Novelle (Bandello, 1910)/Parte II/Novella XXVI
Questo testo è incompleto. |
◄ | Parte II - Novella XXV | Parte II - Novella XXVII | ► |
IL BANDELLO
a la molto magnifica e vertuosa signora
la signora
argentina d’oria e fregosa
salute
Si leggeva a la presenza de la sempre con prefazione d’onore meritevolmente da esser nomata, la valorosa ed umanissima signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, l’opera latina de l’eloquente messer Giovanni Simoneta, che egli giá compose dei fatti ed opere militari del glorioso Francesco Sforza primo di questo nome duca di Milano, che con l’arme e singoiar prudenza a sé e ai suoi che vennero dopo lui partorí quell’amplissimo dominio, se i figliuoli e nipoti avessero saputo imitar i vestigi e modo di quello. E chi l’opera leggeva era messer Girolamo Cittadino, molto ne la lingua latina e volgare essercitato. Ora, nel processo del leggere, si venne ad un generoso e notabil atto da esso Francesco fatto quando egli guerreggiava prima che s’avesse acquistato il ducato di Milano. E l’atto fu tale, che essendogli stata dai suoi soldati condutta al padiglione una bellissima giovane da quelli ne le terre dei nemici presa, a ciò che con quella si prendesse amorosamente piacere, essendo egli uomo bellissimo e a le dilettazioni veneree molto inclinato e disposto, e giá quella avendo cominciato lascivamente a basciare, sentendosi svegliare il concupiscibile appetito, nondimeno dando il senso luogo a la ragione, da quella s’astenne. Era la giovane, come s’è detto, bellissima di corpo ed oltra a questo, vergine. La quale veggendo che il signore giá s’apparecchiava voler giacersi con lei, dinanzi a quello s’ingenocchiò e teneramente piangendo, con le braccia in croce, gli disse: — Signor capitano, io ti priego per amor de la gloriosa vergine Maria e del suo unico figliuolo le cui figure qui vedi dipinte — ché soleva sempre il capitano sforzesco nel suo padiglione tener al capo del letto un’anconetta, — che tu non mi voglia levar l’onore M. Bandkli.0, Novelle. io 146 PARTE SECONDA e tonni la verginità, la quale né tu né altri con quanto tesoro sia al mondo mai più non mi potreste restituire. — A queste pietose parole in un tratto il libidinoso appetito in tutto nel signor Francesco s'estinsc. E fatta levar in piede la lagrimante giova- netta, quella con buone parole confortò, essortandola a por fine a le lagrime ed assicurarsi che più né da lui né da altri sarebbe molestata. E cosi alor alora chiamati alcuni suoi soldati dei quali molto si confidava, consegnò loro la giovane ed ordinò che bene ed onestamente accompagnata la restituissero ai parenti suoi ; il che quello stesso giorno fu essequito. Parve a tutti cosa mirabile che un giovine a cui le donne meravigliosamente piacevano, avendo in poter suo una bellissima giovane, cosi di leggero se la lasciasse uscir di mano e sapesse a la presenza di si vago obietto frenar il suo concupiscibil appetito; cosa in vero da esser sommamente commendata. Di questa continenza fu senza fine il capitano sforzesco lodato, e molte cose in comtnendazion sua furono dette da diversi. Si ritrovò quivi il discreto e vertuoso messer Lorenzo Toscano, cittadino milanese, il quale alora governava le cose del Cardinal del Carretto di Finario, che poi abbiamo veduto vescovo di Lodeva in Francia. Egli poi che vide che ciascuno si taceva, disse: — Veramente non si può se non dire che il duca Francesco e per questo e per molte altre degne parti che in lui erano, che a tutti il rendevano ammirabile, non meriti grandissima lode, ché per certo la merita. Ma a me non par cosi gran cosa che un cristiano, e massimamente uomo di qualità e di giudizio, sentendosi scongiurar per amor de la intemerata Reina del cielo e del suo figliuolo, s’astenesse da un suo piacere di pochissimo momento, devendosi ragionevolmente da ogni altra importantissima cosa astenere. E chi non sa che il duca fece il debito suo astenendosi da un atto libidinoso ed illecito, che più tosto recar gli poteva danno che utile e renderlo a molti odioso, dove egli, che a grandissime cose aspirava, cercava di acquistar la bene- voglienza di ciascuno? Ma che diremo noi di quel colmo d’ogni vertù, Publio Scipione Affricano, che da la possessione d’Italia revocò Annibaie ed in Affrica lo vinse? Egli guerreggiava in NOVELLA XXVI '47 Spagna contra i cartaginesi e spagnuoli, onde avvenne un giorno che si fece un bottino di molte cose, tra le quali