Novelle (Sercambi)/Novella LXV
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LXV
U>dita la bella novella, il preposto comandò che a cantar le donzelle e’ cantarelli cominciassero. Loro presti dissero:
«L’un biasma l’altro e nessun sé riprende,
vegendo per altrui nell’uovo il pelo
tal c’ha di sé innanti a li occhi il velo.
Lode de’ rio altrui non danno fama
perch’e’ non sa dir bene; e ’l suo dispregio
nel petto al buono è giudicato fregio.
Non dura infamia né ingiusta loda,
perché ’l ver luce e ’l falso ha giusta coda».
E ditta, del prato si mossero però ch’era l’ora della cena; e così fu obedito e di buone vivande cenaro dove ne trovonno in abondanzia, tenendo i modi usati fine all’ora del dormire. Allora il preposto volto a l’altore disse che per lo di seguente ordinasse bella novella fine a L’Aquila. L’altore, aparecchiato a ubidire, steo fine alla mattina quando la brigata fu levata.
Udita la messa, l’altore si volse alla brigata parlando:
DE DISHONESTATE VIRI
De lo figliuolo dello imperadore di Costantinopoli: capitato
a Genoa, mal compunto se n’andò a casa.
L>ungo tempo fu che lo ’mperadore di Gostantinopoli nomato Cesari Ardito avendo uno suo figliuolo nomato Ottaviano già grande d’età di anni xiiii, il quale, non volendo a senno del padre suo stare, più volte si partì da lui; lo ’mperadore, che <figliuoli> più non avea et era in tempo che più non aspettava, con preghi più che con battiture lo ritenea. Ottaviano, che avea il sangue caldo e la gioventù lo portava, dal padre si partìo. Lo ’mperadore, che ciò ha sentito, diliberò, poi ch’e’ tante volte s’era fugito, che se ritorna di tenerlo in prigione; e ciò promette. Ottaviano, di ciò sentendo, si partìo, del paese di Gostantinopoli s’asentò andando in qua et in là, faccendosi nomar Borra.
E non molto tempo passò che il ditto Borra giunse a Genoa, là dove li denari li venne meno; e poco vi steo che tutto ciò che avea di mobile consumò. E perché non avea arte impresa et anco perché non si volea invilire, a niente si dava, salvo che si riducea alla barattaria, là u’ alcuna volta ricogliea alquanti dadi e co li altri baratieri si mettea a giucare e talora li venia vinto uno o du’ grossi. E cosìe si vivea assai miseramente e mal vestito. E per questo modo dimorò in Genoa più di iii anni tenendo la vita che v’ho ditta, e talora n’andava senza cena a letto.
Avenne che un giorno innel principio dell’ugelliera delle quaglie avendo vinto alquanti grossi, vedendo uno bello sparvieri quello comprò. E perché molti n’avea già tenuti, quello governava tanto gentilmente che non era in Genoa sparvieri sì bello.
E portando il Borra quello sparvieri in pugno, uno gentiluomo genovese nomato Spinetta dal Fiesco vedendolo e piacendoli, disse: «O Borra, vendemi cotesto sparvieri». Borra disse: «Messer, vender nol voglio, ma se vi piace io vel vo’ donare». Spinetta dice che lo vuole comprare; Borra dice che volentieri lel dona. Spinetta risponde: «Come, non ho io tanti denari che cotesto sparvieri possa comprare?» Borra disse: «De’ denari avete assai, ma questo sparvieri non si può aver con denari, ma in dono lo potreste avere». Spinetta superbo disse: «Deh, gaglioffo e ribaldo che mi rispondi e dici che per denari cotesto sparvieri non arei: e pensi che io voglia che si possa dire che uno ribaldo abia fatto dono a Spinetta dal Fiesco?» E di rabbia le li strappò di mano e per le guance ne li diè tanti colpi che lo sparvieri e le guance di Borra tutte si fracassonno. E morto lo sparvieri e gittatolo via, disse: «Ora, ghiottone, hai donato lo sparvieri!»; e lassòlo forte piangendo. Era questo Spinetta si potente in Genoa che neuno osò dire niente mentre che Borra battea, ma cheti stanno.
Borra, che ha ricevute le battiture per volere essere cortese et ha ricevuto villania, disse: «Oimè, tristo, quanto sono da poco! A dire che io sia figliuolo dello ’mperador Cesari Ardito di Costantinopoli, e così tristamente mi lassai alla cattività vincere! Che se io fusse a casa di mio padre e fusse in buona con lui, arei più baroni e re che mi farebbeno onore che non a persona in Genoa; et io cattivo per mia tristizia tanto bene ho perduto! Ma se io pensasse che ’l mio padre mi volesse ricevere, s’io dovesse morire io anderei a lui; ma io penso che non mi vorrà vedere». E con questo pensieri steo alquanto; poi rivoltòsi a se medesmo dicendo: «O cattivo me, che mio padre è vecchio e se Dio facesse altro di lui lo ’mperiatico e la terra si prenderà per altri, et io meschinello mai andare vi potrei. E pertanto se il mio padre mi dovesse uccidere, io convegno a lui andare».
E subito se n’andò in terzanaia dimandando se alcuno naviglio andava verso Costantinopoli. Fulli risposto di sì. E fatto motto al patrone se volea che lui andasse che non volea altro che le spese, lo patrone, udendo che non volea soldo se non le spese, fu contento. E venuto l’ora del partire, la nave messa in punto. Borra entrato in nave, con buon vento giunseno al porto di Costantinopoli.
