Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire/Capitolo IV
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CAPITOLO QUARTO
SPIRITO DI PARTE
Con questa locuzione, Spirito di parte, intendo accennare ad un sentimento che lega fra loro i partigiani di una dottrina, o i seguaci di un uomo qualunque egli siasi, quando questo sentimento abbia raggiunto l’esaltamento della passione, a tal segno da acciecare chi da esso è dominato, da offuscarne l’intelletto, e far sì che la dottrina, o l’uomo oggetto di quella idolatria, si anteponga ad ogni altra cosa, e che il sostenere questo o quella sembri il primo, anzi l’unico dovere imposto al partigiano.
Una fazione composta di uomini così fatti è sempre pericolosa pel paese dove si è formata. I cittadini che ad essa appartengono non conoscono più nè patria, nè patriottismo, e più non si curano nè di libertà, nè di nazionalità, nè d’indipendenza; o, per dir meglio, confondono tutte queste cose, le credono concentrate nella loro stessa fazione, e pretendono che adoperandosi al suo trionfo, adempiono ai loro più imperiosi doveri verso la patria, e le procurino ogni sorta di beni, libertà cioè, nazionalità, indipendenza, prosperità, fama, ecc. ecc.
Convincere dell’error suo un uomo invaso dallo spirito di parte, è cosa pressochè impossibile; ed è perciò che, non solo gli uomini di opinioni moderate, i patriotti, e gli amici dell’ordine nell’amministrazione delle pubbliche cose, rifuggono da tutto ciò che riveste l’aspetto di fazione, ma che i faziosi stessi, i meno accecati ad ogni evento, si mostrano bene spesso desiderosi di non essere confusi con quelli che accettano il titolo di faziosi; e vanno ripetendo: che non appartengono a fazione veruna; che sono indipendenti da qualsiasi legame di parte; che parlano per convinzione loro propria, e non perchè così parlano i loro amici, ecc. ecc.; e tali proteste hanno per iscopo di ottenere l’attenzione di chi li ascolta o li legge, essendo a tutti noto che le opinioni dettate dallo spirito di parte non sono generalmente tenute in alcun conto. — Il che solo dovrebbe bastare ad emancipare dallo spirito di parte ogni uomo di sano intelletto e di buona volontà.
Ma appunto perchè dallo spirito di parte si ripetono molti scandali, disordini e sciagure, non di rado avviene che ad un fantasma di fazione o di spirito di parte s’imputino i poco fondati malcontenti, le assurde pretese, le esagerate opinioni, la intolleranza di ogni salutare disciplina, il negato rispetto alla legge, e tutte quelle pecche civili e politiche, a fronte delle quali riesce troppo difficile il governare, e diventa pericolosa la libertà, mentre l’accusato spirito di parte non esiste di fatto. Ciò si verifica sovente in Italia, e ne vediamo ogni giorno gli esempi.
Molti sono da noi i malcontenti. — Ambiziosi, delusi nelle loro speranze, animi poco generosi e poco divoti alla patria, feriti nei loro interessi, e costretti a pagare le sempre crescenti imposte, senza le quali non sussisterebbe l’Italia; oziosi, turbati nel pacifico godimento degli agi loro; timidi, che sentono per la prima volta rossore della loro codardia; impazienti, che vorrebbero seminare e raccogliere nello stesso giorno; stolti, che non intendono perchè occorra di aver seminato per raccogliere; fanatici, che sognavano la creazione spontanea di un nuovo paradiso terrestre. Tutti questi e molti altri ancora, che tralascio di nominare per amore di brevità, sono e si dichiarano malcontenti del modo con cui siamo governati, perchè al governo s’imputano sempre gli errori dei governati. Codesti malcontenti, che malcontenti sarebbero sotto qualunque reggimento o forma di reggimento, si sforzano di dare al malcontento loro un certo aspetto di disinteresse, che lo nobiliti e lo innalzi al di sopra delle puerili loro lagnanze.
