Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LXVIII
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che ciascuno secondo la possibilitá sua deve sforzarsi di far piacere ad ogni persona, perché si vede, per l’istoria che io v’ho narrata e per infiniti altri essempi, che la liberalitá e la cortesia a molti usata, se ben da tutti non è riconosciuta, non è possibile che a la fine non si ritrovi alcuno che d’animo grato e generoso non si dimostri. E quando mai non ci fosse chi grato si dimostrasse, l’uomo almeno, che magnifica e liberalmente opera, fa officio di vero gentiluomo e vertuoso e fa ciò che deve.
Mirabile certamente è la instabil varietá del corso de la nostra vita, e da esser da l’uomo con intento animo e fermo giudicio, minutissimamente considerata, tutto il dí veggendosi tante e tali mutazioni, quante e quali ogni ora per l’ordinario accadono, ora d’avversa ed ora di propizia fortuna. Vederai oggi uno nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai caduto con rovina ne l’abisso de l’estreme miserie. E tanto piú degna mi pare di saggio pensiero cotesta considerazione, quanto che la volubile varietá de la fortuna non dura in tutti lungamente in un tenore. Onde l’uomo, che si vede rovinato dal felice grado de l’altezza a l’infimo de la vile e bassa condizione, deve usare e porsi per iscorta e guida innanzi agli occhi il chiaro lume de la diritta ragione, di cui da la maestra natura è dottato. E cosí governandosi, non si precipiterá rovinosamente nel profondo e misero baratro de la disperazione, dal quale poi non possa cosí di leggero rilevarsi; ma penserá che, mentre qui si vive, anzi pure a la morte con veloci passi si corre, molti indegnamente soffreno piú di lui acerbe e dure percosse e strazii molto maggiori, i quali con lo scudo de la pazienza sí bene si sono saputi schermire, che, a mal grado dí rea fortuna, sono virilmente risorti ed ascesi al pristino stato e talora a megliore. Medesimamente quando avviene che uno si vede, senza veruno merito suo e senza alcuna vertú, da un soffiamento di prospera fortuna e sorte avventurosa esser levato fuor de la sporca feccia del fango e divenuto repentinamente ricchissimo e al mondo riguardevole, se raggio nessuno del lume de la ragione in lui risplenderá, egli per questo non si leverá in superbia né sprezzerá questi e quelli, i quali a petto a lui sono di vie piú valore e merito, ma tacitamente in sé raccolto dirá: – Ieri io ero misero e sciagurato, ed oggi, non so come, senza che io lo vaglia, mi trovo felice e beato. Quanti ce ne sono che, se ai meriti, al valore ed a la vertú s’avesse, come sarebbe il debito, il convenevol riguardo, deveriano esser riveriti, ricchi ed onorati, ed io deposto al basso? E perciò conoscendo il cieco giudicio de la Fortuna, che cosí sovente cangia proposito, quanto piú ella in volto lieta e favorevole mi ride, quanto piú m’essalta e quanto piú fortunato mi rende, tanto piú io mi delibero divenir affabile, grazioso, liberale, compassionevole e cortese a tutti, e a ciascuno, quanto per me si potrá, largamente giovare e a nessuno non far ingiuria giá mai, a ciò ch’io faccia ufficio d’uomo da bene e mi dimostri degno di tanti beni quanti m’ha donati. Chi sa poi se essa Fortuna, volgendo, come è sua natura e costume, la rota e precipitandomi al basso de la mia prima miseria, mi volga le spalle e piú non voglia favorirmi? Io averò pure in questo mezzo operato bene e mi sarò reso degno che altri abbia di me compassione. – Ed in vero se gli uomini dal nocivo fumo de la mala ambizione e da l’oscure e folte nuvole de la temeraria superbia e del vanissimo e persuasivo gonfiamento del presumere di se stesso piú di quello che si sa e che si vale, e da mille altre taccherelle non si lasciassero accecare, e non dessero talora, per lo piú del dovere