Piccoli eroi/Una piccola fata
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UNA PICCOLA FATA.
Era una famigliuola modesta e felice perchè si contentava di poco. Il babbo era operaio meccanico e guadagnava venticinque lire la settimana, la mamma era cucitrice di bianco, e lavorava per vivere con un po’ d’agiatezza, e possibilmente far qualche risparmio.
Avevano una figlia che era la loro consolazione e il costante pensiero di tutti e due.
Volevano procurarle quel benessere che avevano invano sognato per loro, e lavoravano con maggior lena e con più coraggio pensando alla cara bambina.
Vivevano a questo modo da parecchi anni; la figlia frequentava la scuola, studiava con amore, ed era fra le prime della sua classe, tanto che i genitori formavano i più bei sogni per quella bimba d’ingegno.
Volevano che potesse studiare e diventar da più di loro, non c’era sacrificio a cui si sarebbero rifiutati per lei, ed essa era tanto buona che meritava tutto il bene che le volevano.
In casa non mancava nulla; il marito consegnava alla moglie tutta la sua settimana e non spendeva un soldo all’osteria; dicendo che se la sera si sentiva voglia di bere un bicchiere di vino, preferiva di berlo in casa, nella sua cameretta tepida e ben illuminata, avendo accanto la moglie e la figlia, che lo rallegrava col raccontargli i fatti e gli avvenimenti della scuola, e colle sue allegre risate.
Qualche volta prendeva la figlia sulle ginocchia, e le raccontava delle storielle, mentre la mamma faceva andare la sua macchina da cucire per terminare un lavoro urgente.
A lei non veniva mai meno il lavoro, essa era precisa, onesta, i principali negozianti la conoscevano, le davano quantità di commissioni, tanto che il lavoro si ammucchiava nella sua stanza, ed essa era lieta pensando al benessere che così poteva procurare alla famiglia.
Ma un giorno l’allegria scomparve da quella casa.
Lavorando in fretta, facendo correre allegramente il pedale della sua macchina, l’ago, senza che si accorgesse, le trapassò una mano, tanto che dal dolore fu sul punto di cadere svenuta.
Era sola in casa, e trovò appena la forza di mettere la mano dentro l’acqua fresca, poi sentendo quietare il dolore fasciò la ferita, e fece uno sforzo per mostrarsi sorridente quando rientrarono il marito e la figlia.
— Che hai, mamma? — chiese la piccina vedendole la mano fasciata.
— Non è nulla, mi sono punta, ma passerà.
Però quel giorno non ebbe voglia di mangiare, e il giorno dopo non potè servirsi della mano che si era tutta gonfiata.
Essa non disse nulla al marito per non affliggerlo; ma la accorava il non poter continuare a lavorare; appunto in quei giorni aveva promesso di terminare dei lavori urgenti che dovevano servire per il corredo d’una sposa.
— Perchè non mangi? — le diceva la bambina.
— Non mi sento troppo bene, è questa mano che mi duole, ma guarirà.
— Va dal dottore, — le disse il marito.
— È inutile, noi non abbiamo tempo d’essere ammalati; questa sera mi metterò un impiastro.
Ma la notte, invece, il male s’aggravò, e le venne la febbre, tanto che la mattina il marito prima d’andare all’officina andò a chiamare il medico.
La bambina, sentendo che la mamma era ammalata, e che doveva venire il medico, non volle andare alla scuola, e pregò una compagna che venisse a dirle la lezione che avevano fatta, così avrebbe potuto studiare restando in casa.
Quando venne il dottore trovò che il male era grave, c’era già un principio di risipola, poi la febbre era abbastanza alta.
Raccomandando alla donna il massimo riposo, ordinò una medicina da prendere ogni due ore, e disse che forse avrebbe dovuto fare un piccolo taglio alla mano, ma in ogni modo per parecchi giorni non c’era da pensare ad alzarsi.
La fanciulla si sentiva venire le lagrime agli occhi, vedendo la sua mamma ammalata più di quello che avrebbe immaginato; ma si fece coraggio e le disse:
— Tu stattene quieta, alla casa penserò io.
— Sì, ma il mio lavoro che il negoziante aspetta e che gli premeva tanto.... Chissà che cosa penserà di me!
— Passerò io, e gli dirò che sei ammalata, — disse la fanciulla.
— Non dirgli nulla, forse domani starò meglio, e se potrò lavorare cercherò di far presto.
Ma il giorno dopo stava peggio, aveva la febbre e vaneggiava.
Padre e figlia s’erano messi d’accordo di star alzati la notte, prima uno, poi l’altro per assistere l’inferma.