Essi cercano inoltre di appoggiarsi ad altri malcontenti, che sappiano farsi un’arma del loro malcontento, e collegarlo a certe dottrine politiche, imputando le sventure di cui si lagnano al poco gradimento che codeste dottrine incontrarono nel maggior numero degli italiani. — In tal modo quei pochi repubblicani, che si mantengono ostili al nostro governo e all’Italia, perchè sono divoti alla forma di reggimento repubblicana più che all’Italia stessa, si vedono sovente seguiti, ascoltati, invocati, e portati alle stelle, da una turba di malcontenti, che loro si stringono intorno, perchè da essi sperano udire parole di conforto, in armonia coi loro sentimenti; e per parlare schiettamente e senza velo, perchè sono certi di udirsi dire che hanno ragione di maledire l’attuale ordinamento di cose, e gli uomini posti al governo del paese. Così si compongono le moltitudini che assistono ai così detti meetings, tenuti da qualche famigerato repubblicano che trovasi di passaggio nelle nostre città. Così si fanno le elezioni, quando gli amici delle agitazioni politiche affiggono sulle mura delle città o dei borghi cartelloni, su cui sta scritto il nome di un agitatore con simili raccomandazioni: Elettori! se volete por fine agli abusi, alle illegalità, alle malversazioni, ecc. ecc. di cui a ragione vi lagnate, scegliete per vostro rappresentante il cittadino N. N. Così acquistano abbonati e lettori i fogli periodici, qualunque ne sia il valore ed il merito, che si diedero la missione di biasimare e di condannare ogni atto governativo.
Ma se alcuno da questi fatti credesse di concludere che la moltitudine accorsa ad udire le parole di un ben noto repubblicano, o gli elettori che lo scelsero a loro rappresentante, o tutti quelli che leggono avidamente le sue quotidiane diatribe contro il governo, ne approvano, e ne dividono le opinioni e le dottrine; egli commetterebbe un madornale errore, e mostrerebbe di non conoscere ha natura di quelle genti. — Credo che da per tutto i malcontenti tendano ad associarsi ad altri malcontenti, senza indagare se la cagione del comune malcontento sia la stessa per gli uni come per gli altri; ma nel nostro paese questa tendenza deve essere più diffusa ancora che altrove, perchè le passioni vi sono più ardenti, impetuose e spensierate, che nei paesi più freddi e meglio assestati. — Se ai partigiani delle dottrine repubblicane non si unissero i partigiani di ciò che non esiste, ossia gli oppositori di tutto ciò che esiste, si vedrebbe a che si riduce da noi la fazione repubblicana. — E lo vedrebbero ben tosto i pochi repubblicani che tuttora si mantengono tali, e sono per così dire, monumenti dell’epoca dei lunghi esilii politici, e della patria servitù, se per uno di quelli accidenti, impossibili a prevedersi, si trovassero un giorno assunti al potere: vedrebbero ben tosto, con qual fondamento supposero che i malcontenti di un governo monarchico dovessero essere partigiani divoti di un governo repubblicano. E siccome i repubblicani, che ora suppungo assunti al potere, non potrebbero nè prodigare gli onori e gli impieghi agli oziosi, nè contentarsi delle spontanee largizioni di coloro che si sdegnano contro il regolare sistema delle imposte, nè pesare ed apprezzare il valore di ogni singolo cittadino colla bilancia della sua individuale ambizione; i repubblicani saliti in seggio si vedrebbero tosto abbandonati da coloro che li seguivano un tempo, non perchè ne dividessero le opinioni, ma perchè li consideravano come malcontenti di ciò che non era di loro soddisfazione.
A parer mio lo spirito di parte propriamente detto non esiste in Italia, per quanto si riferisce alla fazione repubblicana.
