Opere complete di Carlo Goldoni - Volume I/Prefazioni dell'edizione Pasquali/Tomo XVII
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L'AUTORE
A CHI LEGGE.
(Tomo XVII)
Passata al solito la Compagnia in Terraferma, non conoscendo io ancora l’abilità de’ Personaggi novelli, niente ho fatto per essa durante la Primavera e l’Estate, attendendo il ritorno suo in Venezia per comporre con maggior fondamento.
Il mio impiego di Console mi occupava bastantemente; e una serie di avventure accadutemi quasi nel medesimo tempo mi occuparono ancor di vantaggio.
Ebbi una commissione spinosa da un Cavalier Genovese, avvalorata dagli ordini di que’ Collegi Serenissimi. Trattavasi di far arrestare in Venezia un loro Ministro, proveniente da una Corte straniera e debitore di somme considerabili. La cosa era difficilissima; pure mi riuscì di ottener la cattura. Vidi che l’appellazione potea favorire il ritento, e farmi condannar nelle spese. Cambiai l’azione di criminale in civile; mi rimossi io stesso dall’istanza della cattura seguita; mi offersi pagare i danni; pregai di rimetterlo in libertà; ma nel medesimo tempo sequestrai gli effetti arrestati nelle mani del Ministro, a cui gli esecutori li avevano consegnati. Questa era la mia prima intenzione, e senza quel passo ardito non si poteva sperar di ottenere quel che ho ottenuto. Gli si trovarono danari, gioje ed altri effetti di prezzo.
Consegnai pontualmente il denaro al Signor Santino Cambiaso, Nobile Genovese e ricco Mercatante in Venezia.
Ciò mi fece del merito verso il Principe ch’io aveva l’onor di servire, ed ebbi una ricompensa assai generosa dal Cavalier creditore. Ma certi effetti preziosi, che mi furono con arte levati di mano, mi esposero a fastidj notabili e sforzi dolorosi per ricuperarli.
Lo stato mio declinava; ridomandai con più calore l’assegnamento alla carica ch’io sosteneva, ed ebbi qualche lusinga che l’avrei ottenuto.
Giunse in questo frattempo in Venezia la Compagnia de’ Comici di San Samuele, e cominciò le sue recite. Si mantenevano ancora in qualche credito gl’intermezzi; e perciò composi una Operetta buffa per Musica, intitolata la Contessina, la quale riuscì a maraviglia. Osservai recitare la Baccherini Servetta; e mi piacque il suo spirito e la sua maniera; e quantunque non fosse che principiante, vidi che, bene istruita ed ajutata da qualche buona Commedia, poteva figurare assai bene.
Questa era una giovane più bella e non meno scaltra della Passalacqua. Si accorse ch’io aveva per lei qualche stima, ed impiegò tutta l’arte per guadagnarmi. Io era allora ammogliato, e il dover d’uomo onesto e di buon Marito mi obbligava a pensare e a condurmi diversamente; ma ciò non m’impediva, che ne’ Comici miei lavori non distinguessi quella persona che più mi piaceva; e divisai di formar questa donna secondo il sistema ch’io aveva in capo, e che non aveva ancora potuto a modo mio soddisfare. Tutte le Servette de’ Comici erano in una specie di obbligazione di rappresentare la Serva Maga, lo Spirito Folletto ed altre simili Commedie dell’Arte, nelle quali la Servetta, cambiando di abito e di linguaggio, sostiene varj differenti Personaggi e caratteri; ma vi vorrebbe realmente quell’arte magica, che si fìnge in tali Commedie, per sostenerli con verità e ragione; e ordinariamente non riescono che azioni sconcie e forzate, cattive Scene di Commedie peggiori.
Non si potrebbe, dicea fra me stesso, far sostenere ad un Personaggio diversi caratteri senza il sognato soccorso della Magia? A che serve il cangiamento degli abiti? A che serve la varietà de’ linguaggi? Difficilmente riescono bene; e se fossero anche a perfezione eseguiti, mancando il verisimile manca il miglior merito della Commedia. Ma come far sostenere ad un Personaggio più e diversi caratteri in una stessa Commedia, salvando la verisimiglianza, la ragione e la buona condotta? Pensando e ripensando, fu allora che mi cade1 in mente La Donna di garbo; una donna che, bisognosa di amicizie e di protezioni, cerca d’insinuarsi nell’animo delle persone, secondando le passioni ed i caratteri di ciascheduno, e trasformandosi quasi in tante differenti figure, quanti sono coloro coi quali deve trattare. Tutto ciò può eseguire una donna di spirito, la quale, servendosi dell’artifìcio, non sarà una Donna di garbo, secondo il vero senso di questa frase; ma sarà tale nell’opinione dei Personaggi.
