Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo XII
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L'AUTORE
A CHI LEGGE.
(Tomo XII)
Questo è l'anno finalmente, in cui ho cominciato a scrivere per il Teatro (l’anno 1733). Ma pria di arrestarmi a questo cominciamento, mi sia permesso di continuare il racconto di quegli accidenti, che mi hanno condotto, quasi per necessità indispensabile, ad intraprendere questa carriera ed a soddisfare la mia inclinazione.
Giunto a Crema col Veneto Residente, presi colà il possesso della mia carica di Segretario. Ciò accadde in un’occasione laboriosa, ma nello stesso tempo per me piacevole ed interessante, poiché la guerra viva e vicina somministrava tutti i giorni materia per occuparmi con frutto, per instruirmi e per rendermi utile al mio Superiore. Egli aveva delle numerose ed utili corrispondenze. Ricevevansi tutti i giorni dieci, dodici o venti lettere colle novità concernenti ai progressi, o ai dissegni degli eserciti belligeranti.
Tutte queste lettere non meritavano intiera fede. I corrispondenti si poteano ingannare, ed erano qualche volta ingannati. Io ne faceva lo spoglio; calcolava più o meno il valore delle notizie, secondo la qualità ed il talento dello scrivente, e confrontando le relazioni e le circostanze, sceglieva il più sicuro, o almeno il più probabile, e presentava al Ministro la materia del suo dispaccio. Non contento il mio Residente delle notizie che riceveva da’ suoi corrispondenti, mi ha spedito due volte a Milano, in tempo che da’ Gallosardi si battea quel Castello, ed in tempo che si rendè quella Piazza. Passarono poscia le stesse truppe ad assediare Pizzighettone, ancor più vicino alla Città dove noi eravamo, e domandata dagli assediati capitolazione, dopo dodici giorni di assedio ed apertura di breccia, andai sopraluogo, in occasione dell’armistizio che durò tre giorni, e ne successe la resa.
Non credo si dia spettacolo al Mondo più bello, più vivo, più dilettevole di un armistizio.
Il campo parea una cuccagna. Danze, giochi, gozzoviglie, tripudj. Un infinito concorso di popolo, che vi accorrea da tutti i luoghi circonvicini.
Un ponte gettato sopra la breccia, per dove comunicavano gli inimici, divenuti amici per il momento. Tutt’era in festa, tutt’era in gioja.
Io ho dato una picciola idea di questo ameno spettacolo nella Commedia intitolata La Guerra. Ceduta finalmente dagli Alemanni anche codesta Piazza, vidi sortire il presidio cogli onori di guerra, indi tornato a Crema, ne diedi la relazione completa al mio Residente, il quale col suo talento ne formò un esatto dispaccio. Allontanatesi un poco più da que’ contorni le Truppe, scemarono altresì le mie giornaliere fatiche.
Ripresi allora per mano il mio Bellisario, lo terminai del tutto, ed attendeva con impazienza l’occasion di produrlo. In questo tempo mi giunse in Crema la visita inaspettata di mio Fratello Giovanni. Dopo la mia partenza di Venezia, mia Madre era passata a Modena, e l’avea secolei condotto, e là vivevano delle rendite nostre paterne. Fece valer mio Fratello, in quell’occasione, la tenerezza ch’egli aveva per me, ed il desiderio di rivedermi, ma io mi accorsi, che altro motivo lo conduceva. Giovane più di me, di sei anni, soffriva malvolentieri la soggezion di una Madre saggia, e venne a ritrovarmi con isperanza di vivere con maggior libertà.
