Opere (Lorenzo de' Medici)/X. Altercazione/Capitolo IV.
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CAPITOLO IV
[La beatitudine è la contemplazione che fa l’anima separata dal corpo non circa gli angioli, ma circa Dio; e piú per la volontá che con l’intelletto.]
Sanza esser suto da altro nume scorto,
modulato ho con la zampogna tenera
il verso, col favor che Pan ne ha porto;
Pan, quale ogni pastore onora e venera,
il cui nome in Arcadia si celébra,5
che impera a quel che si corrompe o genera.
Or perché quanto la luce è piú crebra
e piú lucente agli occhi de’ mortali,
par sia maggiore oscuro e piú tenébra;
all’alma avvien come a certi animali,10
che manco veggon quel ch’è piú lucente;
ancora gli occhi nostri al sol son tali.
E cosí l’occhio della nostra mente
per la imperfezione manco vede
quel ch’è piú manifesto ed apparente.15
Salir non può piú alto il mortal piede;
onde convien ch’altri il cammin ne scorga,
e levi l’alma al ciel, che in terra siede.
La figlia qui del gran Tonante sorga,
che sanza madre del suo capo uscío;20
questa la mano al basso ingegno porga.
D’un amor santo incenda il mio disio,
e d’un tal lume l’intelletto illumine,
qual si convien chi vuol parlar di Dio.
E come sanza madre è il santo Numine,25
cosí sanza materia netto e puro
si separi dal corpo il nostro acumine.
Mostri questo il cammin vero e sicuro,
e sia allo intelletto mio quel Sole,
ch’ogni confuso levi ed ogni oscuro.30
Or perché qui la mia Musa si duole
spesso da me chiamata, or derelitta
accusar me d’ingratitudin vuole.
Musa, tu le parole e ’l verso ditta,
e quella luce che Minerva prome,35
come mostra è da lei, cosí sia scritta.
Apollo, s’ami ancor le caste chiome
della tua tanto disiata Danne,
soccorri a chi ritiene il suo bel nome;
e tanto del tuo sacro furor dánne,40
non quanto a me conviensi, ma al subietto
di che debbo cantar, bisogno fanne.
Tua grazia abbondi piú, s’è piú il difetto,
acciò che quel che soggiunse Marsiglio
ne’ versi chiuda come ho nel concetto.45
Qual riguardando noi con lieto ciglio
disse: — Come veggiam, qui non è il bene,
Alfeo padre, in etá tu Lauro figlio.
Mentre è legata in corporal catene,
e in questo oscuro carcer l’alma accolta,50
sempre ambiguitá, sempre ardor tiene.
Anzi nel corpo in tanto errore è involta,
che non ha di se stessa cognizione,
sin che in tutto non è libera e sciolta.
Dunque veggiam, che la separazione55
che fa l’alma dal corpo, ch’è beata,
ne dá di questo ben la perfezione.
La divina giustizia al ben far grata
serba, come pria dissi, questa palma
all’anima, che a Dio è dedicata.60
Ma doppio è il contemplar della nostr’alma,
l’angelica natura e la divina;
la prima non ne dá quiete o calma.
Nostro intelletto, che Natura inclina
ricercar d’ogni cosa la sua causa,65
d’una in altra cagion sempre cammina;
e mai non ha quiete alcuna o pausa,
fin che d’ogni cagion la causa trova,
ch’è nell’arcan di Dio serrata e clausa.
La volontá convien sempre si muova,70
né si contenta d’alcun ben giamai,
sopra il qual sia maggior dolcezza nuova.
Fermasi e posa sol ne’ divin rai,
perché d’intero bene ha sempre inopia,
fin che il supremo ben ritrovato hai.75
Tutto quiesce nella causa propia;
e questo è Dio: adunque Dio è quello,
non l’Angiol, che ne dá di tal ben copia.
Benché Avicenna, Ispano ed Alcazello
fermassin nella prima il ben supremo,80
il vero bene è Dio formoso e bello.
Ma contemplando Dio, due vie avemo,
una per lo intelletto Dio vedere,
onde per questo mezzo il conoscemo;
l’altra è pel conosciuto ben godere85
per mezzo del disio; onde il felice
e disiato fin poi possedere.
Plato divino, al mondo una Fenice,
la prima visione «ambrosia» appella,
e il gaudio pel veduto «nettar» dice.90
Due ale ha la nostr’alma pura e bella,
lo intelletto e ’l disio, ond’ella è ascensa
volando al sommo Dio sopra ogni stella,
ove si ciba alla divina mensa
d’ambrosia e nettar; né giamai vien meno95
questa somma dolcezza eterna e immensa.
Di questi due è il nettare piú ameno
all’alma, che allor vive al mondo interita,
e il gaudio del veduto è assai piú pieno.
Perché s’è piú nella vita preterita100
merito, Dio amando, che intendendo,
se amore è il fior, d’amore il frutto merita.
Che amor merita piú, provare intendo,
e che piú l’alma amando in vita acquista
la divina bontá, che inquirendo.105
Prima, sí poca è nostra mortal vista
che vera cognizion di Dio non dona,
ma pare in vita in piú error consista.
Ma quello ha volontá perfetta e buona,
e Dio veramente ama, che a se stesso110
per lui, o ad altra cosa non perdona.
Come error fa maggiore e piú espresso
chi ha Dio in odio, che chi non lo intende,
cosí chi l’ama piú, piú merto ha in esso.
Questo Natura e la ragion l’ostende;115
per fare il detto mio piú fermo e forte
de’ contrari una regola si prende.
Amor del Paradiso apre le porte,
né la nostr’alma amando giamai erra,
ma il ricercarlo spesso induce morte.120
Leva in superbia l’animo di terra
la scienzia talora, e gli occhi vela;
a questi sempre Dio s’asconde e serra.
A’ sapienti e prudenti si cela:
come di sé la santa bocca disse,125
amore a’ semplici occhi lo rivela.
Colui che a perscrutar di Dio si misse,
giá non gli attribuisce e non l’onora
per questo, e forse a sua gloria lo ascrisse.
Ma chi di sue bellezze s’innamora,130
quel che possiede e sé a Dio presenta,
a cui Dio sé tribuisce ancora.
L’anima che a conoscer Dio è intenta,
in lungo tempo fa poco profitto;
quella che l’ama, presto assai contenta.135
Cosí conchiuderem per quel ch’è ditto,
che se l’amor piú merta, alcun non pensi
che maggior premio non gli sia prescritto.
A chi cerca veder, veder conviensi;
ma all’amante della cosa che ama140
goder sempre e fruir piacere immensi.
Amore è quello, il qual disia e brama,
amore è quel che debbe avere il merto,
onde piú degno fin dietro a sé chiama,
come noi mostreremo ancor piú certo. — 145