Fissato in questa immagine, ho composto quella Commedia, che i Lettori conoscono sotto un tal titolo. Avrei fatto meglio a intitolarla La Donna di spirito; ma riflettendo più all’apparente sua abilità, che al fondo del suo carattere, e più all’asserzione de’ Personaggi, che alla sua intenzione, l’ho detta Donna di garbo, e la lascio correre con quel titolo, con cui ha piaciuto, e con cui è stata dieci altre volte stampata.
La prima volta ch’io l’ho pubblicata in Venezia nell’edizione del Bettinelli, le ho dato il merito di primogenita delle mie Commedie; ed ora pare ch’ella sia posteriore al Momolo Cortesan, al Prodigo ed alla Bancarotta. Ciò è vero in un senso; ma come la prima di queste tre Commedie era per la maggior parte a soggetto, e nelle altre due le Maschere lo erano ancora, alla riserva del Momolo e del Pantalone; e come altresì tutte tre le dette Commedie contenevano qualche carattere, ma non erano del genere di quelle della riforma, merita questa il grado di prima, perchè da essa ho cominciato il nuovo genere di Commedie intrapreso.
Tutti i Personaggi che la compongono, hanno un carattere originale; e la Colombina, che cercava d’imitarli e di uniformarsi.... Ma perchè dico io la Colombina, se nella Commedia stampata la Donna di garbo è Rosaura? Eccone la ragione. Terminata di scrivere la mia Commedia in Venezia, la lessi ai Comici, e tutti ne furono incantati. La Servetta, che recitava col nome di Colombina, era gloriosa della sua parte; ma le altre Donne che la riguardavano con gelosia, e specialmente la Prima: sostenevano2 che non era parte per una Serva; che dovevasi darla alla prima Donna; ch’io avea mancato alle regole; e che solamente per compiacermi avrebbe sofferto che la Baccherini la recitasse; ma tirarono tanto innanzi, che arrivò la fine del Carnovale senza rappresentarla. Andò a Genova la Compagnia per la Primavera seguente; quindici giorni dopo la Baccherini morì; la Bastona s’impossessò della Donna di garbo, ed ebbe la soddisfazione di recitarla e di riscuoterne infiniti applausi. Io però non la vidi rappresentare, poichè partii l’anno stesso, come dirò fra poco; e la prima volta che mi accadde vederla fu a Livorno, quattro anni dopo, dalla brava eccellente Rosaura, moglie del Medebac, di cui avrò lunga occasion di parlare, essendo lui quegli che mi ha fatto riprendere il gusto delle Commedie, e col di cui mezzo sono ritornato alla Patria.
Prima ch’io passi a discorrere di quelle triste ragioni, che mi hanno obbligato in quell’anno ad abbandonare Venezia, l’occasione di nominare quest’onorato Comico, con cui ho vissuto parecchi anni, mi eccita a dire come l’ho conosciuto in Venezia in quei medesimi tempi, de’ quali ora ragiono.
Erano già tre anni, che portavasi in Venezia regolarmente in tempo di Carnovale Gasparo Raffi Romano, Capo de’ Ballerini di corda, colla sua Compagnia, ch’era una delle più famose in tal genere. Eravi la bravissima Rosalia sua Cognata, Moglie in allora di un Saltatore Tedesco, e passata ad esserlo in secondi voti di Cesare Darbes, celebre Pantalone, di cui molto avrò ancor da parlare. La Teodora, figliuola del Raffi, moglie in appresso del Medebac, ballava sulla corda passabilmente, ma danzava a terra con somma grazia; la Maddalena, che fu moglie in seguito di Giuseppe Marliani, era una coppia fedele della Teodora, e il Marliani suddetto, che faceva il Pagliaccio, era un Saltatore e Danzatore di corda, il più bravo, il più comico, il più delizioso del mondo. Questa Compagnia di quasi tutti congiunti era amata ed apprezzata in Venezia, non solo per la bravura ed abilità in tal mestiere; ma per l’onesta e saggia maniera di vivere sotto la buona direzione dell’onestissimo Raffi, e l’ottima condotta della prudente, divota e caritatevole Signora Lucia, sua Consorte. Il Marliani, non so se stanco di quel pericoloso mestiere, o eccitato dal genio Comico, avea gran voglia di recitare delle Commedie. Capitò il secondo anno in Venezia il Medebac accennato; e unitosi co’ Ballattori suddetti, avendo egli cognizione bastante dell’arte Comica, gl’instruì, fornì loro i soggetti, e preso il picciolo Teatro di San Moisè, colà, terminato il Casotto, recitavano delle Commedie, le quali sostenute principalmente dalle apparenze, dai giochi e dalle grazie del Marliani, che facea l’Arlecchino, non lasciarono di attirare buon numero di Spettatori. La Teodora faceva la prima Donna, e la Maddalena facea la Servetta; il Medebac era il primo Amoroso, e qualche altro Personaggio avean preso per eseguir le loro Commedie. Così principiò quella Compagnia, che poi si è resa famosa, e che trovai ben formata ed in credito quattr’anni dopo a Livorno. Parlerò a suo tempo di queste brave persone; passiamo ora a parlar di me, niente per altro che per narrar ai lettori la causa, che mi ha impedito, dopo la Donna di garbo, a seguitare il corso sì bene incominciato delle Commedie; e per quale avventura l’ho poi nuovamente intrapreso.
