dei morti. Cose strane, cose misteriose. Senta bene. La sera vado a letto e faccio un sogno. Sogno la lettera di Suo nonno. Noti che non ci avevo mai più pensato. Sogno di cercarla e di trovarla in una vecchia cassa che tengo in un granaio. La leggo, sempre in sogno. Cosa dice? Dice che nella cantina di casa Maironi a Cressogno c’è un tesoro e che questo tesoro è destinato a Lei. Mi sveglio con una emozione straordinaria, con la convinzione che si tratta di un sogno veridico. Mi alzo e vado a guardare nella cassa. Non trovo niente. Ma due giorni dopo, volendo vendere certi fondi che avevo ancora a Dasio, piglio in mano un vecchio atto di compera che papà teneva nel suo cassettone, lo sfoglio e me ne casca fuori una lettera. Guardo la sottoscrizione, vedo «nobile Franco Maironi.» La leggo; è quella! Ecco, dico il sogno che...»
«Ebbene?», interruppe Franco. «Questa lettera, cosa diceva?»
Il professore si alzò, prese uno zolfino lungo mezzo braccio, lo cacciò nelle brage del caminetto e accese il lume.
«L’ho qui», diss’egli con un gran sospiro sconsolato. «Legga.»
Si cavò di tasca e porse a Franco una lettera giallognola, di piccolo formato, senza busta, con le traccie d’un’ostia rossa. Le linee nero-giallastre dello scritto interno trasparivano qua e là quasi in rilievo.
Franco la prese, l’accostò al lume e lesse ad alta voce:
Caro Carlin,
«Troverai dentro la presente il mio testamento. Ne ho fatto due copie. Una è presso di me. L’altra è questa che io t’incarico di pubblicare se la prima non vien fuori. Hai capito? Basta, e quando mi vedrai ti è assolutamente proibito di rompermi... con darmi consigli secondo il tuo maledetto vizio. Tu sei la sola persona di cui mi fido, ma del resto io non ho che a comandare e tu non hai che a obbedire; dunque tutti i rompimenti sono inutili e intollerabili. Ciao.»
Il tuo affez. padrone |
Cressogno, 22 settembre 1828.
«Ecco il testamento, adesso» disse il Gilardoni, lugubre, porgendo a Franco un altro foglietto giallognolo. «Ma questo non lo legga ad alta voce.»
Il foglietto diceva:
«Io sottoscritto, nobile Franco Maironi, intendo disporre delle mie sostanze, con questo atto d’ultima volontà.
Essendochè donna Orsola Maironi nata marchesa Scremin si è degnata di accettare insieme a molti altri omaggi anche i miei, le lascio in segno di gratitudine lire di Milano diecimila per una volta tanto e il gioiello per lei più prezioso della casa ossia don Alessandro Maironi, debitamente iscritto nei registri della parrocchia della Cattedrale in Brescia come mio figlio.
Lascio al detto mio figlio la porzione legittima che gli spetta della mia facoltà e tre parpagliole al giorno in più, in segno della particolare mia stima.
Lascio al mio agente di Brescia signor Grisi, se si troverà al mio servizio al momento della mia morte, tutto quello che mi ha preso.
Lascio al mio agente di Valsolda Carlino Gilardoni, colla condizione come sopra, lire di Milano quattro al giorno, sua vita natural durante.
Intendo che sia celebrata nella Cattedrale di Brescia una messa quotidiana finchè sarà in vita donna Orsola Maironi Scremin, per la salute dell’anima sua.
Di tutta la restante mia sostanza istituisco e nomino erede il mio nipotino don Franco Maironi di don Alessandro.
Fatto, scritto e sottoscritto il 15 aprile 1828.
Nob. Franco Maironi.
Franco lesse e restituì la carta come trasognato, senza dir nulla. Era commosso e sentiva confusamente di doversi dominare, di dover reprimere la propria commozione e raccogliersi, veder chiaro nella cosa e in sè stesso.