In tutti i paesi che furono subitamente sconvolti da rivoluzioni politiche, e che mutarono rapidamente un reggimento in un altro affatto opposto, rimangono certe memorie, certe abitudini, certe tendenze a vedere e a giudicare ogni cosa sotto l’aspetto in cui si sarebbero vedute e giudicate altre volte, certa facilità di obliare gli inconvenienti del distrutto governo, e di anteporlo a quello che gli è subentrato, i cui difetti, perchè presenti, appaiono assai più odiosi di quelli di cui più non esiste che la memoria; e da tutte queste abitudini, da queste tendenze, da queste memorie nasce una fazione politica, che ha per oggetto il ritorno al passato, e da cui si dà nome di retrograda, o di partito della reazione, perchè i suoi seguaci reagiscono difatti contro il primo e forse esagerato amore dei mutamenti e delle novità che producono le rivoluzioni. — Questo ritorno alle idee e al modo di sentire del passato, fu quasi sempre la vera cagione degli eccessi a cui si portarono troppo sovente i novatori, o rivoluzionari, perchè il pensiero di ricadere nell’abisso, da cui con tanti sacrifizi, e con tanti sforzi riescirono di recente ad uscire, sembra ad essi la maggiore sventura e la più vergognosa catastrofe che mai possa loro accadere; cosicchè i retrogradi sono dai novatori considerati come propri nemici e nemici della pubblica salvezza, e fra gli uni e gli altri si accendono le ire più implacabili e violenti.
Da noi non esiste la fazione politicamente retrograda, e perciò non sono neppure da temersi gli eccessi dei novatori. — V’hanno bensì taluni che confrontando l’amministrazione dei cessati governi, o il regolare andamento della procedura civile, o tale altra frazione del vecchio ordinamento, con ciò che fu loro sostituito, giudicano le prime superiori alle seconde; e se tale confronto è fatto da chi abbia appartenuto all’antica e non appartenga all’attuale amministrazione, può darsi che la inferiorità di quest’ultima non sia da lui riconosciuta senza un segreto contento. Ma nessuno fra gli italiani, neppure fra coloro che hanno perduto, per gli avvenimenti del 59 e del 60, potere e ricchezze, rimpiange il cessato dominio, ed ardisce desiderarne il ristabilimento, foss’anco nel più segreto del cuor suo. — Dicesi che fra i principi e i duchi della corte Borbonica si trovano dei dolenti per quella antica casa reale, e degli invincibili renitenti all’ordine attuale delle cose nostre. — Di ciò sono ignara; ma ciò di cui sono convinta si è, che quei renitenti (supposto che ve ne sieno di fatto) non sanno precisamente nè che cosa rimpiangono, nè che cosa desiderano. E se stesse nelle mani di uno di essi l’avvenire del regno d’Italia, dubito assai che gli reggesse l’animo di distruggerlo. Molte cose si dicono, che non si direbbero se le parole avessero l’importanza dei fatti. — Il piangere sulle sventure di una casa caduta dal trono nel nulla, ha un non so che di poetico e d’innocuo, che può sedurre chi non ha mai veduto oltre l’esterno delle cose, e non ha mai pensato alla parità dei diritti concessi da Dio a tutte le sue creature, e per conseguenza alla somma di benefizi necessari perchè il potere assoluto dei sovrani sia legittimo o per lo meno giustificato. Ma chi parla senza riflettere, non opererebbe sempre colla egual leggerezza ed inconsideratezza. D’altra parte questi divoti agli antichi padroni non saranno mai in numero sufficiente per formare neppure un nucleo di fazione politica. Il passato non ha lasciato fra noi che amarissime memorie, dolorosissime cicatrici; e se a quei malcontenti, che più aspramente si lagnano del governo italiano, venisse dimostrato che colle loro lagnanze essi rendono possibile il ritorno del passato, tutti farebbero silenzio, ed in questo persisterebbero quanto lo permetterebbe il loro naturale, oltremodo inclinato alla critica ed al biasimo. — Il solo partito che potrebbe far valere alcun titolo al nome di fazione politica, ed i cui membri siano veramente sostenuti, animati, e condotti dallo spirito di parte, si è il partito così detto clericale. Questo sa che cosa vuole, e perchè lo vuole, riconosce dei capi, e da questi si lascia guidare. Ogni fazione politica si divide in due categorie: l’una comprende gli uomini di buona fede, che si sforzano di conseguire un risultato, perchè lo credono giusto e salutare; l’altro si compone di ambiziosi o di cupidi, che dal trionfo della loro fazione aspettano il privato loro vantaggio. - Di questi ultimi non occorre parlare, poichè sono in ogni tempo e in ogni condizione i medesimi; ma i primi hanno un carattere proprio, che li distingue dai clericali politici di qualsiasi altro paese, e di questi parlerò con qualche estensione.