stimarsi, il cervello a rimpedulare, averessimo senza dubio questa nostra vita piú tranquilla di quello che abbiamo. Ora, di queste fortunevoli mutazioni, che cosí spesso si vedono avvenire in ogni sorte d’uomini, ragionandosi questi dí in una onorata e sollazzevol compagnia, messer Domenico Cavazza narrò un fiero e crudel accidente avvenuto a messer Marco Antonio suo fratello, che in meno di quindici giorni si trovò esser misero e felice. Piacendomi cotal istorietta per la varietá di molti fortunosi casi che v’intravennero, subito quella scrissi, per accumularla al numero de l’altre mie novelle. Pensando poi a cui donar la devessi, non avendo io altro che dare agli amici miei che carta ed inchiostro, voi a la mente mia in un tratto m’occorreste, come quello che io prima amai che veduto avessi, con ciò sia cosa che madama Gostanza Rangona e Fregosa, padrona mia e de le vostre rare doti indefessa predicatrice, infinite volte di voi m’ha tenuto lunghi propositi. Ma perdonimi ella, ché io in quei pochi dí che voi qui a diportarvi nosco dimoraste, v’ho trovato esser da molto piú che non è la fama ch’io udiva di voi. Né per questo voglio adesso dire tutte quello che di voi sento. Basta che voi sète persona gentilissima ed uomo da tutte l’ore, e rassembrate al zucchero che mai non guasta vivanda veruna ove si ponga. Eccovi adunque essa istorietta, che a l’onorato vostro nome ho scritta e dedicata, a ciò che al mondo resti testimonio del mio amore che vi porto e del desiderio che in me vive di potervi fare alcun servigio, se bene le forze mie sono assai deboli e poche. State sano.Novella LXVIII
Non deviando punto, signori miei, da la materia de la quale si ragiona, – e s’è assai tenzionato de la variazione che bene spesso fa la Fortuna dei casi nostri, che scherzando fa di noi come il gatto far suole del topo, e che insomma l’uomo, per fortunoso caso che l’assaglia e spesso opprima, non deverebbe disperarsi giá mai, – io a questo proposito intendo narrarvi alcuni sfortunati accidenti, che non è troppo a Marco Antonio mio fratello, che tutti domesticamente conoscete, occorsero con grandissimo suo pericolo, e dirvi insiememente come in pochissimi giorni egli, la Dio mercé, fu avventurosamente liberato. Devete adunque sapere che, avendo determinato l’illustrissimo e reverendissimo prencipe, monsignor Giorgio d’Armignac, cardinale di santa Chiesa dignissimo, di trasferirsi con tutta la corte sua a Roma, prima che da Rodez egli partisse, chiamato a sé Marco Antonio mio fratello, gli ordinò che si mettesse in ordine per passare per mare a Roma, a ciò che conducesse un palagio convenevole e lo fornisse di tutto quello che era bisogno a fine che egli, che intendeva far il viaggio per terra, al giungere suo trovasse il tutto in punto. E cosí esso monsignore gli diede lettere di cambio in Roma per tremila scudi ed a la mano gli fece consignare settecento cinquanta scudi. Mio fratello, por non portar quel peso di tanti danari a dosso, commise a Beltramo di Bierra, che il cardinale dato gli aveva in compagnia, che se ne cucisse settecento dentro il giubbone, ed egli ritenne i cinquanta in mano per ispendergli a la giornata. Indi, circa il principio del settembre, partí esso mio fratello da Rodez e andò con Beltramo di lungo a Marsiglia, e, presa una fregata, navigò a Genova, ove trovò una barca da Lerice, che voleva partire per andar a Porto Venere e indi a Roma. Fece egli porre la sua valigia su la barca per navigar con quella; ma in quel punto che volevano uscire del porto, medesimamente si metteva ad ordine uno bregantino barcellonese per far vela. Il padrone di quello, veggendo il buon viso del mio fratello, gli disse: – Signore, io in questa medesima ora m’appresto per andar a Roma, ed ho qui meco circa quaranta passaggeri ed alcune gentildonne di questa cittá, che