Lo accolsi con amore, lo presentai al Signor Residente, il quale ebbe la bontà di riceverlo e di trattenerlo, in qualità di Gentil'uomo di camera. Non tardò molto però mio Fratello ad annojarsi anche di questa situazione, che aveva essa pure i suoi spini, Quant’era il Signor Residente generoso e gentile, era altrettanto delicato, e qualche volta difficile, e la dilicatezza dell’uno e l’imprudenza dell’altro fecero sì, che mio Fratello fu obbligato di andarsene, ed io, che quantunque condannassi la condotta di mio Fratello, non potea dissimulare il dispiacere di vederlo partire, discapitai non poco nell’animo del Signor Residente, il quale cominciò d’allora a guardarmi con occhio men favorevole, e l’avventura, che ora sono per raccontare, gli servì di motivo per privarmi affatto della sua grazia.
Venne a ritrovarmi un giorno quel bravo zoppo, che passava per lo Zio della mia bella Compatriotta, e dissemi, che partitasi ella da Milano per ritornare in Venezia, passata era per Crema, unicamente per rivedermi. Ricevei con giubbilo una tal nuova. M’informai del suo alloggio. Lo Zio m’invitò seco a cena; accettai, ed aspettava la sera con impazienza. Due ore dopo, mi chiama il Signor Residente, e mi consegna un manifesto di una delle Potenze allora belligeranti, e come quello scritto era cosa nuova, e speditagli con segretezza, me ne ha ordinata la copia per la mattina seguente, per ispedirlo a Venezia. Lo presi, promisi di farlo, ma restai brutto, quando vidi ch’era di cinque fogli ben pieni. Erano ventidue ore, e l’amica aspettavami a cena. Corsi nella mia camera, lavorai a forza, e lo finii a un’ora e mezza di notte. Se fosse stato in casa il Signor Residente, glielo avrei consegnato subito; ma non c’era. Lo chiusi nel mio scrittojo, e andiedi a far la visita concertata. Ritorna a casa prima di me, e prima del solito, il Residente, mi cerca, e non mi trova; manda per tutta la città a ricercarmi; gli dicono che mi han veduto passar da una strada, dove alloggiava in quel tempo un altro Ministro. S’immagina ch’io sia andato a comunicare il suo manifesto; si mette in furia grandissima; ritorno a casa, lo trovo prevenuto da quest’immagine per me ingiuriosa; me lo dice senza risparmio; mi sento accusato a torto; non cerco giustificarmi colle parole, ma corro nella mia camera, prendo il manifesto, gli do l’originale e la copia, ed ei crede ancora ch’io l’avessi in saccoccia, e ch’io l’avessi comunicato.
L’offesa mi parve grande, dissi qualche parola un poco troppo avanzata1); mi minacciò di farmi arrestare; partii immediataumente da lui, e andiedi a ricovrarmi dal Vescovo della Città. Fui colà ben accolto; mi assicurò il Segretario, che l’indomani tutto sarebbesi accomodato, ma io, che mi vedea decaduto nell’animo del mio superiore, formai subito la risoluzion di voler partire. Andiedi a letto; pensai per qualche tempo, che tre ore di divertimento mi dovean costar care, ma posti al solito i pensieri tristi sotto del capezzale, dormii il resto della notte tranquillamente. Il giorno dopo mi fu detto che il signor Residente si era un poco tranquillizato, ma fattagli domandare la permissione di andarmene, non me la negò, tanto più che un Frate Domenicano aspirava se non all’utile, almeno all’onore di supplire alla mia incombenza. Fatto il mio baule, presi un calesso, e partii lo stesso giorno da Crema, con animo di trasferirmi a Modona, per rivedere mia Madre ed avere nuove di mio Fratello.
Passata la prima notte in casa di un amico mio in un villaggio detto le Case bruciate, arrivai il giorno dopo in Parma, ed alloggiai alla locanda del Gallo. La mattina vegnente, giorno di San Pietro, fra le ore quattordici e le quindici, sento uno strepito per la strada, un correre di persone, un gridare di Donne e di fanciulli, mi affaccio alla finestra, m’informo, e sento che l’armata Tedesca, condotta dal Generale Mercy, era alla vista delle mura di Parma, e ne temevano la sorpresa e il saccheggio. Tutti correano alle Chiese; vi trasportavano le gioje e gli argenti, come se in tali casi fossero le Chiese asilo sicuro contro il furore e la avidità de’ Soldati. E nota al mondo la gran battaglia colà accaduta in quella memorabil giornata. Il campo de’ Gallosardi non era che tre miglia distante, in un villaggio che si chiama San Pietro.