La fazione clericale è naturalmente e in ogni dove la più formidabile delle fazioni politiche: non solo perchè ne è la più compatta, la meglio disciplinata, la più docile ai comandi de’ suoi capì, e quella i cui capi sono più prudenti, più accorti e più illuminati di tutti; ma altresì perchè i faziosi che ad essa appartengono credono, mantenendosi tali ed operando come tali, di compiere un sacrosanto dovere, e sono convinti di riceverne quindi una rimunerazione che di gran lunga avanza ogni terrena, ogni mondana prosperità o ventura. La superiorità di tale fazione sopra qualsiasi altra è dovuta inoltre alla sua tendenza ad unirsi e ad associarsi a tutti coloro che piangono altri beni perduti, e che per un motivo o per l’altro sono a buon diritto annoverati fra i retrogradi.- Questo nome di retrogradi si applica generalmente ai clericali, che vorrebbero ricondurre le moderne società ai tempi in cui il clero primeggiava per la sua superiore istruzione e coltura, e gli venivano attribuite autorità e virtù speciali, come suoi esclusivi privilegi. Questa tendenza della fazione clericale ad impossessarsi e ad inscrivere su’ suoi roli tutti i retrogradi, non si verifica nei clericali italiani del secolo decimono- no. - In primo luogo il rinforzo, che i retrogradi fornirebbero alla fazione clericale coll’unirsi ad essa, sarebbe di pochissimo momento; ma il discredito in cui sono fra noi caduti i retrogradi è tale, che la loro alleanza colla suddetta fazione potrebbe riescirle dannosa ed indebolirla, distaccando da essa molti de’ suoi partigiani, i quali essendo di buona fede vogliono conservare i beni politici acquistati nel 59, cioè la libertà e l’indipendenza, segnando loro per limite le prero- gative e le immunità ecclesiastiche o clericali; quelli insomma che sottoscrivono alla massima del Cavour, libera Chiesa in libero Stato, dando però a quelle parole un significato assai diverso da quello che loro dava lo stesso Cavour, cioè confondendo la libertà della Chiesa coll’autorità e col potere de’ suoi ministri. — Cavour intendeva dire, che il capo dello Stato non doveva considerarsi come capo della Chiesa, nè seguire in ciò l’esempio di Enrico VIII d’Inghilterra, nè quello degli Czar della Russia, nè di alcuni altri sovrani di nazioni che professano la religione cristiana riformata; ma che la Chiesa italiana doveva essere indipendente nelle sue relazioni colle coscienze dei fedeli, e in tutte quelle cose che non cadono sotto il dominio della legge civile; mentre i clericali che sottoscrivono al detto, libera Chiesa in libero Stato, intendono che la Chiesa, ossia il clero sia libero di modificare l’ordinamento politico e civile, opponendosi ad esso quando ciò gli sembra opportuno, e debba conservare nella sua qualità di clero quelle immunità e privilegi, di cui godeva nel passato, ed a cui nessun laico pretende. — Ognun vede quale differenza passi fra codesti clericali ed i retrogradi, i quali vorrebbero richiamare il passato con tutte le sue sciagure e le sue vergogne. Ed i nostri clericali sentono così fortemente il bisogno di appoggiarsi a tale differenza, loro salvaguardia rispetto alla pubblica opinione, che ne menano gran vanto; e quand’anco i retrogradi fossero assai più numerosi che non lo sono di fatto fra noi, credo che i clericali ne respingerebbero l’alleanza, piuttosto che correre il pericolo di essere confusi con loro.
