Piccola morale/Parte seconda/I. Teorica e pratica
Questo testo è completo. |
◄ | Parte seconda | Parte seconda - II. Il tempo | ► |
I.
TEORICA E PRATICA.
Guardati dagli estremi, tienti nel ĝiusto mezzo, è la media la sola via per la quale puoi camminare sicuramente: ecco il discorso che si fa dai sapienti di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e da quegli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi che hanno bisogno del discorso dei sapienti per mettersi a questa piuttosto che a quella strada. Dei tiepidi non so che farne, gli vomiterò dal mio seno come sostanza indigestibile e nauseosa; ecco sentenza pronunziata da chi ha posto negli uomini la facoltà del discorso, e non può pronunziare che verità. Come conciliare fra loro queste due massime così opposte, almeno nell’apparenza? Prima di palesare su questo il nostro parere preghiamo i lettori a tenerci dietro in un’altra osservazione.
Molto antica ed universale si è quella querela: altro il dire altro essere il fare; tutti essere un gran che fin quando non trattasi d’altro che di principii e di belle parole, e la più parte ridursi al zero quando trattasi di venirne alla pratica. Similmente antico ed universale si è quest’ altro detto: il tale, a dirla schiettamente, non si diporta come dovrebbe, ma, lode a Dio, quanto a principii è assai ben fondato. Sicchè, ove da quei primi si mostra far poco conto delle teoriche astratte, e domandare più ch’altro gli effetti che derivano da esse teoriche; vediamo i secondi sorvolare, quasi dissi, i mali diportamenti, e rallegrarsi che stiano in piedi i principii speculativi. So benissimo che la rettitudine dei principii riesce, quando che sia, a farsi norma delle opere, ma l’influire dei principii sulle opere non è più che contingente, il danno delle azioni prave è attuale.
Prima di strigar un tal nodo, che ci sembra avvolto anzichè no, ne piace di fare la confessione di un nostro pensiero che abbiamo portato da gran tempo nell’animo, e possa o no piacere ai trafficanti di scienza, sarà, vogliamo credere, ricevuto come non erroneo da quelli che vanno in cerca del vero con ingenuità e con fervore.
Una grande discrepanza fra la teorica e la pratica non solo ci apparisce nella morale, ove gli effetti sono più sensibili a fatti, ma inoltre in tutte l’altre parti dell’umano sapere. Nelle cose morali egli è facile a intendere come dovendo l’uomo attuare, le più volte a proprio costo, quei nuovi principii, che collo spendio di poche parole aveva sciorinati in astratto, il cuore rimanga addietro alla lingua, e non solo rimanga addictro, na tenga cammino del tutto opposto
Tu ver Gerusalemme, io verso Egitto;
ma su ciò che non è morale, onde questo bisogno di contraddire a se medesimi? Molte per verità potrebbero essere le ragioni, ma la principale è senz’altro la nostra ambizione, per la quale, pur di dire alcuna cosa che odori di novità, o per lo meno d’insolitezza, poco ci curiamo dell’utile che ne dee pervenire ai nostri fratelli. Le son nubi che abbracciate, la non è Giunone, i miei cari uccellatori di fama: che importa? Ci saranno pure quei gonzi, a’ quali parrà tornato dagli amplessi celesti chi si travagliò miseramente fino a quell’ora colle ingannevoli creature dell’aria. Gridi pure il sermonatore
Oh immortalità di fien di prato!
Il volgo, che tanto capisce di que’ sermoni, quanto delle astrazioni, s’inchina al biasimatore ed al biasimato con la medesima riverenza.
Ma veniamo al fatto del nostro articolo. Ecco in qual modo a noi sembra di mettere fra loro d’accordo le due massime, opposte nell’apparenze, che abbiamo a principio allegate. La prima doversi riferire alla teorica, alla pratica la seconda: ossia doversi quando trattasi di teorica procedere colla severità più scrupolosa; quando di pratica, concedersi una larghezza maggiore di eccettuazioni e di possibili anomalie. Nel primo caso il tenersi nel giusto mezzo significare, non essere da chi vuol porre certi e durevoli fondamenti al proprio sistema l’inchinare a questo e a quel lato, sia desso il destro o il sinistro, ma doversi mantenere incrollabile ad ogni vento; nel secondo caso tanto significare i tiepidi doversi attendere d’esser rigettati, quanto richiedersi nell’applicazione dei generali principii alle azioni individue discrezione infinita, in quanto la fredda lentezza dello stabilire le massime astratte deve cangiarsi in viva sollecitudine quando trattasi di praticarle.