E messo scala in terra, Borra disse a uno suo compagno: «Io ti prego che vadi al palagio dello ’mperadore, e domanda di Tedici; e s’e’ ti dice perché lo domandi: — Uno giovano ch’è alla nave t’adomanda, e che non lassi per nulla che a lui vadi— ». Era questo Tedici spenditore dello imperadore. Andato il navichiere a corte, domandato di Tedici, subito Tedici fu venuto. E fattoli l’ambasciata del Borra, Tedici subito stimò fusse Ottaviano figliuolo dello ’mperadore. Dimandando il navichieri come il giovano avea nome, rispuose: «Fassi chiamare il Borra». Tedici subito si parte et alla nave se n’andò. Borra, com’ebbe veduto Tedici, l’ebbe cognosciuto; et ito da parte, Tedici domanda: «Qual è quel giovano che m’ha fatto richiedere?» Borra dice: «Io sono». Tedici lo riguarda e pàrli già averlo veduto, ma perché era innel viso per lo sole alquanto diventato nero, disse come avea nome e chi era. Rispuose: «Io ora mi fo chiamare Borra, ma il mio nome diritto è Ottaviano figliuolo dello ’mperadore». Tedici subito l’ha ricognosciuto; e domandandolo del padre e delle condizioni di corte, Ottaviano tutto raconta. Tedici, che ’l vede nudo, subito se n’andò innella terra e di bellissimi panni lo riveste e seco lo mena faccendolo stare in una camera del palagio, dicendoli: «Spettami».
Et andato Tedici in sala, trovò lo ’mperadore esser a taula. E Tedici dice: «O imperadore, quanta allegrezza serè’ la vostra se il vostro figliuolo Ottaviano fusse con voi o si sapessi se vivo o morto fusse!» Lo ’mperador dice: «Tedici, tu di’ il vero, che se Ottaviano mio figliuolo fusse vivo, se io dovessi spendere ciò ch’io habo, o cattivo o buono che ser fusse lo farei d’avere, che penso che bene s’amenderè’». E questo dicendo gittò un gran sospiro, lagrimando. Tedici, che ha veduto la volontà dello ’mperadore, subito se n’andò alla camera dov’era Ottaviano dicendoli che allegramente al padre ne vada et a lui chiegia perdono gittandoseli a’ piedi: «Et io serò teco». Otaviano rasigurato ciò fece. E giunto Tedici in sala con Otaviano disse: «Santa corona, ecco il vostro dolcissimo figliuolo». Otaviano subito gittatosi ginocchioni, al padre chiese perdono. Il padre allegro li perdonò e fe’ festa inestimabile per lo riauto figliuolo.
Dimorando Otaviano in corte con tanti buoni costumi che tutte le persone diceano Ottaviano esser da più che ’l padre, e poco tempo steo che lo ’mperador passò di questa vita; e subito fu fatto imperadore Otaviano. Le terre marine e li altri signori — e cioè masimamente Vinegia e Genova — sentendo la lezione del nuovo imperadore, subito i genovesi fenno imbasciaria che in Costantinopoli si trovasseno. E funno di Genova eletti tre cittadini gentili e grandi fra’ quali fu Spinetta dal Fiesco, il quale avea dato per le guance dello sparvieri a Borra.
E caminati, giunseno in Costantinopoli con l’altre imbasciarie. Lo ’mperador davanti a sé li fe’ venire: e venuto li genovesi, cognove Spinetta dal Fiesco; e chiamatolo, disse: «Messer, faceste mai oltragio a persona?» Spinetta disse: «Santa corona, no». Lo ’mperadore dice: «Non può esser che qualche ingiuria ad altri non abiate fatto». Spinetta, ricordandosi dello sparvieri, disse: «Sì, ché io feci ingiuria a uno gaglioffo chiamato il Borra, il quale era in Genova et avea uno sparvieri e voleamelo pur donare, et io lo volea in vendita; e’ non volendomelo vendere ma si donare, io quello sparvieri presi e tanto ne li diedi per le guance che tutto lo feci insanguinare, e lo sparvieri uccisi. E questo mi pare che sia la ’ngiuria che ad altri ho fatto». Disse lo ’mperadore: «Or non fu ben grande?» Rispuose Spinetta: «Sì, che poi che lo sparvieri mi piacea io lo dovea prendere in dono, et a lui, perch’era nudo, per ricompensazione lo dovea vestire; e però feci male». Lo ’mperadore disse: «Et io vi sono più tenuto che a persona del mondo, però che io fui quello che lo sparvieri avea e che ricevei da voi i colpi. Et acciò che mi crediate che io vi cognosco, voi siete nomato Spinetta del Fiesco, e tali colpi dello sparvieri innella guancia mi deste presso alla barattaria; e faceami allora chiamar Borra. E però cognoscendo quello che io era, dispuosi a ritornare a mio padre. E però io vi sono molto tenuto et obligato, che la ingiuria che io ricevei fu cagione di farmi ritornare; e per quello sono ora imperadore, che serei tristo e ribaldo. E pertanto chiedi ogni grazia et io la farò». L’imbasciadori tutti, vedendo la benignità dello imperadore, ognuno colle grazie piene tornarono.
E tornati i genovesi in Genova narronno la cosa. Per la qual cosa deliberò il consiglio di Genova che ogni persona d’allora innanti si dicesse messere, però che altri non può sapere, perché sia malvestito, che persona sia, come s’è veduto lo figliuolo dello ’mperadore stare come gaglioffo nudo alla barattaria. E per questo modo oggidì in Genova s’oserva.
Ex.º lxv.