La rivoluzione, o per meglio dire il risorgimento della nazione italiana, ha creato un inevitabile antagonismo fra il clero e la parte laica di essa. — La più apparente origine di tale antagonismo si fu la quistione romana, cioè la pretesa (giusta a parer nostro) di considerar Roma come qualunque altra città italiana, di lasciare ai romani la facoltà di disporre di sè stessi, e di scegliere se vogliono rimanere sudditi del Pontefice, o unirsi a tutto il rimanente d’Italia, di cui la città loro sarebbe necessariamente, perchè naturalmente, la capitale. — Contro sì fatta pretesa insorgeva e protestava la Corte romana, asserendo esserle il potere temporale affidato dallo stesso Supremo ordinatore delle cose create, non altrimenti che le affidava l’autorità spirituale come capo della Chiesa, per gli stessi fini, e per tutto il tempo che si manterrà questo nostro pianeta e questa nostra razza di esseri organizzati. Di tale asserzione si sdegnava alla sua volta l’Italia, e più fervorosamente sosteneva i diritti dei romani a disporre di sè medesimi come tutti gli altri popoli inciviliti, a cui la moderna società riconosce gli eguali diritti. — Così nacque l’antagonismo che tuttora esiste fra il clero ed i laici d’Italia; e nel suo nascere poteva trascinarci ad atti violenti, se la Francia non fosse intervenuta a porre il Pontefice sotto l’egida della propria bandiera. — Ed ora, sebbene gli abbia levata una tale protezione, la suppliva mediante una convenzione che ci preclude ogni via di fatto in favore dei diritti del popolo romano. — Ma questi diritti sussistono, sebbene non sieno apertamente confessati dalla maggioranza delle nazioni cattoliche, alle quali conviene verosimilmente che il capo della chiesa cattolica sia in una condizione elevata e in apparenza indipendente, e non le richiegga di protezione o di sussidio ogni qual volta l’esigessero le sue circostanze. — Tale convenienza può essere discussa e sostenuta con argomenti che hanno certo il loro valore, e si può mettere in bilancia coi diritti della popolazione romana e cogli interessi dell’Italia tutta, senza suscitare fra i difensori di quella e dell’altra opinione nè atti, nè sentimenti di nimicizia. — Ma ciò che eccita lo sdegno degli italiani, è appunto quel confondere la convenienza politica degli uni e degli altri coi doveri del cristiano, e quel far intervenire la santità della religione, e tutto ciò che ad essa ne lega, in una quistione tutta mondana e politica, benchè interessi il ben essere del clero, e le prerogative a cui esso non vuol rinunziare. — Di ciò appunto si sdegnano gli italiani; e se la quistione politica non è degenerata in quistione dommatica, in uno scisma o in una eresia, dobbiamo renderne grazia al profondo senso religioso della nazione italiana, che si mantenne sin qui non meno salda nella convinzione e nella difesa de’ suoi diritti civili, e politici, che nella integrità della sua fede.
La religione cattolica è tuttora professata e rispettata dagli italiani, ma il clero è da essi veduto con diffidenza e sospetto. — Da ciò risulta che la fazione clericale, sebbene comprenda nelle sue file pressochè tutto il clero, non conta molti partigiani nella parte laica della nazione, ed ha poca probabilità di farsi mai più numerosa. — Ora, sino a tanto che il clero solo propugna i propri interessi, la fazione clericale non può dirsi veramente fazione politica, o per lo meno non può essere come tale di molta importanza e gravità. — Il clero superiore, che guida e regge il basso clero, non manca di prudenza nè di destrezza nella condotta degli affari di questo mondo; e giudica con bastevole accorgimento lo stato suo, e le conseguenze che potrebbero avere le mosse avventurate che alcuni gli consigliano. — Esso intende benissimo che non può tentare alcun passo sulla via della resistenza aperta, se non ha ottenuto in prima il concorso di buona porte della società laica; e tale concorso si sforza di ottenerlo operando sulle coscienze più timorose, ed in particolare sulle coscienze femminili, e su quelle dei giovanetti, la cui educazione è ad esso affidata.
Ma tali sforzi, sebbene sostenuti con zelo indefesso, non sono però confortati dalla speranza di un prossimo e felice successo. — I capi della fazione clericale, e molti dei loro militi altresì, giudicano assennatamente la condizione loro, e vedono che l’opinione pubblica, sebbene oscillante e malferma in molte quistioni che si riferiscono alla nuova vita civile e politica a cui testè rinacquero gli italiani, non si volge però mai verso di essi con fiducia e favore. Coloro, i quali difendono i propri privilegi dicendoli a loro concessi da Dio stesso e per tutti i secoli avvenire, non possono ispirare confidenza alle nostre popolazioni, tutte intente ad affrancarsi o rinforzarsi nel possesso dei loro diritti, contro ogni potere che vanta per sua origine il diritto divino. — Le pretensioni pontificie ad una teocrazia senza limite e senza fine, suonano agli orecchi degli italiani come l’ultima e la più esagerata espressione di quelle consimili pretensioni, sostenute sino ai giorni nostri da tutti i sovrani assoluti, la cui caduta fu la nostra salvezza.