Ammessa questa distinzione, ne conseguirebbe un senso molto corrispondente anche per l’altre due sentenze da noi ricordate in secondo luogo. Per la prima (altro essere il detto, altro il fatto) s’intenderebbe doversi avere riguardo a questa difficoltà congenita alla nostra natura e quindi usare non poca indulgenza nel giudicare intorno a quanto si opera da’ nostri fratelli, quand’anche dissentissero colle azioni da quanto suonano le loro parole: la seconda (esser bello che almeno si regga ne’ sani principii chi vacilla più che discretamente nelle applicazioni) significare che in tali uomini questo v’è di bene attuale, oltre quello contingibile di cui abbiamo accennato, che quando essi pure non operino gran fatto secondo regole di giustizia; potranno almeno giudicare convenientemente delle opere altrui.
Questo, a parer nostro, si dovrebbe fare in generale dagli uomini; e che si fa per l’opposto? Veggiamo invece la povera razza umana travagliarsi nel rendere le teoriche astratte capaci il più possibile d’infinite minutissime applicazioni a’ casi concreti. E dove un caso qualunque non quadri in qualcheduna di quelle loro formule generali di ragionare, avventarsi senza misericordia come mastini sopra quel misero de’ loro fratelli, che traviò da quanto essi stimano regola irrepugnabile di giustizia. Vediamo ancora tutto il calore dell’anima spendersi nel magnificare e diffondere certi principii, che stimansi assolutamente necessarii alla felicità della specie umana in universale, e non rimanere più alcuna lena a que’ tanto abbondanti e magnanimi declamatori quando trattasi di promuovere que’ principii col proprio esempio. Sicchè il vedere una truppa di rotestoro che ne vengono tanto presto a dire ciò che si dee e non si dee fare, e dopo il detto rimettono il capo a dormire, non To dire su qual origliere, potrebbonsi recitare molto aggiustatamente que’ versi:Vidi un monte di tumide vesciche,
Che dentro aver parca tumulti e grida.
Odo da qualcuno interrogare: e qual pro alla pratica morale da queste dichiarazioni? Ecco la mia risposta. Questo architettare utopie, e guardando le stelle dimenticar la fossa che ve ne sta sotto ai piedi, può avere, come anzi ha veramente, una efficacissima influenza, e potrei dire funestissima, sopra gran parte delle nostre azioni. E se gli uomini imparassero a far un po’ più, e a chiacchierar un po’ meno di quello costumano, lasciando le ciance in proprietà esclusiva de’ giornalisti, che se ne giovano come de’ loro ferri, forse molte malattie, che sembrano presso che incurabili, della nostra specie, sarebbero tolte, o mitigate; non foss’altro quella bruttissima del mormorare. E quello ch’è peggio, non che restarcene noi colle mani alla cintola, a chi si ricorda di averle avute quelle mani per usarne secondo il bisogno, siamo soliti di dar taccia d’affannoni, briganti, smaniosi, cui sembra che il terreno debba loro mancar sotto a’ piedi, o che la felicità del genere umano sia stata loro interamente affidata, ed essi essere poco meno che Atlanti destinati a recarsi il mondo in ispalla.
E voi, signor scrittore di morale, che cosa fate di bello su questa terra, dopo queste continue massime che spacciate in vantaggio, come probabilmente credete, del vostro prossimo? Primieramente le ciance sono cosa mia, e dei fratelli miei giornalisti, come ho detto poc’anzi1; in secondo luogo non mi crederò inutile affatto, se, dal vedere la brutta figura che fa negli occhi de’ suoi simili chi non altro sa che mandar fuori voce e poi voce, un qualcheduno, innamorato fino a qui dell’ozio delle cicale, cangi mestiere, e si metta sulla strada delle formiche.
- ↑ Parecchi di questi capitoli furono la prima volta pubblicati nel Gondoliere.