vogliono venir a ritrovar i lor mariti, che sono banchieri e trafficano a Roma. Voi sarete per ogni rispetto molto piú sicuro sovra il bregantino che in una barca. – Il che credendosi Marco Antonio, fattasi dar la valigia, montò col compagno suo sovra il bregantino. Ma egli non la indovinò, e non aveva detto il matino il paternostro di san Giuliano; perché la barca di Lerice navigò senza impedimento alcuno a salvamento a Roma, ed egli sovra il bregantino s’incontrò nei maligni spiriti ed ebbe assai che fare, come nel processo del mio parlare intenderete, perciò che assai sovente l’uomo pensa farsi il segno de la santa croce e si dá de le dita ne gli occhi. Spiegata adunque la vela con prospero vento, non dopo molto entrarono nel canal di Piombino, e secondo la costuma dei naviganti, quando furono dinanzi al porto, quello con dui tiri di artiglieria salutarono, e lietamente navigando andavano al lor viaggio, senza téma alcuna di ritrovar cosa che gli impedisse o molestasse. Erano quattro galeotte moresche, di quelle del famoso corsale Dragutto, condutte da balí Rais, ne le cose maritime, e massimamente circa il corso, molto pratico, le quali soggiornavano appiattate in un riposto seno del canale, in aguato per prender a l’improviso qualche legnetto di cristiani, che per quei mari mal accompagnato navigasse. Come i detti mori sentirono i tiri e saluto del bregantino, imaginandosi ciò che era, sboccarono fuor de l’aguato e si misero a la posta. Indi, come il bregantino comparve, con i lor gridi moreschi e con tiri di arteglieria furiosamente l’assalirono e lo cominciarono a combattere con grandissima fierezza. I poveri e sbigottiti cristiani, veggendosi a torno le quattro galeotte bene in punto armate e corredate, e conoscendosi non esser atti a poter loro far resistenza, e il domandar mercé a quei perfidi e crudeli mori nulla giovare, non sapevano ad altro rivolger il pensiero che a fuggire. Erano sossopra i marinai e passaggieri, e molto s’affliggevano; ma una gran pietá era sentire le strida de le timide donne, che mandavano le grida insino a l’alto cielo. Quelli che sapevano nuotare si cominciarono a dispogliare per raccomandarsi a l’acqua. In questo ecco venire una palla di moschetto che diede nel petto di botta salda a Beltramo, e subito l’ancise. Rimase Marco Antonio, che a canto gli era, tutto spruzzato del sangue del morto compagno, e tanto vicino gli passò la palla che gli arse in parte ed affumicò i peli del mantello. Pensate come egli in quella mortal tresca si trovava. Faceva voti a Dio e a’ santi, e a quelli si raccomandava. Io per me crederei che alora egli dicesse i paternostri de la bertuccia. Ora molti dei cristiani, per fuggir la servitú di quei barbari, sapendo nuotare si gettarono in mare. Marc’Antonio anco egli fu uno di quelli, ché, raccomandandosi a Dio nostro signore e a la gloriosa Vergine Maria, si mise a nuotare. Ma, come proverbialmente dir si suole, saltarono da la padella nel fuoco, perciò che tutti quelli che a nuoto s’erano messi furono dai mori, che sovra gli schifi li seguivano, presi. Gli altri, cosí uomini come donne, che erano restati sovra il bregantino, non so come, essendovi saliti su alquanti mori, e tagliando a pezzi e svenando i poveri cristiani, il bregantino si riversò con la carena al cielo, di modo che gli uomini nostri e le sciagurate donne e quei crudelissimi mori col bregantino in capo vi si annegarono. Fu poi condotto Marco Antonio con gli altri prigioni sopra le galeotte, dove tutti, spogliati ignudi come il giorno che nacquero, ebbero per antipasto di molte battiture con alcune verghe sottili di palma, essendo la costuma di quegli scelerati barbari di tal maniera flagellare ed acconciar i presi cristiani per far loro conoscere che sono diventati schiavi. Onde, avendoli di modo percossi che le