Opere (Lorenzo de' Medici)/X. Altercazione/Capitolo V.

V. [La felicitá consiste nel fruire Dio per volontá.]

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V. [La felicitá consiste nel fruire Dio per volontá.]
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CAPITOLO V

[La felicitá consiste nel fruire Dio per volontá.]


     Era il mio cor sí di dolcezza pieno,
che udendo mi pareva esser tirato
al ben che le parole sue dicieno.
     L’animo s’era astratto e separato,
e dicevo fra me: — Or che fia il vero,5
se ’l sentirne parlar mi fa beato? —
     Quando, visto Marsilio il mio pensiero,
dissemi: — In te medesmo ora fa’ pruova
qual è de’ due predetti il bene intero.
     Intender quel ch’io dico assai ti giova;10
ma, passato il primo atto, il bene inteso
crea nel cor maggior dolcezza nuova.
     L’animo ch’è nel ricercare acceso,
pel conosciuto ben poi possedere
cerca, per goder solo il ben compreso;15
     e non a fin d’intender vuol godere:
adunque quello intender che procede,
ministro è di quel ben che cerca avere.
     Render ragion possiamo a chi richiede
a che fin noi cerchiam, ch’è per fruire20
quel ben che nostra mente prima vede.
     Del gaudio altra ragion non si può dire,
se non sol gaudio, che in eterno dura,
né in altro maggior ben può la mente ire.

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     Non fugge gaudio alcun nostra natura;25
spesso veder quelle cose rifiuta,
che stima esser moleste o di gran cura.
     Colui che vede non ha sempre avuta
dolcezza pel veder; ma vede e intende
chi di gaudio ha la mente sua compiuta.30
     E come piú nostra natura offende
dolersi che ignorar, pel suo contrario
il gaudio per piú ben che ’l veder prende.
     Non è giudicio buon dal nostro vario,
che questo gaudio sia l’ultimo bene,35
s’è dolor primo mal, ch’è suo avversario.
     E come alla natura nostra avviene
fuggir dolor per sé, e per dolore
qualunque cosa come somme pene;
     cosí gaudio per sé disia il core,40
e pel gaudio ogni cosa, ed a quel corre,
sí come a sommo bene, il nostro amore.
     Come non puoi nel numer de’ buon porre
un che sol veda il ben, se nol disia,
pur coll’intento che il può dare e tôrre;45
     cosí convien che l’alma nostra sia
divina amando Dio, non sol vedendo,
che gode allor quel che ha veduto pria.
     Avviene all’alma nostra, Dio intendendo,
che a sua capacitá tanta amplitudine50
contrae, e Dio in sé vien ristrignendo.
     Amando, alla sua immensa latitudine
amplifichiamo e dilatiam la mente:
questo par sia vera beatitudine.
     Vedendo, dello immenso onnipotente55
pigliam la parte sol che cape in noi
e quel che l’alma vede allor presente.
     Amando, e quel che allor vedi amar puoi,
e quel piú che il pensier tuo t’ha promisso
dell’infinita sua bontá dipoi.60

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     Della divina infinitá l’abisso
quasi per una nebbia contempliamo,
benché l’alma vi tenga l’occhio fisso;
     ma d’un perfetto e vero amor l’amiamo.
Quel che conosce Dio, Dio a sé tira;65
amando alla sua altezza c’innalziamo.
     A quel per sommo ben la mente aspira,
che la contenta; ma non è contenta,
se solamente Dio riguarda e mira.
     Perché la vision, benché sia intenta,70
che l’anima vedente in sé riceve,
per creata e finita si conventa.
     E cosí esser ne’ suoi gradi deve;
se per potenzia l’anima è finita,
suo operare anco è finito e brieve.75
     Ma l’alma ch’è di questi lacci uscita
sol si contenta interamente, e posa
in cose, le quai sien d’immensa vita;
     e solo è di quel ben volenterosa,
ch’è da Dio conosciuto; e tal disio80
e ’l gaudio d’esso pare immensa cosa;
     però che amando si converte in Dio,
e sopra Dio veduto si dilata. —
Ed io allor ruppi il silenzio mio,
     e dissi: — Sia da te meglio esplicata85
tal cosa, allo intelletto mio confusa
per qualche oscuritá drento al cor nata. —
     Marsilio a me: — Se l’alma è circonfusa
da qualch’error, non me ne meraviglio,
né tu per questo meco ne fa scusa.90
     Mirar non può sí alto il mortal ciglio;
ma io a tua piú intera cognizione
un sensuale esemplo per te piglio.
     Differenzia è da gusto a gustazione:
il gusto è la potenzia del gustare,95
la gustazion per l’atto suo si pone.