Una spia falsa, guadagnata dagli Alemanni, andò al campo de’ Gallosardi, mostrò servirli, annonziando loro un semplice distaccamento di gente nemica, che andava per foraggiare. Il Maresciallo di Coigny vi spedì incontro tre Reggimenti Francesi. Scoprirono questi il grosso dell’armata nemica. Soffersero le prime scariche de’ cannoni, caricati a mitraille, ma postosi in marchia con una velocità sorprendente l’esercito de’ Gallosardi, arrivò in tempo di difendere la Città e di respingere l’inimico. La battaglia durò nove ore di seguito, dalle quindici sino le ventiquattro. Il Generale Mercy vi lasciò la vita. Tutto il Mondo correva sulle mura della Città, da quella parte dov’era il combattimento. Vi corsi anch’io. Ho veduto cosa difficile a rivedere. Una battaglia sotto i miei occhi, veduta quanto permettea di vedere il fumo quasi continuo delle scariche de’ fucili. Veduto ho al principio la cavalleria de’ Tedeschi, che per l’angustia del terreno non poteva avanzare. La battaglia si diede nella via carreggiata, di qua e di là separata da fossi. Veduto ho in fine reculare i Tedeschi, e la tristezza de’ Parmegiani convertirsi in gioja, non per odio che avessero contro di quelli, ma perchè si vedean liberati dal rimor del saccheggio.
Un altro spettacolo vidi il giorno seguente, che m’empiè di tristezza ed orrore: venticinque mila morti sul campo. Siccome allora le due armate occupavano quasi tutto il terreno del Parmegiano, del Reggiano e del Modonese, era difficile e pericoloso il transito de’ Passeggieri. Cangiai anch’io di pensiere, e in luogo di andare a Modona, presi la via di Brescia, per di là passare a Venezia. Due giorni ancora mi trattenni in Parma, ed il terzo, trovata la compagnia di un Abbate collo stesso mio Vetturino mi posi in viaggio. Un miglio incirca lontani da un grosso Borgo del Piacentino, che chiamasi Casal Pasturlengo2, fummo assaliti da cinque Desertori Tedeschi, i quali colle sciabole alla mano ci fecero un cattivo saluto, e ci obbligarono a sortire di calesso. Fattaci la visita delle saccoccie, e preso tutto quello che c’era, orologio, tabacchiere, quattrini, si gettarono sopra i bauli e ci lasciarono in libertà. Io non so qual partito abbia preso il Signor Abbate; so che io, temendo sempre di rivedere intomo di me quelle sciabole, mi diedi a correre, saltai un fosso assai lestamente, e mi salvai a traverso de’ campi, e quando mi vidi in certa distanza, credutomi in luogo di sicurezza, mi posi a sedere sotto di un albero, e mi riposai con un piacere infinito.
Io non faccio il bravo; dico la verità; ho avuto paura, e credo che ogni galant’uomo ne avrebbe avuto altrettanta. Poco costava a coloro il darmi una sciabolata e distendermi a terra. Ho secondato il primo moto della natura, e la filosofia, che mi ha abbandonato in quel punto, mi ha poi ben servito in appresso.