«Ha visto?», fece il professore.
A questo punto la sovraeccitazione del Gilardoni salì al colmo.
«Perchè non parlare prima, eh?», riprese. «È ben qui la storia che un perchè positivo, là, chiaro, preciso, non c’è caso, io non lo posso dire! Queste carte mi hanno fatto orrore. Se si fosse trattato di me, di mio padre, di mia madre, avrei lasciato andare un milione piuttosto di domandarlo con queste carte alla mano. Adesso sono ancora una bestia di dir questo, metta ch’io non l’abbia detto, perchè al posto Suo, tutt’altro! Dicevo al posto mio, Signore! Si sa! Dunque mi pareva, guardi che asino, che la nonna Le volesse un gran bene, che la roba del nonno finirebbe a ogni modo nelle Sue mani; e con quest’idea...! Passa un po’ di tempo, mi consiglio con la signora Teresa, le mostro lettera e testamento. Mi dice che avrei dovuto informar Lei subito, appena fatta la scoperta, ma che oramai, essendovi di mezzo, in qualche maniera, sua figlia, non mi vuol dare alcun consiglio. Del resto, dice... Bene, questo non importa. Capisco insomma che il testamento le fa orrore anche a lei. Cosa vuole, io mi metto in testa che già la nonna finirà con accettare il matrimonio e non parlo. Stasera Lei mi dice che la nonna minaccia; si figuri! Adesso capisce che non ho potuto aspettare, che non ho potuto tenere un momento ancora queste carte; ecco, a Lei, le prenda!»
Franco, assorto nei propri pensieri, non udì che queste ultime parole. «No», diss’egli, «non le prendo. Mi conosco. Se le ho in mano posso fare troppo presto qualche cosa di troppo grave. Le tenga Lei, per ora.» Il Gilardoni non voleva saperne di tenerle, e Franco ebbe uno de’ suoi scatti di impazienza. Niente gl’irritava i nervi, del resto, come gli sfoghi sconclusionati della gente di buon cuore e di cattiva testa. Si riscaldò perchè il Gilardoni resisteva, gli fece intendere che quel volersi sbarazzare a ogni costo delle carte era egoismo bell’e buono e che quando si fanno degli spropositi bisogna subirne le conseguenze. Le parole furono presso a poco queste; la faccia irritata e dura diceva molto peggio. Il Gilardoni, rosso rosso, fremeva tutto per quell’accusa di egoismo, ma si contenne: e fatto anche lui un fiero cipiglio, ripetendo «bene bene bene bene», intascò frettolosamente le carte e uscì senz’altro. Subito Franco, per soddisfazione della propria coscienza, si mise a persuader sè stesso che il signor Beniamino aveva tutti i torti possibili; torto di non avergli consegnato le carte molto prima, torto di essersi fatto pregare adesso per tenerle ancora, torto di essersi offeso. Sicuro di far la pace con lo sconclusionato filosofo, non pensò più a lui, spense il lume e ritornato alla sua poltrona, ripiombò nelle riflessioni di prima.
Adesso cominciava a vederci chiaro. Non poteva servirsi con dignità di quel testamento disonorante per la nonna nella forma e nella sostanza, nel sospetto che generava, considerata la lettera, di una soppressione delittuosa; poco onorevole anche per suo padre. No, mai. Conveniva dire al professore di bruciar tutto. Così, signora nonna, trionferò di te; facendoti grazia della roba e dell’onore senza curarmi di dirtelo! Assaporandosi questo proposito, Franco si sentì quasi alzar da terra, respirò a pieni polmoni, contento di sé come un principe, illuminato e pacificato nell’anima da un sentimento misto di generosità e d’orgoglio. Malgrado tutta la sua fede e le sue pratiche cristiane egli era lontanissimo dal sospettare che un tale sentimento non fosse interamente buono e che una magnanimità meno conscia di sè stessa sarebbe stata più nobile.
Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, disposto, meglio che prima nol fosse, al riposo, pensando tranquillamente alle cose lette, alle cose udite, come uno che per poco non si è lasciato prendere in una speculazione rischiosa e ne considera le angustie, i guai evitati per sempre. Avveniva pure in fondo all’anima sua un sommovimento di vecchie memorie. Gli tornò a mente la storia di un certo discorso fatto da una vecchia cameriera sulla ricchezza di casa Maironi che sarebbe stata rubata ai poveri. Egli era bambino, allora, e la donna non s’era fatto riguardo di parlare in presenza sua. Ma il bambino ne aveva riportato una impressione profonda, risvegliatagli più tardi, a mezza l’adolescenza, da un certo prete che gli avea raccontato in aria di segreto, con solennità e forse non senza intenzione, come la roba Maironi provenisse da una lite vinta, contro giustizia, all’Ospitale Maggiore di Milano.
«Così, per me», pensò Franco, «tutto è ritornato al diavolo.»
Gli venne in mente che potesse esser tardi, riaccese il lume e guardò l’orologio. Erano le tre e mezzo. Oramai gli sarebbe stato impossibile di riposare. Era troppo vicino il momento di ritrovarsi con Luisa, la sua immaginazione era troppo accesa. Ancora un’ora e mezzo! Egli guardava l’orologio tutti i momenti; questo benedetto tempo non passava mai. Prese un libro e non potè leggere. Aperse la finestra; l’aria era mite, il silenzio profondo, il lago chiaro verso il S. Salvatore, il cielo stellato. A Oria si vedeva un lume. Il suo destino era forse di vivere colà, in casa dello zio. Si mise, guardando distrattamente il punto luminoso, a immaginar l’avvenire, fantasmi che sempre mutavano. Verso le quattro e mezzo udì un tocco di campanello al piano inferiore, e poco dopo, il Pinella venne ad avvertirlo a nome del padrone, che, se voleva far la salita del Boglia, era tempo di mettersi in cammino. Il padrone aveva un gran dolor di capo e non poteva muoversi né riceverlo. Franco cercò sulla scrivania un pezzo di carta e vi scrisse:
«Parce mihi, domine, quia brixiensis sum.»
Poi uscì, fu accompagnato dal Pinella col lume fino al sottoportico tenebroso dove mette capo la strada di Castello e scomparve.
La marchesa Orsola suonò il campanello alle sei e mezzo e ordinò alla cameriera di portare il solito cioccolatte. Ne inghiottì una buona metà e poi domandò con tutta flemma a che ora don Franco fosse ritornato.
«Non è ritornato, signora marchesa.»
Le viscere della vecchia dovettero turbarsi un poco ma neppure un muscolo del suo viso si mosse. Ella posò le labbra sull’orlo della tazza di cioccolatte, guardò la cameriera e disse pacatamente:
«Portatemi uno di quei biscottini di ieri.»
Verso le otto la cameriera ritornò per annunciarle che don Franco era venuto e non aveva fatto che salire in camera, pigliarvi il suo passaporto, ridiscendere e incaricare il cameriere di trovargli un barcaiuolo che lo conducesse a Lugano. La marchesa non fiatò ma più tardi mandò ad avvertire il suo confidente Pasotti che lo aspettava. Pasotti capitò subito e si trattenne con lei una buona mezz’ora. La dama voleva assolutamente sapere dove e come suo nipote avesse passata la notte. Pasotti aveva già raccolte e poté offrire certe voci vaghe intorno a una visita notturna di don Franco in casa Rigey; ma si desideravano notizie esatte e sicure. Il sagace Tartufo, curioso per natura come un bracco che va fiutando tutte le puzze, ficcando il muso in tutti i buchi e strofinandolo a tutti i calzoni, promise di fornirle alla signora marchesa dentro un paio di giorni e se n'andò con gli occhi scintillanti, fregandosi le mani nell’aspettazione di una piacevole caccia.