Ardeva allora la guerra fra Galli-Ispani e Tedeschi per la successione di Don Filippo Infante di Spagna agli Stati di Parma e Piacenza; ed il Duca di Modona, dichiaratosi del partito de’ primi, era anch’egli al campo colle sue truppe col titolo di Generale in capite di quell’Armata. Mio Fratello, ch’era Tenente in Modona nelle milizie nazionali di quel Paese, con poca paga e poco esercizio, avrebbe voluto passare nelle Truppe, che diconsi regolate, e seguire il Principe all’Armata, non so se per onore o per migliorare gli appuntamenti. Il fatto si è, che non avendo potuto ottenere quel che desiderava, domandò il suo congedo; lo ottenne, e verme a ritrovarmi in Venezia, Mi spiacque una tale risoluzione sconsigliata e pregiudicata, poichè col tempo avrebbe sicuramente avanzato; ma ciò non ostante l’accolsi collo stesso amore, e lo feci padrone della mia casa e della mia tavola. Da lì a qualche giorno mi si presenta tutto giojoso, mi abbraccia, mi accarezza e mi dice: Fratello, ho fatto una bella scoperta, e spero di aver trovato la mia fortuna. Narrami che contratto avea conoscenza con un degnissimo Ufìizial forestiere, il quale, incaricato da una Potenza d’Europa di formare un Reggimento novello, doveva egli esserne il Colonnello; e come aveva la facoltà di nominare e creare gli Uffìziali, gli avea promesso un posto di Capitano. Mi posi a ridere e gli dissi: Fratello, non gli credete. Come! (risposemi). Perchè non dovrò credere a un Uffizial d’onore? Ho veduto le lettere, gli ordini e le patenti.... Non è stato possibile il persuaderlo, che così presto un forestiere non poteva aver concepito tanta amicizia per lui; e due giorni dopo me lo conduce a casa, mi prega d’invitarlo a pranzo, e mi obbliga di ascoltarlo. Non l’avessi ascoltato! Non l’avessi mai conosciuto! Fece a me pure la medesima confidenza; mi mostrò varie lettere scritte in Italiano, e provenienti da quella Corte, dalla quale dicevasi incaricato di quest’affare. Mi mostrò una patente amplissima, che lo dichiarava Colonnello di quel Reggimento che dovea egli formare, colla facoltà di crear gli Uffiziali; e mostrommi in seguito le credenziali per reclutare quei tali soldati, che diceva di dovere scegliere. Mio Fratello mi guardava sott’occhio e si rideva di me, credendomi da tali prove convinto. Io non lo era ancora perfettamente; però trattai civilmente il Signor Ufficiale per non disgustar mio Fratello, con animo di meglio assicurarmi della verità. Lo feci padrone della mia tavola; ed egli concepì tanto amore per me, che non ha mancato un giorno di favorirmi. Tutte le settimane aveva egli lettere da mostrare, provenienti da quel tal Principe, sottoscritte da que’ tali Ministri, che sempre sul proposito ragionavano, mettendo in vista quelle somme grandiose di danaro, che dovevano di giorno in giorno arrivare. Mostrava l’altro carteggio co’ suoi emissarj sparsi qua e là per que’ paesi, dove si dovevano ingaggiare i soldati, e tutti ad un tratto dovevano unirsi uomini, armi, munizioni e danari. Mio Fratello aveva già avanzato di posto, doveva essere il primo Capitano, ed era per me riserbato l’utile ed onorevole impiego di Auditore del Reggimento. La mia situazione d’allora mi faceva desiderare che tutto ciò si verificasse. L’impegno nel quale mi metteva il mio Consolato, e l’impossibilità di sussistere senza gli appuntamenti mi faceano prestar orecchio alle belle lusinghe; ma pure non cessava di dubitare e credere il Colonnello un impostore, e continuava a trattarlo unicamente per vivere in pace con mio Fratello.