Trovatomi spogliato di tutto, senza un soldo in saccoccia, senza conoscenza del luogo, e senza sapere dove rivolgermi, non mi sono perduto di animo, ma anzi, rivenuto dalla mia primiera apprensione, mi son creduto felice e mi son trovato contento. Io non vedea dov’era; ne case, ne strade; camminai a traverso dè solchi, finchè trovato un viottolo, bagnato da un ruscello, vivo e profondo, mi lusingai che per quella strada troverei delle case e forse qualche Villaggio. Non istetti molto a scoprire dell’abitato e a ritrovare de’ Contadini, che lavoravano. Narrai loro il mio caso; ebbero compassione di me, mi offersero alloggio, additandomi le loro case, e mi esibirono del pane e del cacio, ed un resto di vino, che avevano in una borraccia. Accettai la colazione col maggior piacere del mondo. Che pan delicato! che formaggio eccellente! che vino esquisito! Circa l’alloggio, siccome non potean darmi che della paglia e del fieno per coricarmi, m’informai de’ luoghi vicini, e mi dissero che Casal Pasturlengo era il luogo meno distante. Uno di quegli uomini dabbene mi accompagnò a quel Borgo, grande, bello e ben popolato. Mi presentai coraggiosamente al Parrocchiano, non mi sovviene s’ei fosse Prevosto, Arciprete o Curato, ma so ch’era galant’uomo, poichè m’accolse cortesemente, mi diè buona cena e buon letto, e il giorno dopo un cavallo ed un Uomo, per trasferirmi a Brescia. Due anni dopo, passai di là, andando a Genova, con animo di dimostrargli la mia gratitudine, e con estremo mio dispiacere lo trovai morto.
Giunto a Brescia, mi arrestai ad un picciolo albergo, deliberando in me stesso, benchè con pena, di andar dal pubblico Rappresentante, e dispiacendomi di rimandar l’Uomo, senza riconoscere la sua fatica, lo pregai di attendermi a quell’Osteria. Andando verso il Palazzo del Potestà incontrai il zoppo, Zio della bella Compatriotta. Mi fa festa in veggendomi, e si lagna ch’io non sia stato una seconda volta a vederli, vicino a Crema. Gli racconto la mia partenza improvvisa, la mia disgrazia in cammino e la mia intenzione di presentarmi al pubblico Rappresentante. Quest’uomo mi balza al collo, mi prega, mi scongiura d’andar da lui e dalla Nipote, mi prende per la mano, e zoppicando mi tira seco. Io ci aveva qualche difficoltà; la sua fisonomia, il luogo dove l’aveva veduto presso di Crema, e l’aria libertina che aveva acquistata a Milano la giovane, in occasion della Guerra, m’indicavano presso a poco che cos’erano l’uno e l’altra; ma tanto fece e disse, che mi lasciai condurre alla di lui casa. Giunti colà m’annonzia alla Nipote, come un miracolo; quante feste! quanti accoglimenti dalla giovane di buon cuore! Presto, una camera; ecco un letto per voi. Cenerete qui. Tutte cose di cui aveva bisogno, ma che non potea ricevere senza rimorso.
Finalmente l’ora era molto avanzata. Non era sicuro di trovare il pubblico Rappresentante, avea del rossore a presentarmi e a chiedere, e qui mi offerivano e mi pregavano, ho deliberato di accettare e di restare. Si parla, si discorre; mi sovviene dell’uomo, che mi ha accompagnato; accenno la volontà che avrei, che fosse riconosciuto. Il zoppo mi domanda in qual Osteria si è fermato, glie lo dico, ei parte subito per dargli mezzo ducato. Voleva scrivere al buon Religioso per ringraziarlo, ma in quella casa non eravi nè carta, nè calamajo. Restato solo colla Giovane, e desideroso di sapere la verità, cercai tirarla in ragionamenti, e finalmente, veggendo ella ch’io m’era accorto del suo mestiere, non osò di negarmelo, e mi confessò che chiamavasi M.... R.... ed il supposto suo Zio non era che un vagabondo, che l’aveva sedotta e viveva alle di lei spalle. Volea partir di là sul momento; ma ella colle lagrime agli occhi mi pregò di restare. Ritorna in questo tempo Vulcano, mi assicura che l’Uomo di Casalpasturlengo è rimasto contento, si spoglia, si mette un berrettino in capo, si smanica la camicia sino alle spalle, e va in cucina a prepararci la cena.