La fazione clericale ha dunque poche eventualità di felice successo; ed i suoi capi, saggi ed avveduti, sentono come vacilla il suolo su cui posano, ed agiscono quindi con somma prudenza e cautela. Noi dobbiamo aspettarci dai clericali una guerra coperta, mascherata, senza tregua; ma nulla abbiamo a temere da essi che sappia di violenza, e che ad essi soltanto imputare si possa. — In una parola, l’ora del risorgimento d’Italia fu per essi l’ora della decadenza come corpo civile e politico; al che non si rassegneranno, se non quando alla rassegnazione si vedranno costretti dalla necessità. Sino a quel momento essi saranno irreconciliabili nostri nemici; ma nemici prudenti, nemici non per passione di nimicizia, ma soltanto in quella misura che richieggono gli interessi loro come classe privilegiata della società e della nazione. Prima di chiudere questo esame delle fazioni politiche contro cui l’Italia deve stare in guardia, è necessario ch’io dica alcune parole in proposito di una di esse, nata recentemente, inaspettatamente, laddove appunto sembrava che nessuna fazione potesse germogliare; fazione che nel breve corso di sua esistenza è già stata di grave danno all’Italia, creando nuovi ostacoli alla libera azione del suo governo, e risvegliando nelle estere nazioni una certa diffidenza del carattere italiano, di cui avevano salutato la trasformazione con favore e simpatia.
Voglio parlare della fazione conosciuta sotto il nome della Permanente, e che si compose sulle prime di un gran numero di cittadini torinesi, sdegnati sino al delirio dall’inaspettato annunzio della convenzione stabilita fra i governi d’Italia e di Francia, per la quale la sede del nostro governo si trasferiva da Torino a Firenze. — Gli animi inaspriti, le menti offuscate e forviate dall’ira, non ascoltarono che la voce della passione, e giunsero sino a sospettare, che dico? ad affermare come cosa provata e certa, che il Piemonte era ceduto alla Francia, e che la partenza di Vittorio Emmanuele da Torino altro non era che il prologo alla entrata che vi farebbe in breve Napoleone. — Lodi sieno rese al Piemonte, che non seguiva l’impulso dato dalla sua capitale, ma rimaneva freddo e dolente spettatore delle lugubri, sebbene puerili scene, che insanguinarono Torino nel settembre del 1865.
Il grosso della popolazione torinese però non durò lungo tempo in quel delirio, e riparò degnamente i suoi errori di un giorno, facendo ciò che avrebbe dovuto far subito, e che avrebbe fatto se non lo avessero trascinato i direttori del movimento; cioè esaminò coraggiosamente i danni che ad esso poteva produrre il trasferimento della capitale, e ricercò le vie aperte alla notevole sua energia, per rimediarvi, bilanciarli e compensarli. — Le burrascose discussioni, che seguirono in quegli stessi giorni nel parlamento, e dalle quali i malevoli speravano nuove provocazioni e nuove catastrofi, non eccitarono la minima agitazione popolare; e il popolo torinese col suo contegno dignitoso diede il più sicuro indizio che il pentimento era stato in lui piuttosto contemporaneo che posteriore all’offesa, e che sulla sua sagacità come sul suo patriottismo l’Italia poteva tuttora e doveva fidare. E di tanta moderazione e virtù ricevette prontamente la meritata mercede; imperocchè chi vuol essere veritiero e di buona fede riconosce, che la città di Torino non ha sofferto dal trasferimento della sede governativa tutti quei danni che la minacciavano sulle prime; che essa non è rovinata ad un tratto dalla condizione di capitale di uno stato di primo ordine a quella di città di provincia, come sono le città francesi; ma che la energica ed intelligente operosità della sua popolazione le ha creato parecchie fonti di prosperità, parecchi centri d’industria, che tirando a sè i forestieri coi loro capitali formano un abbondante compenso al movimento ed alle ricchezze piuttosto apparenti che reali e sostanziali che circondano le Corti. — La fazione detta la Permanente non si compone dunque più che di pochi signori torinesi, fra i quali v’hanno dei partigiani del passato, dei così detti retrogradi, che dissimularono sulle prime il loro rammarico e il loro dispetto, perchè temevano appunto di essere additati come retrogradi, e che oggi credono di aver trovata una maschera sotto la quale possano dare sfogo ai loro odi e alle loro avversioni, senza che alcuno sospetti la vera origine degli uni e delle altre. Come in ogni fazione, v’hanno anche in questa degli uomini forviati, accecati, ma di buona fede, che credono o che si sforzano di credere che avversano il trasferimento della capitale per motivi patriottici; perchè il trasferimento della capitale a Firenze ne ritarda il trasferimento definitivo a Roma, perchè l’allontanamento della sede governativa dal Piemonte abbandona questa parte importante d’Italia alle ambiziose mire della Francia, ecc.