carni loro piovevano da capo a piedi vivo sangue, cosí ignudi come erano, gli cacciarono sotto coperta. Poi, come furono arrivati a Monte Cristo, misero tutti i cristiani al publico incanto e gli vendettero per ischiavi ai medesimi mori de le galeotte, e tra loro divisero quei danari che se ne cavarono. Indi voltarono i remi a la volta de l’Affrica. Quivi si può considerare che core e che animo fosse quello degli sfortunati prigioneri, che si vedevano menare schiavi in Barbaria con nulla o bene pochissima speranza di ricuperare giá mai la perduta libertá, né di mai piú tornar a le lor patrie. A mio fratello doleva senza fine d’aver perduto padre, madre e noi altri fratelli, e, oltra questa miseria sciagurata vedersi schiavo in mano di gente barbara nel principio de la sua fiorita giovinezza, senza speme d’uscire di tanta e sí misera servitú giá mai. Ma molto piú l’affliggeva e noiosamente gli rodeva la radice del core, di continovo tormentandolo, il non aver potuto sodisfare al desiderio e comandamento del suo signore, non sapendo ciò che quello di lui devesse imaginarsi, non avendo mai avuto nuova alcuna di ciò che egli fatto s’avesse. Con questi ed altri pensieri miseramente mio fratello, in tanta sua calamitá pascendosi d’amarissime lagrime, menava una dolente vita. Ma vedete qualmente Fortuna, quando buona pezza s’è di noi preso trastullo, come sa voltar la vela e cangiar stile. Erano i corsali con prospero vento arrivati vicini a le secche de la Barbaria, e, sperando in poco d’ora discender in terra e toccar la desiata patria arena, ecco in un volger d’occhi levarsi un impetuosissimo soffiamento di contrario vento, che mal grado loro gli sforzò a voltar le vele e darsi in preda a la rapidissima violenza del tempestoso e adirato mare, che verso la spiaggia romana a viva forza gli cacciava, di maniera che capitarono sopra Nettuno. Quivi, trovando sette barche di mercadanti che tornavano da la fiera di Salerno, e spinti anco essi da la fortuna vi s’erano ridutti, senza alcuna contesa i mori le presero, e fecero tutti schiavi coloro che suso v’erano. I corsali scaricarono le barche di tutta la mercadanzia e la posero sovra le loro galeotte, e tra l’altre cose vi missero alcune some di mandorle. Era stato mio fratello piú di tre giorni senza cibarsi. Fecero le mandorle, che a canto a lui erano state poste, venirgli appetito di mangiare; il perché con mani e con denti, a la meglio che puoté, aprí uno di quei sacchi e cominciò avidissimamente a romper mandorle e mangiarle. Sentendo questo, gli altri prigioneri: – Deh, frate, – gli dissero, – per Dio, lascia stare quei sacchi, ché se i corsali se n’accorgono, tu sarai cagione che tutti saremo bastonati senza alcuna pietá. – Ma eglino cantavano ad un sordo. Egli, che vòto e morto di fame era e si sentiva mancare, attendeva pure coi denti a ristorarsi, lasciando garrire chi voleva. Gli uomini nettunesi, che le galeotte dei corsali giá scoperte avevano, mandarono subito un ispedito messo al capitano Antonio Doria, il quale a Monte Carcelli alora in compagnia di ventidue galere si trovava. Fra questo mezzo andarono i mori per istar quella notte a l’isola de la Palmiruola, per esser poi la matina a Ponzo, per prender quivi acqua per rinfrescamento e riprender un’altra volta il camino de l’Affrica. Ma, come proverbialmente si dice, «una ne pensa il ghiotto ed un’altra il tavernaro». Cominciava giá ad appropinquarsi il tempo de la liberazione dei nostri cristiani e la cattivitá dei perfidi mori, a ciò che qual l’asino aveva dato ne la parete, tale ricevesse. Come il capitano Antonio ebbe l’avviso dei nettunesi, in quella medesima ora mandò due fregate per ispiare ciò che i mori facevano. Andarono via le fregate quasi a guisa di pescatori, e manifestamente subito conobbero le galeotte esser moresche ed anco