Ci siamo; bisogna starci. Frattanto ch’egli lavora, la Giovane mi racconta le sue avventure. Ha guadagnato molto a Milano. In casa sua frequentavano i Generali; teneva gioco, aveva ammassati molti danari, ma tutto era nelle mani del zoppo. Avrebbe voluto liberarsene; ma come fare? Mi domandava consiglio. Io non avea cuore di darglielo. Ecco l’ora di cena. Per fortuna, in quella sera, non capitò nessuno. Si cenò in santa pace; e dopo cena si parlò della mia partenza. Mi disse il zoppo, ch’io era padron di restare con essi loro quanto io voleva, ma che veggendo bene ch’io non mi sarei accomodato a restarvi più lungo tempo, mi pregava di dirgli dove io aveva destinato d andare e che somma di danaro mi abbisognava, esibendosi egli di prestarmi tutto quello che mi occorreva.
Restai attonito ad una tale proposizione. L’avrei accettata da ogni altro, senza difficoltà, ma da lui non aveva cuore. Si accorse della cagione della mia renitenza; e senza nascondersi, mi disse ch’egli era mosso a farmi l’esibizione per debito di gratitudine, ch’io l’aveva fatto sortir di prigione a Crema, e ch’io aveva custodita a Milano quella persona, col mezzo della quale aveva fatto molto guadagno; che nessuno sapeva ch’io fossi in quella casa, che nessuno saprebbe ch’io fossi stato da lui. Soggiunse, che mi dava tutto il tempo ch’io voleva a restituirgli il danaro, che non volea ricevuta, e cent’altre cose obbliganti. Al fine, par abbreviarla, ho accettato, ho preso sei zecchini in imprestito, son partito, sono andato a Verona, e di là dopo qualche giorno, glieli ho rimandati. Eccomi dunque a Verona, eccomi in quel paese, dove ho cominciato a contrattare gl’impegni miei col Teatro.
Trovavasi allora in quella città, a far la piazza d’estate la Compagnia de’ Comici del teatro detto di San Samuele, in Venezia, appartenente alla nobile famiglia Grimani. Io non conosceva particolarmente alcun di que’ Comici, ma andiedi per curiosità ad una delle loro rappresentazioni in Rena.
La Rena di Verona è un vasto antichissimo Anfiteatro, opera certamente di un Imperatore Romano, quantunque malgrado le ricerche degli eruditi Scrittori, e particolarmente del sapientissimo Signor Marchese Maffei, non abbiasi mai potuto rilevarne l’Autore.
Nel piano di quell’ampio recinto, formasi nella più calda stagione un Teatro, sul quale si rappresentan, di giorno, dalle migliori Compagnie d’Italia, Commedie e Tragedie.
Chiudesi con uno steccato il resto del pian terreno, dal palco sino ai gradini, e colà si tengono gli spettatori sopra de’ seggiolini di paglia, e il popolo minuto, e tutti quelli che vogliono spender meno, siedono su i gradini, che son di faccia al Teatro. L'ora comoda, l’aria aperta e la vastità del luogo facilitano molto l’ingresso ed il piacere ad un’infinità di persone, e si moltiplica l'utile de’ Commedianti. Entrato dunque e preso posto in Arena, vidi che si rappresentava in quel giorno una Commedia dell’Arte, nella quale aveva molto a faticar l’Arlecchino. Osservai che l’uditorio rideva, ma alcuni che mi erano più vicini, e che rideano più sgangheratamente degli altri, diceano al tempo stesso ai commedianti: Baroni. Rideano, e lor diceano Baroni. Pensai allora al mio antico progetto3), e dicea fra me stesso: Oh, s’io potessi arrivare a tanto di far ridere gli spettatori, senza che dicesser Baroni!
