Oro incenso e mirra/Incenso/Capitolo I
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I.
Un signore, che villeggiava presso il suo paesello nell’estate, lo aveva un giorno scherzosamente chiamato «vescovo», e quel nomignolo gli era rimasto.
Era un povero ragazzo di sedici anni, benchè ne mostrasse appena tredici, lungo e sottile quasi quanto la grama veste talare, che il parroco gli aveva regalato per quella occasione della sua discesa al seminario della città, famoso in tutta la provincia perchè Vincenzo Monti, il grande poeta romagnolo, e forse il solo poeta delle Romagne, vi aveva fatto gli studi nella seconda metà del secolo passato. Ora il seminario non valeva gran cosa come scuola, ed è probabile che anche allora non valesse di più. Ad ogni modo pel «vescovo» era stato quello il massimo, indimenticabile giorno della sua giovine vita. A casa la mamma era morta tisica da un pezzo: vi rimanevano il babbo alto e secco, buon uomo, di carattere mite, con due figlie già grandi ed un ragazzetto: erano cinque in tutto, e il padre, cantoniere della provincia, non aveva che quarantacinque lire al mese di stipendio. I conti non furono difficili, ne diede dieci a Giannino, che andava a farsi prete, e serbò le altre trentacinque per il resto. La miseria diventava presso a poco eguale da ambo le parti.
Con quei dieci franchi al mese Giannino doveva campare da novembre a luglio pensando ai libri, alla carta, alle penne, al lume, a tutto: un grasso, grosso e ricco prete del paese, ora morto, che possedeva nella città una bella casa, gli concesse gratis un piccolo granaio; nella stessa casa abitava una vecchia, povera, sorella del prete. Fu dunque mandato giù per un carrettiere un letticciuolo, un tavolinetto, quattro lenzuoli, due salviette, una coperta e null’altro; Giannino calò tre giorni dopo con un fagotto, nel quale aveva messo i libri e pochi cenci di biancheria, ma l’arciprete ammirato dal suo coraggio gli aveva regalato un vecchio mantello, perchè se ne servisse contro il freddo nell’inverno.
Il futuro «vescovo» penetrò nella città a piedi, poco stanco malgrado le venti miglia fatte, perchè la giornata era bella; un magnifico sole stendeva le sue ultime dorature su tutta la campagna, e le passere svolazzavano monellescamente lungo le siepi. Avrebbe potuto salire gratuitamente in quel lungo tratto di strada su qualche biroccia scarica, ma la dignità della veste ecclesiastica e un giovanile orgoglio del primo viaggio glielo vietarono. Andò difilato alla casa circa nel mezzo del Corso, pel quale era entrato, e si presentò alla vecchia. Questa viveva all’ultimo piano in due camerette nude e gelide, appunto sotto il piccolo granaio, nel quale aveva essa medesima disposto il letto per lui. Era curva, mal vestita, con pochi denti in bocca e due occhietti grigi di falco sotto la fronte rugosa. Si era ridotta così per alcune scappate di gioventù, che l’avevano guastata col ricco fratello senza che si fosse più potuta rappattumare con lui. Egli non le mandava quasi nulla, permettendole solo di alloggiare in quella casa; ella viveva non si sa di che.
Il ragazzo era simpatico. Le loro due miserie si vollero bene quasi subito, d’istinto. Giannino le raccontò tutto, l’altra taceva. Nella camera, sopra un fornello di terra cotta, fumava un pentolino.
— Vuoi farti prete come mio fratello: egli avrebbe potuto almeno darti qualche cosa.
Il ragazzo sorrise lietamente, poi le mostrò la carta da dieci lire e volle consegnargliela per evitare tutti i rischi: in tasca gli rimanevano ventotto soldi regalatigli dalle sorelle, tre dei quali erano del fratello più piccolo. Egli aveva già fatto in testa il proprio bilancio: bisognava spendere meno di sette soldi al giorno calcolando che gli altri pochi soldi necessari per le penne, per la carta e per il lume potesse guadagnarli da chierico in qualche funzione: lo stesso carrettiere che aveva portato il letto, era disposto a riportare gratuitamente al villaggio ogni quindici giorni il fagottino della biancheria, perchè le sorelle potessero lavarla.
Dal momento che l’acqua non costava nulla e il pane lo si vendeva sei soldi il chilogramma, gliene rimanevano tre per il companatico, perchè il ragazzo sapeva di poter vivere con solo mezzo chilo; poi ad ogni vacanza di Natale, di carnevale e di Pasqua, sarebbe tornato al paese per una settimana, e là mangiando cogli altri avrebbe risparmiato i sei soldi quotidiani.