dei corsali. Videro i mori le fregate, ma, stimando in esse andar pescatori, non le volsero assalire per non si scoprire, con speranza di far il dí alcuna buona presa di legni mercantili, massimamente di quelli che pensavano dever tornar da la fera salernitana. Era venuto quella notte, dopo la spia avuta da le due fregate, il capitano Antonio Doria a l’isola di Ponzo, e, poco innanzi che l’alba cominciasse ad apparire, si levò e mandò due galere a scoprir i mori da una de le bande de l’isola, le quali due galere erano con alquanto di distanza seguitate da nove altre galere. Esso capitano Antonio Doria providamente da l’altra banda de l’isola lentamente navigava con l’altre undici galere, a ciò che i corsali, o da l’una parte o da l’altra, dessero del capo ne la rete e non potessero scampare a modo veruno. Ora, come i mori videro comparire le due dette galere senza conserva d’altri legni, pensando che altra scorta non avessero, fecero consiglio tra loro e conchiusero che era ben fatto piú tosto animosamente combatterle che fuggire. Onde, fatta cotale deliberazione e mettendosi ad ordine per menar le mani, cominciarono a scoprire le nove altre galere che navigavano appo le dui prima da loro scoperte. Del che, giá presaghi de la loro presente rovina e disperati del tutto di potersi salvare, bestemmiando i loro dèi, si pelavano la barba. Tuttavia, non mancando a loro stessi, cominciarono a gettar in mare assai di quelle mercadanzie che a’ cristiani rubate avevano, per alleggiamento dei loro legni, a ciò che piú velocemente potessero dar volta a l’altra banda de l’isola, e, calandosi in terra, abbandonate le galeotte, appiattarsi fra le selve e boschi, che sono in quell’isola grandi e foltissimi. Ma volendo schifar un periglio, fecero come colui che, desiderando di non dare in Cariddi, percosse e si affogò in Scilla; perciò che s’avvennero a le galere del capitano Antonio, che con l’altre undici da quella costa veniva. Quivi, senza punto poter far diffesa, tutti i mori furono presi e messi a la catena. Balí Rais, il capitano, che in vista mostrava d’esser un bravo uomo, aveva quel giorno indosso una giubba di scarlatto di grana con bottoni grossi d’oro. Egli anco fu spogliato e posto a la catena col remo in mano. I prigioni cristiani tutti furono liberati e messi in libertá. Marco Antonio mio fratello, uscendo di sotto coperta de la galeotta ove era stato in prigione tutto il tempo dopo che fu preso, s’abbatté in uno sacchetto di cuoio pieno di scudi d’oro, e sentendolo pesante assai, ed imaginatosi il fatto com’era, lieto oltra misura de la racquistata libertá come anco dei danari trovati, avviluppatosi in una schiavina, se ne venne disopra, ringraziando di core nostro signor Iddio, che dopo tante e tali sciagure libero si trovasse. Fece poi vela verso Napoli il capitano Antonio, e navigando ebbero tanto fiera e rovinosa tempesta le sue galere, che per la contraria e fuor di modo veemente fortuna furono vicini a rompere in mare, andando traverse, e affogarsi non molto lontano da Gaietta. Nondimeno col buon governo, aiutandoli nostro signor Iddio, presero a la fine porto a Gaietta. Vi so dire che mio fratello non ebbe minor paura di quella che ebbe quando fu preso da’ mori. Nel porto di Gaietta dismontò egli in terra e s’allontanò alquanto fuor di terra ed entrò in un boschetto assai vicino. Quivi, desideroso di saper ciò che guadagnato avesse, aprí il trovato sacchetto di cuoio, cui dentro ritrovò piú di duo mila scudi d’oro, e oltra quelli molte anella di valuta, tra le quali ci erano dui finissimi diamanti, che poi stimati furono da pratichi e giudiziosi gioieglieri piú di settecento ducati d’oro l’uno. Potete credere che egli, smenticatosi tutte le passate sciagure, aveva il suo core tanto lieto quanto esser si potesse, e gli pareva che nòtasse