Era in questo pensier concentrato, quando la voce di un Attore, che mi parea di conoscere, mi risvegliò. Qual fu la mia sorpresa, quando vidi su quel Teatro il mio Gaetano Casali, ch’io avea lasciato in Milano colla Compagnia dell’Anonimo, e per il quale composto aveva il mio Bellisario!
Abbandono immediatamente il mio posto; monto sul palco; attendo ch’ei finisca la Scena; entra, mi vede, mi abbraccia e mi domanda nuove di Bellisario. Con qual contento appres’egli ch’io l'aveva finito! Mi prende per mano e mi presenta all’Imer, suo camerata e Direttore della Compagnia, e mi annonzia per un Autore, da cui si potea sperar delle cose buone, e specialmente un Bellisario novello. Sarebbe egli in grado di comporre degl’intermezzi, disse subito il Direttore? Sì, rispose il Casali, ne ha composto per noi a Milano, e la Cantatrice, ed il Gondoliere sono le prime prove del suo talento. Bravo, soggiunse l’Imer, bravissimo; se vorrà impiegarsi per noi.... A quest’annunzio mi si accostano due giovani donne, si consolano meco degl’intermezzi, che conoscevano e che avean recitati, e si raccomandano, perchè io ne faccia degli altri. Questa non era la mia vocazione, ma tutto promisi, e mi resi in un subito oggetto della loro curiosità e delle loro speranze. Essi pure lo erano delle mie. Finì la Commedia, si resero i Comici alle loro case. Il Casali restò con me; mi accompagnò al mio Albergo e mi narrò per la strada com’era passato dalla picciola Compagnia dell’Anonimo, alla grande, alla famosa, alla decorosa Compagnia di San Samuele. Giunti all’Osteria, dove io dimorava, avrebbe voluto leggere il Bellisario; ei ne moriva di voglia, ed io moriva di sonno. Rimisi ciò all’indomani, promisi di andar da lui, e ci andiedi.
Dimorava egli nella stessa casa dell’Imer, onde portatomi colà la mattina seguente, fui accolto con estrema pulizia e compitezza. Eransi colà vari Comici ragunati, non so se per affari del loro mestiere, o per curiosità di vedermi. Propostasi dal Casali la lettura del mio Bellisario, si mostrarono tutti desiderosi d’intenderlo, ed io lo lessi, ed essi lo ascoltarono con silenzio, e di quando in quando con segni di compiacimento e di ammirazione. Finita la lettura, proruppero concordemente in esclamazioni di giubilo. L’Imer con gravità mi strinse la mano, assicurandomi della sua approvazione, ed il Casali intenerito non poteva parlare.
Mi domandarono alcuni, se sarebbero stati assai fortunati per recitare eglino i primi la mia Tragedia. Il Casali rispose con un poco di vanità: Il Signor Goldoni l’ha scritta per me. Accordai ch’era vero, ed ei la prese e la portò seco, e si ritirò nella sua camera per copiaria. Partiti gli altri, restai solo coll’Imer. Questi era un uomo colto e polito, il quale non contento della sua sorte in Genova, dov’era nato, si diede all’Arte del Comico, nella quale potea far spiccare il suo talento e soddisfare il suo genio, portato ad una vita più comoda e più brillante. Riuscì passabilmente nella parte degli Amorosi, ma come era grasso e picciolo, e di collo corto, la sua figura non gli dava alcun vantaggio. Sarebbe stato eccellente per i Caratteri, ma in quel tempo non erano in credito le Commedie di cotal genere, e come gl’intermezzi erano stati abbandonati dagl’Impresarj delle Opere in musica, per sostituirvi i gran Balli, pensò l’Imer d’introdurli nelle Tragedie, rappresentate dai Comici, Ciò gli riuscì a maraviglia; ed egli unito a due Donne da lui instruite, facevano la principale fortuna di quel Teatro, e gli riuscì col suo merito e colla sua condotta di guadagnar l’animo e la confidenza del Cavalier proprietario, il quale gli conservò non solo gli onori e gli utili di primo Amoroso, ma lo fece Direttore e quasi dispotico della Compagnia.