La vecchia non era solita a spendere molto di più: un caffè col latte la mattina, tre soldi di minestra a pranzo, presso a poco altrettanto da cena. Questo impossibile bilancio era purtroppo vero, ma la vecchia non propose nulla: fu il ragazzo che coll’adorabile confidenza della sua età la pregò di tenerlo a dozzena. Ella ricusò per non aver responsabilità, quindi finì coll’accordargli che avrebbero mangiato insieme quei giorni che essa accenderebbe il fornello: negli altri ognuno restava libero di uscirne come poteva.
E così il «vescovo» cominciò la carriera ecclesiastica. L’altro vescovo vero della città, ricco ed avaro, niente impietosito del caso, gli concesse appena la esenzione dalle tasse di scuola, ammonendolo severamente che in quella vita fuori del seminario, fra i pericoli del mondo, avrebbe dovuto vigilare doppiamente sopra sè stesso. Il ragazzo pieno di timore dinanzi a quell’alta autorità, che un viso burbero, butterato dal vaiuolo, rendeva in tale momento anche più terribile, non sentì nemmeno il ridicolo di simili ammonizioni contro i piaceri mondani, dai quali i dieci franchi al mese lo garantivano anche troppo bene.
Al primo esame d’ammissione i professori gli furono benevoli, invece entrando nella classe gli piovvero addosso dileggi da tutti i banchi. Naturalmente i seminaristi esterni, (si chiamavano così quelli che praticavano solamente le scuole) erano i più poveri: nel seminario affollato di centocinquanta allievi, una categoria, quella dei ricchi, che pagavano intera la dozzena, vestiva di rosso, un rosso splendido, abbacinante; l’altra, di coloro a mezza dozzena, portava la veste nera con una larga fascia rossa a nodo sulla cintura: i paria del di fuori vestivano da prete come potevano. Spessissimo il nero dei loro abiti diventava rameo, ferrigno, gialliccio: tutta la gamma delle slavature vi si mostrava al sole, i cappelli di felpa lasciavano dalle cuciture passare il cartone, i mantelli nascondevano male i propri buchi fra le pieghe, mentre le scarpe al disotto sembravano sorridere con troppa allegria di tutti questi inconvenienti. Nullameno anche fra questi esterni vi erano delle suddivisioni: alcuni vivevano abbastanza bene presso qualche parente, tutti avevano già delle relazioni, mentre Giannino non conosceva nella città che il signore, dal quale aveva già ricevuto il soprannome di vescovo. Questi, ancora giovane, era caduto poco prima assai pericolosamente, azzoppandosi dalla gamba destra.
Quel primo inverno fu rigidissimo.
Il piccolo «vescovo» tutte le mattine sulle otto passava per il Corso, svoltando all’angolo del palazzo Zannoni per andare al seminario senza attraversare la piazza, giacchè la miseria degli abiti e l’aria sparuta del viso lo avevano segnalato alle atroci buffonerie dei monelli, che una volta gli erano già corsi sopra a palle di neve fra le risate di tutti.
Nullameno il suo coraggio, simile a quello dei passeri che seguitano a cantare anche quando la neve ha coperto tutti i campi, non aveva bisogno di molti sforzi per resistere a tale vita. La mattina non faceva colazione: tornando a casa dal seminario, se per la vecchia Geltrude non era giorno di fornello, comprava in una piccola bottega, sempre la stessa, il solito mezzo chilo di pane bruno e tre soldi di frutta o tre soldi di maiale; divideva il tutto in due parti, e la giornata era trascorsa. Nel pomeriggio bisognava tornare a scuola, poi andava a spasso se non capitava qualche funzione di chiesa, e finalmente a letto col mantello dell’arciprete e tutti gli altri vestiti sulle coperte. Lì studiava allo scarso lume di un lanternino a petrolio, ma anche questo bisognava non lasciarlo ardere troppo. Ai libri aveva già provveduto: un canonico ricco e quasi pazzo per le anticaglie gliene aveva prestati parecchi, alcuni fra i migliori compagni ne diedero altri, da ultimo un ex professore di filosofia, prete buono e strano, malviso al vescovado, gli fornì il resto. Restava ancora la spesa per la carta quando non gli riusciva di farsela regalare.