in un mare di mèle, trovandosi tanti danari e cosí care gioie, ed esser in libertá; del che, dopo tanti mali, puoté tenersi per ben ristorato. Andarono poi le galere a Napoli, ove, come Marco Antonio fu giunto, rese quelle grazie che seppe le maggiori de la sua liberazione al capitano Antonio Doria, dismontò in terra e attese a farsi far de le vestimenta da par suo. E non volendosi a modo veruno piú confidare d’isperimentar la poca stabilitá de l’acque marine, montato su le poste, se n’andò a Roma. Quivi condusse un onorato palagio, che di tapezzarie adornò e forní d’ogni cosa per bisogno ed agio del suo cardinale e de la corte di quello. Gli fu assai favorevole anco in questo la fortuna, perché, dopo tanti travagli e fastidi, egli mandò ad essecuzione tutto quello che dal suo signore gli era stato imposto prima che monsignor lo cardinale a Roma arrivasse; perché, venendo per terra a oneste giornate, ritrovò il tutto apparecchiato, arrivando otto giorni dopo che Marco Antonio era giunto in Roma. Quivi il cardinale prima intese la buona sorte di quello, che i tanti sofferti infortunii. E però si può ragionevolmente conchiudere che nessuno si deverebbe, per contraria fortuna che lo molesti, disperar giá mai, essendo quella, in tutte le azioni sue, varia ed instabile.
PARTE QUARTA
IL BANDELLO
A LI CANDIDI LETTORI
IL BANDELLO
A MONSIGNOR
GUGLIELMO LURIO
signor di Lunga, senatore regio a Bordò
signor suo onorando
NOVELLA I.
Simone Turchi ha nimistà con Geronimo Deodati lucchese. Seco si riconcilia, e poi con inaudita maniera lo ammazza; ed egli, vivo, è arso in Anversa.
Voi m’invitate, madama illustrissima e voi signori, che essendo io venuto ora dalla grande, popolosa e abbondante di ogni cosa al vivere nostro non solamente necessaria, ma che ci possa recare giovamento, delicatura e piacere, la città, dico, di Parigi, che io voglia narrarvi alcuna cosa di nuovo. Che in vero mi pare quasi impossibile di partirsi fuori di Parigi, a chi ogni pochetto di tempo ci dimora, che egli non ne esca pieno di novelle. E lasciando per ora le nuove di quella gioiosa corte, che, come si scrive dell’Africa, sempre alcuna cosa ha di nuovo, nè volendo dire de’ maneggi, che adesso vanno attorno tra i nostri principi cristiani, e tanto. variamente se ne parla da chi forse meno ne sa; io vi vo’ dire un pietoso e degno di compassione accidente, perpetrato con tanta scelleraggine, quanta possiate imaginarvi. Questo caso è seguito tra due mercanti della gentile città di Lucca, colà nella Fiandra, nella nominatissima, molto ricca, mercantile e festevole terra d’Anversa. In quel luogo è quasi come un mercato generale a tutti i cristiani dell’Europa e d’altrove, e vi è una maniera di vivere molto libera e viepiù dimestica assai, che in molti altri luoghi. Ora tra l’altre; dimestichezze che in Anversa sono, una ce ne è, che ora vi narrerò. Costumano le figliuole da marito, come diventane grandicelle, per l’ordinario avere tutte alcuni giovani loro innamorati, i quali da esse si chiamano servitori. Quella dipoi è più stimata, che più ne ha. Quelli che le corteggiano, e si dichiarano loro servitori, vi vanno nelle case liberamente tutto il dì; e ancora che ci siano il padre e la madre, non cessano visitarle e corteggiarle, ed ancora staisi a parlar seco mattina e sera. Le invitano anco bene spesso a disiòari e cene, e come qui si dice, a banchettare a diversi giardini; ove le fanciulle e giovanette, senza guardia di chi si sia, liberamente con gli amanti loro vanno; e colà se ne stanno tutto il dì in canti, suoni, balli, mangiare e bere e in giuochi, con quella compagnia che l’amante avrà invitata. La sera l’amante prende la sua signora, e a casa di le; l’accompagna e la rende alla madre, la quale amorevolmente ringrazia il giovane del favore ed onore che ha fatto alla figliuola.