Novelle umoristiche/L'agnello
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L’agnello.
Bèee....
Niveo bioccolo, con le quattro zampe legate in mazzetto; raccolto, dentro il canestro, nel giaciglio di erba ancor fresca, a quando a quando l’agnellino alzava il capo, che subito gli ricadeva come in un abbandono o in un esaurimento di disperazione. Allora sui miti occhi cristiani cadevano le palpebre; indi, ecco: languido languido lo sguardo sembrava cercar di nuovo la landa troppo presto perduta e di nuovo spegnersi a quel fervore di luce, mentre dalla gola riarsa e dal petto ansioso tornava l’invocazione della perduta madre:
Bèee.
Prorompeva il frastuono della musica; rombava, negli intervalli, il susurrio delle voci e lo scalpiccio della folla; e, per tutto, saluti, richiami, risa, sorrisi. Allegria.
Sempre triste, il professore Riccardo Biscaglia entrò nella sala. E allorchè, nell’avvicinarsi là dove suscitavano ammirazione i doni in mostra per la lotteria, udì pervenire dal cesto la voce di duolo, egli tese il capo.
Oh come soavi quei due occhi cilestri che sembravano cercare due occhi fraterni!
Infatti: una fanciulla si avvicinò. Oh come sembrò palpitante il petto chiuso nella veste bianca allorchè la signorina ebbe scorta la bestiola che soffriva! Non era un inganno di civetteria; non un pretesto a farsi notare; spontaneamente, inconsciamente quasi, ella alzava una mano quasi a indicare ed accusare la tortura delle quattro zampe strette nel vincolo di seta, mentre al doloroso bèee rispondeva, vòlta alla madre: — Poverino!
🟌
E poverino anche lui, il professor Biscaglia; il quale era un uomo molto triste; sempre triste; prima di tutto perchè essendosi arrotondata ogni anno più la sua pancia, l’annoso abito delle occasioni solenni era andato restringendosi così che il gilet gli comprimeva lo stomaco e i calzoni stentavano ad acquistare in larghezza quel dito di misura che perdevano in lunghezza; e i piedi, non coperti sino al collo e al calcagno, apparivano più grandi di quanto erano. Erano così grandi!
Ma, oltre questi particolari disturbi, rattristava Riccardo Biscaglia il dolore universale, e l’aveva recato seco pur alla festa di beneficenza. E a tanto pessimismo il professore non aveva motivi dallo Schopenhauer o dal Leopardi: non dagli studi; bensì dall’antico contrasto dell’istinto poetico con la realtà della vita. Se il Governo rinsavisse e comprendesse che, dopo o avanti la cultura della terra, ciò che più importa è la cultura delle menti e degli animi, i professori sarebbero pagati meglio: pagati meglio, si distrarrebbero anch’essi in modi leciti e onesti e si avrebbero quindi meno poeti di dolore e meno scapoli. Senza dubbio un aumento di stipendio avrebbe attenuata in Biscaglia l’antitesi tra il Sancio Panza e il Don Chisciotte che discordavano entro di lui, quando il primo gli diceva: — Non prendere moglie, per carità! Tu sei troppo povero per una ricca e troppo più povero per una povera — ; e il secondo l’incitava: — Cerca e trova la tua Dulcinea ideale: colei che, nè ricca nè povera, e bella, sana, buona, ti faccia parere men brutta l’esistenza!
Ahimè! Chi può andare in cerca della felicità senza quattrini in tasca? Ma sconsolato Tartarin, perchè le sue cacce si limitavano a sorprendere e colpir spropositi nei cómpiti dei discepoli, nè più gloriosa conquista poteva vantare in un mese che quella delle cento e tante lire puntualmente riscosse al ventisette, Biscaglia se la prendeva, più che col Governo, con la mala educazione che corrompe le ragazze. — È l’educazione del cuore che manca! — diceva lui. — Se l’adulterio apparisse non una desiderabile offesa alle leggi, ma una cattiva azione, una crudeltà, egli, per star meglio, avrebbe compiuto fino il sacrificio di sposare una ricca, e non si sarebbe adirato nemmeno col Governo, nè rattristato alla fatalità del dolore umano. Questo, è vero, l’induceva a frequenti sfoghi di versi. Ma a che pro’? Gli editori non credono più nei poeti, e le ragazze, corrotte e senza cuore, alla malinconia preferiscono stare allegre.