Nel primo mese guadagnò sedici soldi in due accompagnamenti funebri al cimitero, e potè così comprare qualche quaderno con un cartoccino di penne: a quella per le male copie pensavano i manifesti delle colonne. In una sera di neve, rincasando sull’ora di notte, aveva osato strappare un lembo di avviso che il vento gli sbatteva quasi sul volto: sulle prime, spaventato della propria audacia, credette in buona fede che i manifesti non si potessero rompere, poi si rinfrancò e, avendo studiato nel giorno i luoghi più propizi, usciva la sera circa sulle otto a fare così la propria provvista.
Era una vita povera e semplice, alla quale per diventare sublime sarebbe bastata la coscienza del sacrifizio.
Egli invece non ne sapeva nulla: aveva una voglia ardente di farsi prete in quel fanciullesco entusiasmo delle prime preghiere e dei primi abbarbagli mistici: sapeva che a casa il padre e le sorelle mangiando quasi sempre formentone lavoravano anche più di lui, ed egli li amava dolcemente, senza passione. Alla parrocchia futura non pensava mai, anzi quando il padre gliene aveva parlato sognando già di riposarsi vecchio all’ombra del campanile figliale, egli ne aveva quasi sofferto: benchè torbido, il suo sogno sarebbe stato di studiare sempre e magari di predicare, se la voce glielo avesse permesso.
Ma allora era troppo gracile, con un collo non più grosso di una canna e una voce roca, attraverso la quale tratto tratto passavano sibili di mal augurio. Non ci voleva meno di una giovinezza così casta e calma per non provocare lo stesso terribile malore, del quale la mamma era morta, appiattato quasi visibilmente sotto le sue carni biancastre.
Giornali non ne leggeva perchè scomunicati, poi i compiti di scuola lo tenevano occupato tutto il giorno. Egli voleva figurarvi fra i migliori nella speranza per sè e pe’ suoi di essere l’anno venturo accolto gratis nel seminario, come ad alcuni altri era accaduto. Ma il suo ingegno non era molto, e la miseria invece di attirargli simpatie gli manteneva intorno quella diffidenza fredda, che tutti sentono per la gente troppo povera.
Solo quel vecchio professore di filosofia sembrava prediligerlo: ma anzitutto, poverissimo anch’egli e malato nelle gambe, viveva con una sorella altrettanto vecchia, poi afflitto da una formidabile voracità non aveva di che appagarla in casa propria. Però gli era rimasto dell’abitudine professorale un bisogno insaziato di ripetere le antiche lezioni di seminario, le stesse che vi si danno oggi ancora, tutto un guazzabuglio di frasi e di pensieri dentro un mulinello di sillogismi buoni tutto al più per divertire l’incapacità di un seminarista, ma che per lui erano invece tutta la verità possibile allo spirito umano. Il suo odio contro Rosmini, del quale negava iracondamente anche l’ingegno, lo faceva alla prima obbiezione uscire dai gangheri.
Sulle quattro pomeridiane, finita l’ultima lezione, il «vescovo» doveva quindi andare da don Riva in via del Filatoio per accompagnarlo a spasso: uscivano adagio dall’uscio alto tre scalini e andavano lungo il muro verso porta Montanara. Il vecchio appoggiato sul bastone, colla grossa testa bianca, un mantellone bigio e le povere gambe grosse come due tronchi, parlava forte fermandosi spesso con un gran gesto della mano sinistra per confermare un argomento. Le ragazze sorridevano incontrando quella strana coppia.
Forse la loro più lunga passeggiata fra andata e ritorno non oltrepassava un chilometro, ma v’impiegavano un’ora e mezzo: qualche volta il «vescovo», sospeso quasi gelosamente a tutte le parole dell’altro, osava una obbiezione che faceva fermare di botto il professore.
— Ah! tu credi — ribatteva coll’aspra superiorità del dotto, cui l’invidia degli emuli contristò la vita fra l’ignara indifferenza del pubblico: — ecco....
E spessissimo invece di rispondere all’argomento oppostogli non faceva che ripetere il proprio.