era una bellissima giovane fatta cattiva, la quale era stata sposata da Luceio che era il principal gentiluomo tra i celtiberi. Veggen- dola Scipione tanto bella che ciascuno a lei per contemplarla, tratto da la incredibil bellezza di quella, si voltava, non solamente non si volle amorosamente con lei giacere, ma come sorella propria onestissimamente la fece guardare, e fatto a sé a Cartagenia il di lei sposo sotto la fede venire, a quello la restituì e l’oro, che i parenti de la giovane avevano recato per ricuperarla, gli donò sovra la dote. Che direte voi qui? Non fu Scipione aggiurato per vertù d'alcuno dio, non fu da la giovane né da altri pregato, e per sola generosità d’animo, per amor solo de la vertù, volle e si seppe volontariamente dagli abbracciamenti de la bellissima gio- vanetta astenere. Non era Scipione cristiano, né so se idolatro lo debbia chiamare. E quando avesse voluto libidinosamente goder l'amor de la giovane, non ci era chi biasimato l’avesse, perciò che appo i romani non si reputava peccato, e se era tenuto mal fatto, non ci era pena, perciò che la giovane non era vergine vestale. Si che per mio giudicio, quale egli si sia, io crederei che il mio Scipione meriti più d’esser ammirato e commendato che il vostro duca, rimettendomi perciò tuttavia a chi sa più di me. — Cosi questionandosi variamente secondo che gli affetti degli uomini sono diversamente inclinati, e nondimeno lodando tuttavia il capitano sforzesco e Scipione come nel vero in simil caso meritano esser lodati, la signora Ippolita, che fin a quell’ora era sempre stata intenta ai ragionamenti che si facevano, tutta ridente disse: — Se a me che donna sono fosse lecito, tra tanti elevati spiriti quanti qui sono, di dir il mio parere, so ben io ciò che di questi dui eccellentissimi uomini direi. — II signor Giacomo Gallerate, che quivi era, subito soggiunse: — Signora mia, se io fossi messer Lorenzo Toscano, io non vi vorrei per giudice, ma vi allegarci per sospetta, perciò che voi séte troppo in questo caso interessata, essendo stato il duca Francesco avo del signor Carlo Sforza vostro padre. Potria ben forse avvenire che voi fareste come fanno i nostri cacatocci di Milano, i quali 14S PARTE SECONDA proverbialmente si suol dire che per parer savi danno contra i suoi. — Risero tutti a questo motto, e la signora altresì ridendo disse: — Io dirò pur il parer mio, non da passione o d’altro mossa, se non perché cosi mi pare che la ragione voglia. Dico adunque che se Scipione usò quella continenza, non per altra cagione Io fece se non per beneficio de la patria e suo. Egli primieramente fu, come di lui si scrive, continentissimo, e si trovava straniero in una provincia ove poco innanzi erano morti il padre suo e lo zio, e bisognava che s’acquistasse amici. Onde intendendo che la giovane era sposa di I.uceio, per acquistarsi con quel mezzo il favor di quei popoli, gli rese la donna. E vennegli assai ben fatto il suo dissegno, perché Luceio, tratto da questa liberalità, ed indi a pochi giorni, oltra l’aver tra i suoi popolari predicato la beneficenza di Scipione, se ne venne in aiuto de’ romani con mille quattro cento cavalli. Ma mio avo o bisavo, come si sia, per sola vertù e per amor di Dio s’astenne da giacersi con la bella giovanetta; cosa che forse non fareste voi, messer Giacomo mio. — A questo tutti di nuovo risero e dissero che la signora aveva una gran ragione. E parlandosi pur di questa materia, messer Nicolò Giustiniano, cittadino genovese, giovine costumatissimo, non si scostando dai ragionamenti che si facevano, entrò a ragionare e, pigliata l’opportunità, narrò una bellissima istorietta avvenuta a Genova, la quale a tutta la brigata molto piacque. Onde io, che a quei ragionamenti era presente, la scrissi e riposi per alora tra l’altre mie scritture. Ora riveggendo gli scritti miei cosi in prosa come in versi, m’è venuta questa istorietta a le mani ed holla trascritta per metterla con le mie novelle. E sovvenendomi di voi, m’è paruto farvene un dono, ancor che sia picciolo al desiderio de l’animo mio, che vorrebbe di molto maggior cosa onorarvi. Ma che altro posso io donarvi che carta ed inchiostro? Tanto più volentieri poi ve la dono quanto che il signor Paolo Battista Fregoso vostro figliuolo, giovine di molta espettazione, più volte m’ha pregato che per ogni modo una de le mie novelle volessi donarvi. Questa adunque, che ne la città e patria vostra a persone