Ma tali pretesti non possono illudere lungamente chi li adopera per giustificare i propri errori; e la sola conclusione che possiamo da essi cavare si riduce a questo: che se col trasferimento della capitale a Firenze il nostro governo si è esposto a qualche imbarazzo o qualche pericolo, spetta a’ suoi veri amici, agli amici cioè del paese ch’esso rappresenta, di stringersi vie più a lui d’intorno, di prestargli vieppiù valido aiuto; mentre il creare nuovi ostacoli alla sua libera azione, per fargli sentire che alienandosi l’animo di alcuni suoi vecchi amici, esso si è spogliato di gran parte della sua forza, altro non è che una puerile ed ingiusta soddisfazione, procurata all’amor proprio di alcuni pochi, a spese dello stesso governo, ossia del paese.
La fazione detta la Permanente, nata dal dispetto di un certo numero di cittadini torinesi, è condannata dalla stessa sua origine e natura alla sterilità, cioè a non estendersi mai al di là del piccol centro che le diede la vita; e se la opposizione piemontese nel parlamento spiega talvolta proporzioni ragguardevoli, ciò accade per circostanze fortuite, e non già perchè s’ingrossi il numero dei Permanenti. Il numero di questi andrà anzi sempre più scemando, secondochè si stancheranno dell’isolamento in cui si sono posti, e dell’obblio in cui vanno cadendo. Un pronto ed aperto ritorno a sentimenti migliori, un abbandono esplicito delle loro indebite pretese, e dell’aria minacciosa che presero in faccia al governo, possono solo redimere ancora quelli che persistono a presentarsi come i direttori e i capi della Permanente.
Da questo rapido esame dello stato delle fazioni politiche in Italia parmi si possa concludere, che lo spirito di parte non vi giunse ad un grado di sviluppo e di forza tale da svegliare i timori dei veri amici d’Italia.— Il fatto è che gli italiani si lasciano trasportare dalla vivacità del loro carattere e delle loro passioni, e dalla naturale loro disposizione a criticare e censurare tutto ciò che viene presentato al giudizio loro; a proferire delle parole spesse volte violenti ed amare, che fanno supporre in essi sentimenti ostili al governo ed all’ordine di cose esistenti: sentimenti che in verità non esistono, o che si spengono nelle parole stesse che li esprimono. — Ciò che distingue gli italiani dagli altri popoli meridionali è questo, che alla vivacità della fantasia e delle passioni, comune ad essi tutti, gli italiani accoppiano una forte dose di buon senso pratico, come si suol dire, che non appare sempre nei loro discorsi, ma fa sentire il suo impero quando si vuol passare dalla sfera delle parole a quella degli atti. Nonostante i lamenti degli uni, e le declamazioni degli altri, non v’ha per così dire italiano, che non sappia che tutte le piaghe di cui soffre oggi il paese, non sono imputabili al governo, e nulla hanno che fare con questa o quella forma di costituzione. Un paese che si regge e si governa coi propri rappresentanti, non può accusare de’ suoi danni che sè stesso, o le circostanze a sè stesso avverse. Gli italiani ben sanno che se il numero degli uomini di stato a cui si possa affidare la direzione degli affari nazionali è ristretto, esso non si accrescerebbe perchè alla monarchia subentrasse la repubblica, e perchè un presidente occupasse il seggio ora riserbato al re. Gli italiani ben sanno che la composizione delle camere, in cui nessuno riesce a formare una maggioranza durevole, è l’effetto dell’ignoranza e della indifferenza degli elettori, e non già dell’azione governativa. Gli italiani sanno inoltre che la virtù ad essi negata sin qui dall’Europa tutta, quella che per la