Nullameno quella vita era ben dura. Ogni giorno l’ingenua confidenza del ragazzo riceveva atroci smentite: come tutti i buoni, specialmente quando sono poveri, egli aveva preso alla lettera le parole di carità, di amore, di pietà verso Dio e verso gli uomini, che sbocciavano come piccoli fiori celesti nei manuali di preghiere, o passavano con una sonorità grossolana in tutte le prediche dei parroci. La sua anima innocente aveva sperato quasi colla certezza della fede che nel seminario tutti i professori gli farebbero da padre e i compagni da fratello, mentre il vescovo alto e solenne nella dolcezza della propria autorità avrebbe vegliato su lui come un santo. Invece i professori simili a tutti gli altri maestri praticavano di mala voglia il proprio mestiere prediligendo gli scolari più servili, o dai quali potessero nelle feste attendere qualche regalo; i compagni, come quelli del suo villaggio, gareggiavano odiandosi reciprocamente e i più ricchi dominavano fra di loro, mentre egli povero, colle scarpe rattoppate e quella vesticciuola talare tutta a rammendi, diventava il bersaglio di ogni motteggio. Persino la mingherlina struttura gli nuoceva. Poi avendo confessato imprudentemente ad un amico di campare con sette soldi al giorno, questo miracolo di sacrificio parve a tutti ignobile, e lo battezzarono «Ugolino» il sublime affamato del più tragico fra i canti di Dante.
Egli sulle prime rispose, poscia piegò la testa piangendo.
Alle funzioni ecclesiastiche gli accadeva lo stesso; i preti se ne disputavano i pochi lucri accorrendo di lontano alle buone messe, mercanteggiando tutti gli uffici con una crudità di linguaggio troppo inconsapevole, perchè non fosse una necessità della loro vita. Al disotto di loro i chierici si aspreggiavano anche più biricchinescamente nella contesa dei piccoli servigi, pagati a soldi, così che abbisognava davvero il caso di una gran festa o di un mortorio molto ricco perchè il povero Giannino vi potesse penetrare.
Il suo incasso più lauto in un mese furono tre lire. Siccome nessuno era più magramente vestito di lui, si divideva dai compagni sulla porta del seminario per tornare a casa coi libri stretti da una correggia fra due assicelle, scantonando vergognoso ai vicoli, colla bocca sempre sorridente per un difetto del labbro superiore e gli occhi buoni ombrati da ciglia lunghissime. I suoi giorni migliori erano quelli di vacanza, il giovedì e la domenica, perchè poteva restare a letto fino alle dieci leggendo qualche libro prestatogli da don Riva, mangiando ad un’ora dopo mezzogiorno la minestra calda colla vecchia Geltrude. Questi erano sempre giorni di fornello: Giannino vi metteva tre soldi, essa quattro per cucinare generalmente dei maccheroni: talvolta la vecchia vi aggiungeva un pezzo di formaggio o di tonno o una pera.
Due volte l’anno — per santa Geltrude e per la madonna della chiesa di San Francesco, la madonna mora come la chiamavano le treccole — ella lo convitava per quel bisogno anche nei più miseri, specialmente quando vivono solitari, di fare un sacrificio a qualcuno. Ma il ragazzo alla prima occasione rendeva l’invito aggirandosele intorno con una festosità di cagnolino, mentre l’altra cucinava il suo regalo: e quei giorni egli parlava anche di più, colla illusione di aver mangiato il doppio, sebbene qualche po’ di fame gli fosse egualmente rimasta. La vecchia invece discorreva sempre pochissimo, stava molte ore del giorno fuori guadagnando misteriosamente quanto le serviva a campare, poi rincasava con un grosso caldano pieno di carbonella, che si metteva sotto le sottane, e nell’angolo della prima stanzetta presso la finestra ricominciava a fare la calza.
Passavano dei giorni interi senza vedersi.
Ella non saliva al granaio se non per spazzarlo perchè il ragazzo si rifaceva il letto e si tirava l’acqua necessaria da sè. E nei momenti più tristi della sua solitudine, appena sbocconcellato in piedi, alla finestra, il poco pane, scendeva da lei per sentirsi dire qualche parola con uno di quei bruciori di essere amato, così dolorosi nella giovinezza quando la mamma sola potrebbe ancora accarezzarci come un bambino, ed è morta invece da gran tempo, ella lo salutava senza parlare con una occhiata, reclinando subito dopo la testa sulla calza.
La finestra di quella cameretta, come l’altra del suo granaio, davano sui tetti di contro; non si vedeva che un piccolo piano inclinato, rigato, muffoso, scuro: quasi nessuna voce arrivava fino lassù, i vetri erano appannati, il freddo più intenso che nella strada. La vecchia andava a letto sull’avemaria per non accendere il lume, chiudendosi dentro a catenaccio; egli rincasava un’ora e mezzo o due ore dopo per fare altrettanto, spesso sorpreso da un gelo, che nemmeno il letto bastava a vincere, perchè gli veniva dallo stomaco non abbastanza pieno. Faceva tutto a letto, le preghiere, le lezioni, i conti, i sogni, nei quali la giovane fantasia si rifugiava coll’istinto degli uccelli, che cercano il bosco, ma dai quali usciva spesso con una stanchezza desolata.