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     A muover questi due ad operare
bisogna sia ’l sapor ch’è il suo obietto,
che fa il primo al secondo ministrare.
     Il gusto l’animo è, puro e perfetto,100
che si muove a gustar l’obietto degno
per la gustazion, ch’è l’intelletto.
     E poi che giugne a questo primo segno,
gode gustato Dio col disio santo,
e tal gaudio è ’l sapor d’ogni ben pregno.105
     La gustazione appunto è buona quanto
dolce è il sapore: e gusta Dio mirando
l’alma, e ’l disio piacer glielo fa tanto.
     Cosí conchiuderemo, al fine andando,
che ’l nostro vero e sommo bene è quello110
eterno Dio, che tutti andiam cercando:
     semplice, puro, immaculato agnello,
al qual cammina l’alma peregrina,
per riposarsi nel suo santo ostello.
     E la beatitudin sua divina115
è fruir questo ben per voluntate,
ché amor la muove, ond’ella a Dio cammina;
     ove assapora la suavitate
da lei giá tanto disiata e chiesta,
qual non gli posson dar cose create.120
     Amando Dio, convien che Dio l’investa
del santo suo amore, e in sé converta
la mente, e díale gaudio che non resta.
     Amore è quel che amato amor sol merta,
amor ne dá l’eterna nostra pace,125
amor vera salute, intera e certa.
     L’Apostol santo, testimon verace,
con questo amore insino al cielo aggiunse,
vaso di tanta grazia ben capace.
     Amore insino al terzo ciel lo assunse,130
alla stella che al mondo amore infonde,
onde i suoi occhi co’ divin congiunse.

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     A quella spera Dio mai non s’asconde;
indi sé mostra e il suo santo abitacolo,
e le ricchezze sue magne e profonde.135
     Perché sopr’essa è quel chiaro spiracolo,
che sé ed ogni cosa agli occhi mostra
sol dove pose Dio suo tabernacolo.
     Questo premio è serbato all’alma nostra
o sciolta dal corpo, né nel mondo cieco140
lo può trovar la mia vita o la vostra.
     Ma al mondo vita tal mal tanto ha seco
che in vita piú felice gli animali
sarien bruti e selvaggi in qualche speco.
     Quanto piú veggon gli occhi de’ mortali145
il ben, si dolgon piú se ne son privi,
e maggior cognizion ne dá piú mali.
     Ed oltre a questo, mentre siam qui vivi,
assai piú cose nostra vita agogna,
che a lor basta l’erbetta e i freschi rivi.150
     Felice è piú a chi manco bisogna;
cosí par l’uomo piú infelice al mondo,
mentre che in vita qui vacilla e sogna.
     Ma il premio è poi nel viver suo secondo,
che il mondo errante «trista morte» appella;155
allor giunge al suo fin lieto e giocondo.
     Cosí la vita nostra non è quella,
ovver la tua, pastor, ch’è piú quieta,
ovver, Lauro, la tua che par sí bella,
     che un punto sol di tanti mai sia lieta,160
o qualunque altra vita ch’è mortale,
perché vera dolcezza il mondo vieta.
     Or perché par che all’Ocean si cale
Febo, e finito è il mio sermon col sole,
Alfeo, statti con Dio; tu, Lauro, vale. — 165
     Cosí lasciò le piagge di lui sole,
e noi, benché al chiar fonte, con piú sete
d’udire ancor l’ornate sue parole;

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     le parole che mai passeran Lete.
Ma poi disse il pastor: — L’ora m’induce170
a ridur l’umil gregge nella rete.
     Giá si parte da noi la febea luce;
ond’io ritorno al mio antico stento,
e tu dove il desir tuo ti conduce. —
     E, questo detto, mosse il suo armento,175
ed io alle sue spalle volsi il tergo,
partendomi da lui col passo lento.
     Cosí ciascun tornossi al proprio albergo,
e me acceso della santa fiamma,
mentre che drieto al pensier dolce pergo,180
     mosse a cantar l’Amor che tutto infiamma.