La fanciulla, quantunque piccina, pareva una infermiera provetta, scriveva tutte le prescrizioni del dottore per non dimenticar nulla, e le eseguiva a puntino, poi colle sue mani preparava dei brodi succolenti per l’ammalata, e il mangiare per il babbo, a sè pensava poco, non n’aveva tempo, spesso si contentava d’un po’ di latte e un po’ di pane.
Ma la malattia si prolungava, e la mamma era sempre preoccupata del suo lavoro.
Una sera, mentre l’ammalata riposava, la fanciulla provò ad avviare la macchina e a far andar avanti il lavoro che stava ammucchiato in una cesta.
Vide che le riusciva bene e continuò ad andare innanzi, approfittando dei momenti nei quali la mamma dormiva, perchè quando era desta doveva stare ad assisterla.
La povera donna si crucciava sempre, e diceva al dottore:
— Mi faccia guarir presto, ho bisogno di alzarmi, di lavorare; esser ammalati e non guadagnar niente per giunta è una gran pena.
— Stia tranquilla che guarirà presto, specialmente se starà un po’ quieta.
Alla figliuola diceva invece:
— Come faremo ad andare avanti se non posso lavorare?
— Mamma, bada a guarire, non pensare a nulla.
Il lavoro andava sempre avanti, e la fanciulla vedendo che le riusciva bene, lavorava, lavorava tutte le notti; si sentiva stanca, le sue palpebre si facevano gravi pel sonno, ma essa lo combatteva facendo un giro per la stanza e dandosi dei pizzicotti, e il lavoro procedeva sempre, finchè un giorno, lo portò tutta contenta al negoziante senza dir nulla alla mamma, e tornò a casa con un gruzzolo di danaro che capitava a proposito, perchè colla malattia avevano quasi consumato tutti i risparmi.
Quando la fanciulla era stanca da non potersi più reggere in piedi incominciò la convalescenza per la mamma: era tempo.
Il dottore prediceva che fra pochi giorni l’inferma avrebbe potuto alzarsi, e intanto la fanciulla poteva dormire di più mentre la mamma non aveva più febbre, la ferita s’andava rimarginando e non c’era bisogno di vegliare la notte.
Il primo pensiero della povera donna quando si sentì meglio, fu di chiedere il suo lavoro.
— È stato consegnato al mercante.
— E chi lo ha terminato?
— Io non so, sarà stata una fata.
La donna guardò in faccia la figlia, poi si ricordò d’averla veduta come in un sogno, nelle sue notti febbrili, tutta intenta a far andare la macchina da cucire e alla sua mente apparve la verità.
— Figlia mia, — disse abbracciandola, — sei stata proprio tu; ma come hai fatto a far questo miracolo? — poi la guardò bene in faccia, e soggiunse: — Povera bimba, si vede; sei tanto pallida, e hai sotto agli occhi quei due cerchi neri; e pensare che non m’ero accorta di nulla! Come si diventa egoisti quando si è ammalati! Ma ora dovrai andar fuori all’aria aperta e divertirti, sarò io che ti curerò.
— Vedrai, mamma, che il saperti guarita mi renderà per la gioia il colore alla faccia; non temere, sto bene e sono tanto contenta.
— È la storia di Angiola, — saltò su Giannina.
Angiolina era tutta confusa, e disse: — È un tradimento, ma la storia non è terminata.
— Raccontaci il seguito, — disse Giannina.
— Ecco, — soggiunse Angela:
«Quella bambina, non meritava d’essere collocata fra le eroine, perchè ognuno al suo posto avrebbe fatto lo stesso; si trattava della sua mamma! ma è stata più fortunata di tante altre. Un giorno è capitata a casa sua una buona fata, la quale l’ha condotta in campagna, in mezzo agli alberi verdi, agli uccelli che la mattina la rallegrano coi loro canti, e nella compagnia di tanti bei bambini, con tanti divertimenti; davvero che quella fanciulla domanda sempre a sè stessa, perchè è stata tanto fortunata.»
Tutti le fecero festa, la signora Guerini la additò come esempio ai suoi figli, poi salutando Maria, disse:
— Sono proprio felice d’esser venuta in mezzo a fanciulli così buoni, vi assicuro che nell’uscire dalla vostra casa ci si sente migliori; vi supplico, non mancate domani alla nostra festa; abbiamo bisogno di buone fate come siete voi, a rivederci; anche voi, professore, ricordatevi.
Maria li accompagnò alla carrozza e stette coi fratelli sulla porta finchè li vide allontanarsi sulla strada maestra.