La passione dunque che aveva l’Imer per gl’intermezzi, ne’ quali unicamente brillava, la fece perorare in favore di cotal genere di Componimenti, e le prove che di me aveva vedute ne’ due intermezzi accennati, l’indussero a pregarmi a volerne per lui comporre degli altri, esibendomi con buona grazia, ed assicurandomi che mi avrebbe fatto ringraziare e ricompensare dal Cavalier suo Padrone, l’Eccellentissimo Signor Michele Grimani.
La mia situazione d’allora e la naturale mia inclinazione al Teatro mi fecero internamente aggradir la proposizione. Egli è vero ch’io avrei più volentieri composte delle Commedie di Carattere, ma pensai, che quantunque gl’intermezzi non sieno che Commedie abbozzate, sono però suscettibili di tutti i Caratteri più comici e più originali, e che ciò potea servirmi di prova e di esercizio, per trattarli un giorno più distesamente e più a fondo nelle grandi Commedie.
Mi parve l’Imer un galant’uomo, nè m’ingannai. Gli apersi dunque il mio cuore, gli narrai le mie circostanze; aggradì egli la mia confidenza, e brevemente mi disse, che s’io voleva determinarmi a scrivere per la sua Compagnia, mi avrebbe fatto accordare un trattamento annuale sufficiente e onorevole. Presi tempo a rispondere; ed egli, obbligato ad accudire agli affari della sua direzione, mi pregò ch’io restassi a pranzo con esso lui, e mi chiese licenza di ritirarsi. Accettai l’invito, lo ringraziai e passai nella camera del Casali, il quale contento del suo Bellisario mi pregò di accettare alquanti Zecchini, ch’io non ebbi cuore di rifiutare (tanto più che doveva rendere i sei al zoppo di Brescia), e restai a Verona, fin che la Compagnia ci restò.
Nel tempo ch’io colà mi trattenni, non istetti in ozio. Lavorai un nuovo intermezzo in tre Personaggi e in tre parti, intitolato la Pupilla. Seppi, e m’accorsi io stesso, che l’Imer vedea volentieri e con qualche passione una bella Vedova, giovane, che era la seconda Donna della Compagnia e chiamavasi Giovanna Casanova, detta Zanetta, o la Buranella, perchè era nativa dell’isola di Burano. Seppi e m’accorsi altresì, che il galant’uomo, di età molto maggiore alla giovane, era di lei geloso, onde accomodai l’intermezzo sul fatto istorico di questi due Personaggi. L’Imer il Tutore geloso; Zanella la Pupilla insidiata. Eravi nella Compagnia la brava Agnese Veneziana, Moglie di Pietro Amurat, armeno, conosciuta col nome di Agnese delle Serenate, quella stessa che cantò la fatale mia Canzonetta in Venezia, in quella Serenata di cui ho parlato nel Tomo decimo. Mi servii di questa cantante di Serenate, divenuta attrice, per rappresentare in abito d’uomo, in questo intermezzo, l’Amante insidiatore della Pupilla ed il persecutore del Tutore. S’accorse il bravo Comico della burla, ma l’approvò, perchè l’intermezzo gli piacque, e non dispiacevagli di far all’amor sulla Scena con quella persona, con cui facevalo in casa, e di cui non aveva sempre a lodarsi.
Finalmente arrivato il tempo che i Comici dovean passare a Venezia, per riaprire il loro Teatro, al tempo solito, ch’è ordinariamente nella prima settimana di Ottobre,4 l’Imer mi offerse un posto nel suo calesso, e andiedi anch’io a Venezia, provveduto intanto del Bellisario e della Pupilla. Si vedrà nel Tomo seguente il mio ingresso e la mia riuscita, e parlerò di quella persona per la quale aveva io abbandonato la Patria e la professione dell’Avvocato.