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Quella sera dunque Biscaglia era entrato alla festa, solo, con un solo biglietto per la lotteria, non aspettandosi uno spettacolo che lo commovesse così dolcemente: la creatura nel cesto e la creatura che stava a guardarla. Nessuna, nessun’altra di tante signore e signorine che vi erano, si era fermata compassionando dinanzi all’agnello. Tutte agognavano i premi di gran prezzo; tutte, tranne quella madre e quella figlia, civettavano intorno, stupide di mente e di cuore.
— Poverino! Vedi, mamma, com’è carino, com’è bellino? — E poichè anche la madre disse: — Povera bestiola! — , fu manifesta una affinità di sentire tra l’animo materno e il figliale e fu certo per Biscaglia che chi meritasse la pietà della madre meriterebbe anche la pietà della figlia o viceversa.
.... — Estrazione — gridarono a un tratto. — Estrazione!
Seguì maggior ressa di gente. Più pronte, le signore s’affollavano intorno al palco donde era venuto stentoreo l’annuncio e dove un signore in frac scampanellava per avviso ai più lontani.
— Estrazione!
Già si cominciava.
— Numero!...
— Attenti!...
— Cinquantotto!
Biscaglia chinò lo sguardo sul suo biglietto, senza meravigliarsi di non aver lui il 58 e di udire un altro gridare: — L’ho io! — Era stato vinto un magnifico vaso d’argento.
— Numero...!: quattordici!
Sì! Biscaglia aveva il quattrocentododici! E intanto il nuovo vincitore si portava via un’altra bella cosa.
— Numero...!: due!
Il professore scosse le spalle; mise il biglietto in tasca e si mosse. Già era disgraziato in tutto! Del resto, quand’anche vincesse, bella consolazione! Non un premio di lotteria l’avrebbe mutato d’infelice in felice, nè avrebbe diminuito a’ suoi occhi il dolore universale.
— Numero...!: ventisei!
Piuttosto invidiava un suo collega, il quale ora ciarlava appunto con quella mamma e quella bionda figliola così pietose. Gli sarebbe piaciuto di tentare un po’ l’anima della ragazza in qualche poetico discorso e avrebbe voluto esserle presentato dal collega; ma, disgraziato sempre, non osava nemmeno accostarsi al gruppo.
— Numero...!: quattrocentododici!
Eh? Che? Quattrocento...? Non era il suo? Sì sì: l’aveva lui, il professore Riccardo Biscaglia, il 412!
— L’ho io! — E lo mostrava. — Io!
— Bravo! — gridò dal gruppo il collega.
Biscaglia avanzò, rosso in viso, coraggiosamente. Ma diè indietro alla vista del premio.
L’agnello!
— Un agnello! — esclamarono i prossimi al banco. — Un agnello! — l’agnello! — Si rideva; si applaudiva.
E Biscaglia salì e quindi discese dal palco; pallido come chi ascende al patibolo senza speranza di discendere.
— Bravo! — ripetè più forte e contento il collega, a vederlo col cesto nelle mani.
Fu quel «bravo», venutogli da un uomo di spirito, che assumendo quasi il valore di una lode meritata per un’ardua prova rianimò il professore. E di animo ne aveva bisogno: ella era lì dinanzi e sorrideva un po’ triste; diceva con gli occhi: «Perchè l’ha vinto lei e non io?»; e: «Lei gli vorrà molto bene, è vero?»; mentre la mano senza guanto, bella, ripassava sul capo dell’agnellino; e gli occhi e la bocca del professore, che pareva una balia col fantolino in braccio, non dicevan nulla.
— Sei stato fortunato, tu! — fece il collega; aggiungendo la presentazione:
— Il professore Biscaglia...; le signore Crocchi.
— La sorte le ha favorito l’innocenza, il candore — disse la mamma.