prima volta fu in essi riconosciuta dopo il 59, e che ottenne loro la simpatia e la benevolenza delle estere potenze, è la costanza, e la moderazione nella costanza; e che quand’anco fosse per noi evidente, il che non è, che i plebisciti di quell’epoca erano basati sopra una erronea nozione di ciò che all’Italia occorreva e conveniva, il confessarlo oggi, ed il mostrarci disposti ad un nuovo cangiamento di stato, sarebbe poco onorevole per noi, e ne toglierebbe ad un tratto tutto ciò che abbiamo acquistato dal 59 in poi nella pubblica opinione. — Tutte queste riflessioni, che riescirebbero forse impotenti a combattere uno spirito di parte quale lo abbiamo veduto in altri tempi ed in altri paesi, hanno bastato sin qui, e spero che basteranno ancora nell’avvenire, a trattenere gli italiani da qualsiasi atto, che potesse scuotere nelle sue basi il nostro governo, il governo da tutti acclamato or sono sette anni, o che solamente facesse credere ai nostri vicini che tale sarebbe il nostro desiderio.
Il governo rappresentativo ossia parlamentare lascia un vasto e libero campo alla diversità delle opinioni. — Le dottrine più svariate e contradditorie possono manifestarsi e conquistare il primato sopra le altre, purchè coloro che le sostengono giungano a renderle accette alla maggioranza dei cittadini, senza che l’edificio supremo governativo nè crolli, nè minacci di crollare. Il più eminente fra i pregi della monarchia costituzionale è questo appunto, che essa non è il frutto del trionfo di una fazione, e non è necessariamente legata ad un assieme di dottrine politiche, ma le domina tutte coll’accettarle alla prova, senza dare alle estere potenze il temuto scandalo di ripetuti sconvolgimenti. Se le opinioni del partito che dicesi d’azione non furono sinora applicate dal nostro governo, ciò non dipende da incompatibilità nessuna di quelle colla forma monarchica di questo; ma soltanto dal fatto, che nessuno fra i rappresentanti di tali opinioni si è sentito sin qui abbastanza forte e sicuro di una maggioranza nel parlamento come nel paese, da indurlo ad accettare il potere che ad alcuni di essi fu più di una volta offerto.
Gli italiani o la immensa maggioranza degli italiani sanno tutte queste cose; e se la scienza loro non li trattiene dal proferire parole poco assennate e per nulla in armonia coi loro serii pensieri, essa ha però un’azione sufficiente per impedire che dalle parole si passi ai fatti.
Riflettiamo altresì, che la sola fazione che meriti veramente un tal nome, e che potrebbe suscitare ne’ suoi membri il pericoloso spirito di parte, è così specialmente costituita, che il suo desiderio più ardente è quello di nascondere sè stessa, di farsi dimenticare dal pubblico, e di non accrescere di troppo il numero dei suoi partigiani, per timore di venire da essi compromessa. La fazione clericale aspetta il suo trionfo dal tempo, da scaltri maneggi diplomatici e segreti, non da lotte materiali e violenti. — Noi crediamo al contrario che il tempo impiegato da essa in intrighi, dissimulazioni e maneggi, sarà il suo più fiero nemico. — Ma in ogni caso, e qualunque sia l’esito che l’avvenire serbi alle nostre dissensioni, vero è però che oggidì quella fazione non ne minaccia imminenti pericoli; ed è totalmente assorta nella conservazione di sè medesima.
Ricordiamo ora a qual segno di acciecamento e di passione erano giunte le popolazioni della Francia, dell’Inghilterra, dell’America e di tutti i paesi che attraversarono le burrascose regioni di un politico sconvolgimento, e renderemo grazie a Dio che maggiori sciagure non abbia chiamato sul nostro paese lo Spirito di Parte. 1