genovesi avvenne, degnerete accettare con NOVELLA XXVI ‘49 quella vostra singoiar cortesia ed umanità che a tutti vi rende riguardevole. State sana. NOVELLA XXVI Luchino Vivaldo ama lungo tempo e non è amato; poi essendo in libertà sua di goder l’amata donna, se n’astiene. Io non potrei dirvi, molto vertuosa signora mia, quanto caro mi sia Tessermi oggi trovato qui in questa onorata compagnia, si perché dapoi che io pratico in casa vostra sempre ho trovato che ci sono ragionamenti piacevoli ed onesti, ora di lettere, ora d'arme, ora di casi fortunevoli cosi d'amore come d’altri accidenti, ed ora d’altre cose sempre vertuose; ed altresì perciò che non ci vengo mai che io non mi parta con aver imparato alcuna cosa. Son molti di che io ho sentilo dire in molti ragionamenti: « Costui è dei cacatocci di Milano », ma non m’è mai venuto fatto di poter intender a che fine si dicesse; ed ecco che oggi, non lo cercando, l’ho inteso senza ricercarne altrui, ché io fui più e più volte per dimandarne, ma impedito da altri miei affari, non so come, rimaso me ne sono. Ora venendo a quello che mosso m'ha in questo nobilissimo consesso a ragionare, vi dico che le lodi che date si sono al signor duca Francesco gli sono state meritevolmente date, con ciò sia cosa che in vero egli fu uomo eccellentissimo e gloria de la milizia italiana. Il quale se si fosse trovato a quei buoni tempi quando la repubblica romana fioriva, giovami di credere ch'egli a nessuno di quei grandi Fabi, Marcelli, Pompei e Cesari sarebbe stato inferiore. Di Scipione la gloria è tale, cosi è da' greci e da' latini celebrato, che per altrui parole né scemar si può né accrescere. Ma che direte voi se parlando di continenza io vi porrò qui in mezzo un privato cittadino, ch’assai più lode di questi dui tanto più merita quanto che la sua continenza fu vie maggiore? Né di questo altri giudici voglio che tutti voi che qui séte. Vi dico adunque che la famiglia dei Vivaldi ne la città nostra di Genova è sempre stata in bonissima riputazione, e ci sono stati in quella uomini ricchissimi e molto amatori PARTE SECONDA de la patria, tra i quali ci fu messer Francesco Vivaldo negli anni di Cristo mille trecento settantuno, che fu il più ricco cittadino dei tempi suoi e dei passati che fosse in Genova. Costui donò a la República del suo patrimonio nove mila lire de la moneta genovese, le quali devesseno multiplicare e di quelle si pagassero i debiti de la República, e particolarmente di quella parte che si noma il « capitolo » o sia la « compra del capitolo de la pace », e pagato questo debito, devesseno multiplicar a beneficio del commune. Restò di lui un nipote, figliuolo d'un suo figliuolo, il quale essendo giovine e ricchissimo viveva molto splendidamente. Andando egli un giorno a diporto per la città, vide una bellissima giovanetta di circa quindici anni, la quale parve a Luchino — ché cosi egli aveva nome — la più bella, la più gentile ed avvenevole che veduta avesse già mai. E non sapendo levarle la vista da dosso, si fieramente di lei s’accese che nel partir che fece da lei conobbe che in effetto non era più in libertà e che il cor suo era rimaso negli occhi de la bella fanciulla. Cominciò adunque, gioiendo mirabilmente de la vista di lei, a passarle molte fiate il di dinanzi la casa e, quando la vedeva, affettuosamente salutarla, a cui ella onestamente rispondeva e rendeva il saluto, non pensando a malizia nessuna. Ma non passò molto che la giovanetta, ancor che semplice fosse, s'accorse molto bene a che fine Luchino la salutava e si spesso le passava dinanzi facendole la rota del pavone. Onde cominciò rade volte a lasciarsi vedere, e se pur talora Luchino a 1'improviso sovragiungeva e la salutava, ella faceva vista noi sentire e con gli occhi bassi a terra faceva suoi lavori o ragionava con le sue compagne. E se da lontano vedeva venir Luchino, si ritirava in casa fin ch’egli fosse passato via. Accortosi l’amante di questi contegni di quella, si trovò molto di mala voglia. È consuetudine ne la patria mia che un giovine innamorato, trovandosi in mano un mazzo di fiori, ora di gelsomini, ora di cedri, di naranci e simili fiori, di garoffoli od altri che porta alora la stagione, incontrando per la strada od in porta la sua innamorata, a quella senza rispetto veruno lo donerà ; ed ella medesimamente quei fiori che in seno o in mano si troverà NOVELLA XXVI 151 avere, al suo intendiò darà. Né vi meravigliate di questo vocabolo genovese, perciò che secondo che voi dite: — La tal donna ha per « amante » il tale, — le donne nostre, che schiettamente parlano la lingua genovese senza mischiarvi vocaboli strani, sogliono dire: — 11 tale è il mio intendiò] — che anco usò messer Giovanni Boccaccio ne la novella di fra Rinaldo e di madonna Lisetta da ca’ Quirina, ben che alquanto il mutasse, quando la buona donna che poco sale aveva in zucca a la commare disse: — Commare, egli non si vuol dire, ma 1'« intendimento » mio è l’agnolo Gabriello.