Ma allor che vidi de’ Soggetti assai riguardevoli per nascita e per fortuna, de’ Mercatanti di credito, de’ Ministri ancora, credere alle sue parole, alle sue lettere, alle sue patenti; riconoscere per vere le sottoscrizioni e i sigilli, ed accettare gl’impieghi, che egli distribuiva, e somministrargli e trattar secolui del vestiario; quando vidi delle munizioni e delle condotte, il Medico, il Cappellano, i Vivandieri, i Provvigionieri tutti stabiliti, accordati ed in buona fede, cedetti anch’io alla credenza comune, e mi lasciai cavar di mano qualche somma considerabile di danaro: cosa che mi sconcertò all’estremo, e mi gettò in un mare di confusioni. Durò per qualche mese la favola; e quando, stanchi tutti di attendere l’ultima risoluzione, dovea questa verificarsi, sparì il Colonnello, e tutti restarono nella stessa maniera impiegati. Era una bella consolazione per me vedermi accompagnato da sì bel numero di gente di buona fede; ed era un bel conforto per tutti noi il rammentarci l’uno l’altro i sigilli, le sottoscrizioni, le firme, accordando per gloria dell’Impostore, ch’egli era espertissimo nell’imitazione dei caratteri e delle impronte per giustificare in qualche maniera la dabbenaggine, con cui ci lasciamnmo ingannare. Ecco l’argomento della mia Commedia, che ha per titolo l’Impostore, e che sarà la seconda di questo Tomo, nella quale ci ho fatto entrare il Tenente mio fratello, e me medesimo col titolo di Dottore e futuro Auditore del Reggimento. Tutta questa leggenda era per anche stampata in termini somiglianti nella Prefazione di detta Commedia fino dalla sua prima edizione; ma non ho creduto poterlo omettere a questo passo della mia vita, perchè interessante colla continuazione di essa; e perchè n’è da ciò derivato non indifferente cambiamento del mio stato e della mia fotruna.
Il bravo Signor Colonnello colle sue lettere, colle sue patenti e co’ suoi sigilli occupa il Frontispizio di questo Tomo. La Fraude e l’Ingratitudine, che sostengono il Cartello, lo accompagnano degnamente; ed il motto latino: Cum relego, scripsisse pudet etc. spiega la vergogna, ch’io provo anche al giorno d’oggi rileggendo la confession della mia stolidezza. Un Poeta Comico lasciarsi gabbare da un Impostore! Cent’altri sono caduti nella medesima rete; ma io doveva cadervi meno degli altri. Io che avea dipinto un Ludro imbroglione nel Momolo Cortesan, un Trappola nel Prodigo, un Marcone scroccone di Piazza nella Bancarotta, mi sono lasciato gabbare, soverchiare, scroccare da un Frappatore! Meriterebbe costui, ch’io pubblicassi il nome e la Patria sua per eternare la sua vergogna; ma non l’ho fatto, e non voglio farlo per rispetto de’ suoi onorati Concittadini.
Venne costui a rovinarmi in tempo ch’io avea contratto de’ debiti per la mia sussistenza; e me li fece considerabilmente aumentare. Mi mancò nello stesso tempo la miglior parte delle mie entrate di Modona, consistenti in luoghi di monte, i quali per cagion della guerra non pagavano i frutti. Perdetti sino il picciolo emolumento del Teatro di San Giovanni Crisostomo; poichè S. E. Grimani l’avea ceduto per qualche tempo a quattro Nobili, Patrizi Veneti, uno de’ quali per naturale temperamento trattommi si grossamente, che fui in necessità di rinunziare la direzione per non compromettere la mia Carica e la mia persona. Di più, un Signor Genovese venne a rifugiarsi in casa mia sotto l’arme del suo Paese, per sottrarsi da’ creditori, e mi fece alterare l’economia dell’ordinario mio trattamento, ed ajutò a sconcertarmi. Disperato in fine di poter ottenere gli appuntamenti ch’io domandava, presi il partito di allontanarmi per qualche tempo dalla mia patria, con idea di passare per Modona, provvedermi colà de’ modi di continuar il mio viaggio, e portarmi a Genova per tentare personalmente di ottenere grazia o giustizia. Scrissi ai Collegj Serenissimi ch’io era in necessità d’intraprendere un viaggio, li pregai di accordarmi di mettere alla mia carica il Sostituto che ho nominato; me l’accordarono, e mi disposi a partire in compagnia della mia diletta Consorte, indissolubile compagna in tutte le mie avventure.