Quanti anni gli occorrerebbero per diventare prete? Anche senza perderne alcuno, fra rettorica, filosofia, morale, teologia, tutti gli ordini e il tempo della coscrizione, sarebbero sette; sempre così solo, come un piccolo viaggiatore smarritosi al primo viaggio verso una mèta, che gli s’intorbidava nel pensiero.
Infatti il seminario e il duomo grande della città colla pompa delle loro scuole e delle loro funzioni gli avevano offuscato quel primo ingenuo ideale di prete orante fra gl’increduli e i derelitti. E però la sua devozione più dolce era per la madonna, che gli ricordava la mamma morta pregando che lui, il primogenito maschio, si facesse prete: in famiglia non aveva altra tenerezza di ricordo perchè la vita dura vi rendeva più esigenti tutti gli egoismi, e fuori non aveva ancora trovato un cuore che rispondesse al suo. Tutti lo avevano più o meno deriso, anche i migliori; gli altri, i preti, avviandolo per la loro carriera, erano stati anche più freddi.
Ma per quanto desolata quella solitudine dei suoi sedici anni in un granaio, con dieci franchi al mese per vivere, rare volte la malinconia lo vinceva sino al pianto, anzi nelle giornate più rigide o caliginose di quel primo inverno il suo coraggio si mantenne imperterrito come nella tensione delle prime ore in una battaglia; poi la primavera lo vinse. Si sentì più solo: nella scuola gli pareva quasi d’essere smarrito fra i compagni, mentre le parole dei professori vi passavano lentamente come un gorgoglio e le orazioni stesse, rompendoglisi nella testa, svanivano in alto simili ai bioccoli bianchi delle siepi fra il vento e il sole.
Era la prima volta che questo gli accadeva.
Una tristezza accorata gli veniva dalla ebrietà della natura in quei primi giorni di fecondazione, mentre le donne passavano per le strade con uno splendore sul viso pari a quello dei santi dipinti nelle vetriate, e tutti, anche i monelli, presi nell’allegria di quella immensa festa, non lo guardavano più. Egli invece, deposto il pesante mantello regalatogli dall’arciprete, se ne andava entro quella veste talare appena sufficiente per disegnare un’ombra sul selciato: era più pallido, senza appetito nemmeno per mangiare il poco che aveva.
Ma nessuno se ne accorgeva.
Allora lo ripigliavano improvvisi pentimenti. Sarebbe stato meglio per lui rimanere col padre a fare il cantoniere: a sedici anni avrebbe avuto già mezza paga con poca fatica, e passerebbe la giornata nella strada sbadilando un fosso fra una chiacchiera ed un saluto, lieto nel sole primaverile come i suoi compagni. Invece era un malato, vestito di un ragnatelo che gli faceva freddo anche adesso che tutti incominciavano ad aver caldo, segregato dalla vita comune in una esistenza claustrale, senza la fraternità del convento e la sua quiete studiosa.
I suoi condiscepoli nel seminario potevano forse soffrire per la mancanza di libertà, ma avevano tutte le ore occupate e si tenevano l’un l’altro compagnia. Egli invece, solo con don Riva, finirebbe come lui. Il vecchio prete peggiorava tutti i giorni, giacchè avendo bisogno di cibi sostanziosi non ne aveva neppure abbastanza di quelli più ordinari, e gli altri preti lo sfuggivano appunto per la sua miseria; mentre il vescovo, arricchito per la terza volta da un’altra eredità di centomila franchi, fingeva d’ignorare come l’antico professore di filosofia nel seminario morisse quasi di fame. Adesso per condurlo a spasso bisognava dargli il braccio portandolo quasi di peso, quantunque Giannino anch’esso male in gambe si sentisse soventi la schiena bagnata da cattivi sudori.
Una domenica fuori di Porta Pia, mentre passavano lentamente dinanzi alla bottega dei sali e tabacchi, il vecchio ritirò il braccio disotto al suo, ed appoggiando ambo le mani sulla canna disse col viso quasi nascosto dietro il bavaro rialzato del soprabitone:
— Pagami un soldo di caradà... non ne ho... non ne ho!
Il ragazzo provò alla gola uno stringimento improvviso di pianto a quella voce così sorda, ed entrò nella bottega.