— Ma torniamo a l’infiammato Luchino, il quale miseramente si struggeva veggendo quanto la giovane, che Gianchinetta era chiamata, se gli mostrava ritrosa. Aveva egli un giorno un bellissimo mazzo di garoffoli fuor di stagione, perché ci sono assai che con arte gli conservano e quando non se ne trovano gli vendono agl’innamorati un ducato l'uno e più. Questo suo mazzo egli, essendo il tempo de la neve, appresentò con molte amorevoli parole a la giovane, la quale, tutta divenuta rossa, gli disse: — Messer Luchino, io son povera figliuola e a me non sta bene ad esser innamorata, — e si ritirò ne la sua casetta né volle il mazzo. Ella era di basso legnaggio e mal di roba in arnese. Ora qual fosse l’animo di Luchino, pensilo chi ama. Egli ebbe di doglia ad impazzire. Tentò vie assai per renderla pieghevole a' suoi piaceri, ma il tutto fu indarno; le mandò messi ed ambasciate, e il tutto indarno; le fece far offerta di maritarla con dote di mille ducati d'oro, e nulla gli giovò. Di modo che quanto più egli abbrusciava, ella più agghiacciava e a tutti i desiri de l’amante si mostrava più ritrosa. Passarono in queste pratiche circa dui anni, che mai il povero amante non ne puoté cavar frutto alcuno. Si maritò Gianchinetta in un povero compagno, il quale si guadagnava il vivere navigando or su galere ed or su altri legni; né per questo cessò il Vivaldo da la sua mal cominciata impresa, ma né più né meno fece come di prima fatto aveva. Fu poi astretto dai parenti a prender moglie ed ebbe una de le nobili giovani di Genova con dote a la ricchezza sua convenevole. Ed ancor che si fosse maritato e la moglie potesse tra l’altre belle stare, nondimeno egli non 152 PARTE SECONDA poteva non che smorzare, ma scemar le fiamme che la bellezza de la Gianchinetta accese nel core gli aveva. Il perché né più né meno faceva, amandola e seguendola, secondo che cominciato aveva. Era questo suo amore con l'onestà de la giovane a tutta Genova notissimo, ma di cosa che detta gli fosse egli non si curava. Aveva già avuti di suo marito la Gianchinetta tre figliuoli, e con le fatiche sue e del suo marito, a la meglio che poteva, sé e i suoi figliuoli nodriva. Avvenne in questo, né dir saprei come, che suo marito essendo navigato in Sardegna, fu fatto a Callari prigione in tempo che in Genova era una estrema carestia di grano, di modo che il sacco del grano si vendeva nove ducati d'oro, e con gran difficultà se ne poteva avere. Mancando adunque a Gianchinetta il soccorso del marito e non avendo modo di poter sostener sé ed i figliuoli, dopo molti pensieri, non trovando altra via da vivere, deliberò darsi in preda al suo amante. E fatta questa deliberazione, andò a trovarlo a casa e lo trovò che scendeva a basso, e con stupore grandissimo di Luchino se gli gettò lagrimando ai piedi e gli disse: — Messere, io sono qui presta a compiacervi di quanto volete da me, che tante volte indarno avete ricercato. Io metto il corpo mio in vostra balia, ed altro da voi non chieggio se non che per cortesia vostra vi piaccia aver me e i miei figliuoli per raccomandati, a ciò che non moriamo di fame. — Luchino alora la sollevò e con buone parole la confortò a star di buona voglia, e le disse: — Gianchinetta mia, Dio non voglia che ciò che non ha potuto l'amore che t'ho portato da che prima ti vidi e porterò eternamente, mai d'altra maniera lo possa la fame. — E dettole queste parole, la condusse di sopra a la moglie, che più volte con lui di questo amore s’era doluta; e narratole la venuta e la cagione, volle che la moglie medesima, per levar via ogni sinistra openione, provedesse ai bisogni di Gianchinetta e dei suoi figliuoli. E in tutto cangiò il libidinoso amore in buono ed onesto, e largamente sempre del viver gli provide. Ora siate tutti voi giudici e giudicate chi meriti più lode, o i dui di cui s'è questionato od il Vivaldo, ché io per ine non sarò mai dei cacatocci.