Varie dicerie ha prodotto la mia partenza. I più maligni mi han creduto fuggitivo e fallito. Sapevano alcuni ch’io, in virtù di una Procura di sostituzione fattami dall’Imer, come Procuratore instituito dal Signor Francesco Maria Berio di Napoli, suo Cognato, aveva riscosso in Zecca la somma in circa di Ducati mille e cinquecento correnti, e si credevano ch’io fossi partito debitore di questa somma. Posso smentire quest’indegna malignità con due ricevute, una de’ Signori Lambro e Simon Fratelli Maruzzi di Ducati 620; e l’altra dell’Imer medesimo per intiero saldo di detta somma, detratte le spese. Al prezzo di due tabacchiere d’oro trafugatemi in Venezia, e spettanti al Cavalier Genovese, ha supplito immediatamente il Signor Agostino Connio mio Suocero; ed a que’ debiti onesti e civili, ch’io aveva in Venezia, ho supplito col tempo, col sagrifizio delle povere mie sostanze. Ogni uomo di onore dee render conto al Pubblico della sua condotta. Io particolarmente, che mi espongo a scrivere la mia vita, deggio garantirmi da quella malignità, che mi ha perseguitato vivente e che non cesserà di oltraggiarmi dopo la mia morte. Non ho altra eredità da lasciare a’ miei Nipoti, che quella riputazione che mi hanno acquistata le mie fatiche. Desidero lasciarla loro purgata da ogni macchia, per quanto posso, e fornisco loro le armi per ribattere la calunnia e la maldicenza.
Abbracciata dunque mia madre e mio fratello, montai colla Moglie nella barca del Corrier di Bologna, per di là poscia passare a Modona. Giunto in Bologna, mi trattenni colà qualche giorno. Gl’Impresari di que’ Teatri vennero a ritrovarmi alla locanda dov’era. Mi chiesero qualche cosa del mio. Qualche cosa lor diedi di quello ch’io aveva di fatto; corrisposero liberalmente, e mi ordinarono qualche nuovo Componimento, ch’io promisi lor di mandare.
Parlando con varie persone del mio stato e de’ miei disegni, e specialmente del pensiere di andare a Modona, mi sconsigliarono tutti, dipingendomi la pessima situazione in cui trovavasi quel Paese per la mancanza del Sovrano, impegnato in una guerra dispendiosa. Mi dissero alcuni che meglio avrei fatto ad andar a Rimini, ove trovavasi S. A. Sereniss. e tutto il Campo Spagnuolo. A che fare, dicev’io? Il mestier della guerra non è per me. Altri mi lusingarono, che il Duca medesimo poteva impegnarmi in cose a me convenienti; altri mi parlarono dei divertimenti del Campo, e di una Compagnia di Comici, che seguitava l’Armata. Questi ultimi mi solleticavano più degli altri; ma io era in viaggio per far denari ed andar a Genova. E bene! mi dicevano que’ buoni Amici, fate a Rimini dei denari, e poi andrete a Genova. Il consiglio non mi dispiacque; vi andai. Sentirete, Lettori miei amatissimi, quali e quante avventure, ora triste e ora buone, mi sono arrivate all’Armata; come abbandonate avea le mie Commedie, e come le ho poi con più fervore novellamente intraprese ecc.
NOTA.
Qui restò interrotto il racconto autobiografico, nella sua più ingenua veste italiana. La presente ristampa delle prefazioni ai singoli volumi dell’ed. Pasquali fu compiuta con la maggior fedeltà: solo parve opportxmo mutare qualche iniziale maiuscola e sopprimere molte virgole, per comodo dei lettori. Le note di illustrazione storica, che sarebbero state necessarie, rimandiamo più giustamente in calce alle Memorie francesi, per non doverci troppe volte ripetere. È noto che i vari tomi del Pasquali, benchè uscissero sparsamente nel corso di quasi un ventennio, portano la data comune del 1761: di che si meravigliava fin da quel tempo con lo stampatore veneziano Domenico Caminer, nel Giornale Enciclopedico (A. 1774: t. I, p. 21 e t. VII, p. 138), Le prefazioni furono scritte fra il 1761 e il 1772, come lascia credere una lettera dello stesso Goldoni al Pasquali (t. Xll: ripubblicata da E. Masi, Lettere di C. Goldoni, Bologna, 1880, pp. 298-300): certo uscirono le prime dieci negli anni 1761-1768, e nel ’73, dopo una lacuna d’un lustro, cominciarono le altre. Di tutte speriamo poter fissare la data nella bibliografia, in fine dell’opera nostra.