— Quanto l’invidio! quanto è bellina questa bestiola! — disse la figlia.
Bèee....
Allora cesto e agnello per poco non caddero di mano a Biscaglia, tale fu l’urto che l’amico gli diede col gomito per suggerirgli l’idea che, del resto, era venuta anche a lui.
— Cosa vuoi fartene tu? — chiese l’altro.
Onde Biscaglia parlò, rosso rosso:
— Se la signorina mi permettesse.... Ella potrebbe averne maggior cura di me.... Io non ho moglie....
— Ma sicuro! E non ha nè erba nè ovile — disse l’altro.
All’offerta, la figlia guardò la mamma; la mamma annuì; ringraziarono; e il candore e l’innocenza, avvolti di nuove carezze, passarono dal professor Riccardo Biscaglia al soave dominio della signorina Irma Crocchi.
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Più e meglio che alla follia, Riccardo Biscaglia s’innamorò assennatamente; perchè era un amore nato da un affetto non cieco: dall’ammirazione della bontà; perchè più che la bellezza aveva potuto sul suo cuore quella prima vista della signorina Irma nell’attitudine compassionevole. La bellezza è caduca; non la bontà, se spontanea; non la gentilezza, se sincera e nativa. Essere amato da tale donna forse non sarebbe stato consolazione ad ogni travaglio, ad ogni dolore, ad ogni fatica, a tutti i danni della vita? A tutti, forse no; per la fatalità del dolore umano; ma a molti sì. E ahi! Riccardo Biscaglia, per quell’eterno conflitto che alimentava in sè stesso, vivrebbe e morirebbe scapolo. Infatti quell’angelo che era la signorina Irma non poteva essere che troppo povera. Ma egli l’amava. Ma egli aveva l’obbligo di una visita alle signore che avevano accolto il suo dono.
Deliberò di adempiere a questo dovere, e solo per accertarsi e mantenere con maggior forza il cervello a posto, chiese a quel tale collega: — Le Crocchi non han mezzi, eh?
— Han qualche cosa.
Oh! Nè povera nè ricca! Era l’ideale nella realtà!
Ma ci fu dunque il sole
Su questa terra un dì?
Fu il raggio che infrange il nuvolo; fu il faro nelle tenebre tempestose. Diveniva possibile la conciliazione dell’idea col sentimento; dell’amore col senno, della poesia con la prosa! Irma possedeva un cuore — tanto cuore! — e possedeva qualche cosa più di quanto costi una capanna a comperarla in due, o a prenderla in affitto in due! Egli dunque poteva domandar la mano della signorina che amava! La felicità non era dunque illusione! Benedetto l’agnellino! Dell’agnello Biscaglia fece il paraninfo del suo amore, il compagno de’ suoi sogni, l’argomento delle sue rime, il simbolo del suo cuore. Bèee....
Or come Don Chisciotte e Sancio Panza erano d’accordo mentre Tartarin saliva il Righi, così erano d’accordo adesso nell’animo del professore Biscaglia mentre egli saliva quelle scale.
Una.... Due.... Tre.... Abitavano molto in alto, le signore. Salendo crescevano i palpiti, calava il sangue. Smorto, anelante, il professore si arrestò all’ultimo pianerottolo; dove, a una porta, lesse il nome: Crocchi.
Nessun dubbio; quell’angelo stava là dentro.
Ma lui si sentiva così smorto che non ardì toccar súbito il bottone del campanello; e prima si fregò le guance con le mani. L’atto però gli parve ridicolo; temè che qualcuno fosse a guardarlo o a spiarlo per la finestra della scala; si volse....
Dalla finestra della cucina, di contro, pendeva, spaccato, l’agnello.
Tradotta in tedesco da C. Brenning e pubblicata (1902) in Feuilleton Zeitung, Zürcher Post, Düsseldorfer Zeitung, Frankfurter Nachrichten, Neueste Nachrichten für Elberfeld, Dortmunder Zeitung, Unterhaltungs-Beilage, Die Selbsthilfe, Hansa-Theater, Neue Saarbrücker Zeitung.