Opere (Lorenzo de' Medici)/X. Altercazione/Capitolo III.

III. [De’ beni naturali, cioè corporali.]

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III. [De’ beni naturali, cioè corporali.]
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CAPITOLO III

[De’ beni naturali, cioè corporali.]


     — Quel che Fortuna in sua potenzia tiene,
soggiunse a noi parlando il novel Plato,
dunque chiamar non puossi intero bene.
     Il ben del corpo ben proporzionato
solo in tre parti si divide e pone:5
l’esser robusto, sano e pulcro nato.
     I primi due, da poca lesione
offesi, quel ben pèrdon, che giá piacque
per sommo bene al robusto Milone.
     Però felicitá giamai non giacque10
in questi, né è ancor porto tranquillo
in quel che bello e specioso nacque.
     In questa il sommo ben giá pose Erillo;
e benché fusse ogni bellezza in esso,
giá contento per questo non puoi dillo.15
     Se l’esser pulcro ad alcuno è concesso,
ad altri giova piú quella figura
sanza comparazione che a se stesso.
     Quest’è un bene che toglie e dá Natura,
né puossi in esso la speranza porre,20
ché, come fior, lo strugge il tempo, e fura.
     Però passa il pensier piú oltra e scorre,
dicendo: — Forse fia in nostra mente,
di cui altri che noi non può disporre. —

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     I ben della nostr’anima vivente25
son divisi da’ savi in parte bina,
l’una razional, l’altra che sente.
     La ragion tiene in sé parte divina,
il senso comun è con gli animali,
e per due vie in questo si cammina.30
     La prima è che’ sensi tuoi sien tali
da far perfettamente il loro uffizio;
la seconda è i diletti sensuali.
     Qui Aristippo errò con van giudizio,
e qui pose la mira troppo bassa,35
pigliando d’esti l’uno e l’altro vizio.
     Alcuna spezie d’animal ne passa,
perché hanno certi sensi piú acuti,
che l’alma nostra infastidita e lassa.
     Sarieno adunque piú felici i bruti;40
ed oltr’a questo per gli acuti sensi
piú dispiacer che piacer sonsi avuti.
     S’egli è piú il mal che il ben, certo conviensi
che piú cose si gusti, odori e cerna
con dispiacer, né so qual ben compensi.45
     Diletti sensual son guerra eterna:
innanzi hanno un ardor che ’l cor distrugge;
sospizion gli accompagna e governa;
     poi pentimento, quando il piacer fugge;
e tanto dura questa voluttate50
quanto il cor, per l’ardor, disia e rugge;
     ché tanto dura la suavitate
del ber, quanto la sete il gusto invischia:
se quella manca, e tal felicitate.
     Nulla col suo contrario star s’arrischia:55
ben non è dunque, anzi piuttosto male,
dove dolor con voluttá si mischia.
     Qui s’assolve la parte sensuale,
e viensi all’altra, chi ben si rimembra,
piú bella, che detta è razionale.60

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     Ha questo capo sotto sé due membra,
la virtú naturale e l’acquisita,
e cosí prima si divide e smembra.
     La prima nasce con la nostra vita.
Ciascun n’ha certi semi e certo lume,65
come l’alma è dentro al suo corpo sita.
     Memoria, audacia e dell’ingegno acume
sono strumenti buoni o rei, secondo
che gli fa l’uso, e il buono o rio costume.
     Anzi, se piú perfetti, maggior pondo70
all’alma dánno, se son male usati,
come fa le piú volte il cieco mondo.
     E i ben, che son nel vivere acquistati,
si dividono ancora in parti due:
— cosí di grado in grado siam montati, — 75
     speculativa ed attiva virtue;
di queste due la prima è assai piú degna:
comincerem dall’altra ch’è vil piue.
     Questa vivere al mondo sol ne insegna
con le virtú morali in compagnia,80
e prepararne all’altre ancor s’ingegna.
     Zenone e la sua sètta per tal via,
e la cinica turba tutta corse,
dicendo il vero fine in esse stia.
     Piú lume la Natura non gli porse,85
e disson quel che a mettere ad effetto
piú difficil che a dir sarebbe forse.
     Ciascun di questi ben par sia suggetto
a fatica, a sudore ed a durezza;
però non vuol ragion che sia perfetto.90
     Perché la temperanza e la fortezza
son nelle operazioni laboriose:
in piú dolor, piú ciascuna si prezza.
     Il fin par sia di tutte umane cose
affaticarsi, non giá per fatica,95
ma perché l’alma poi quieta pose.

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     Laonde falsamente par si dica,
che in questo bene il vero fin consiste,
che dal proprio dolore il ben mendica;
     ma che bisogna aver piú cose viste,100
poiché colui che al vero fin ne mena,
ne dié sentenzia, e tu in quella siste.
     Ottima parte elesse Maddalena,
poi ch’una delle due è necessaria;
quella di Marta è d’inquiete piena.105
     Questa è la veritá che mai non varia:
nessuno al vero suo giudizio appella,
anzi ogni cosa è falsa a lei contraria.
     Come vedete, Marta non è quella
che spegner possa nostra lunga sete,110
ma l’acqua chiesta dalla femminella
     Samaritana; e di quella bevete:
seguiam Maria, che presso al santo piede
non sollecita stassi, ma in quiete.
     Cosí la mente che contempla siede,115
e quando al contemplato ben s’appressa,
altro che contemplar giamai non chiede.
     Allor la sua salute gli è concessa;
or perché alcun certa ignoranza veste,
anco in tre parti poi divisa è essa.120
     La prima è contemplar cose terreste
e naturali, la seconda il cielo,
la terza è quel che sia superceleste.
     Democrito fermossi al primo zelo,
e che natura a caso producesse125
quel ch’è, o fia, e stia sotto tal velo.
     E voleva che quel che ’l mondo avesse,
sanza fare eccezion di cosa alcuna,
la multitudin d’atomi facesse.
     Ma il vero ben non è sotto la luna:130
dunque non è nel contemplar di quelle
cose, che si disfanno a una a una.

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     Lo specular cose celesti e belle,
sí come il grande Anassagora volse
contento al ciel mirare e alle stelle,135
     non è ben sommo; e tal palma gli tolse
un altro maggior ben che gli sta sopra,
che in sé l’onor de’ piú bassi raccolse.
     E come il sol par l’altre stelle cuopra,
cosí questo splendor lucente e chiaro140
ombra l’inferior, ch’è piú degna opra.
     Tanto piú degno, quanto egli è piú raro,
contemplar quel che sopra il ciel dimora,
come parve al filosofo preclaro
     Aristotil, che il mondo tutto onora.145
Ma tal contemplazione ha in sé due parti:
una che l’alma fa col corpo ancora;
     l’altra che questa vita non può darti.
Par che Aristotil nella prima metta
il sommo ben, sanz’altro separarti.150
     Dice, chi bene sua sentenzia ha letta,
che la felicitá è l’operare
virtú perfetta in vita ancor perfetta.
     Ma se in due cose il vero ben dee stare,
l’una la volontá, l’altra l’intendere,155
perfetta o l’una o l’altra non può fare.
     Perché la mente non può ben comprendere,
sendo legata in questo corpo e inclusa,
ha disio sempre di piú alto ascendere.
     Resta in ansietá, e circunfusa160
da piú ardor per quel ben che le manca,
e dentro allo intelletto piú confusa.
     L’intelletto e il disir cosí si stanca:
adunque mai non trova la nostr’alma
la pura veritá formosa e bianca,165
     mentre l’aggrava esta terrestre salma. —