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repentinamente ricchissimo e al mondo riguardevole, se raggio nessuno del lume de la ragione in lui risplenderá, egli per questo non si leverá in superbia né sprezzerá questi e quelli, i quali a petto a lui sono di vie piú valore e merito, ma tacitamente in sé raccolto dirá: – Ieri io ero misero e sciagurato, ed oggi, non so come, senza che io lo vaglia, mi trovo felice e beato. Quanti ce ne sono che, se ai meriti, al valore ed a la vertú s’avesse, come sarebbe il debito, il convenevol riguardo, deveriano esser riveriti, ricchi ed onorati, ed io deposto al basso? E perciò conoscendo il cieco giudicio de la Fortuna, che cosí sovente cangia proposito, quanto piú ella in volto lieta e favorevole mi ride, quanto piú m’essalta e quanto piú fortunato mi rende, tanto piú io mi delibero divenir affabile, grazioso, liberale, compassionevole e cortese a tutti, e a ciascuno, quanto per me si potrá, largamente giovare e a nessuno non far ingiuria giá mai, a ciò ch’io faccia ufficio d’uomo da bene e mi dimostri degno di tanti beni quanti m’ha donati. Chi sa poi se essa Fortuna, volgendo, come è sua natura e costume, la rota e precipitandomi al basso de la mia prima miseria, mi volga le spalle e piú non voglia favorirmi? Io averò pure in questo mezzo operato bene e mi sarò reso degno che altri abbia di me compassione. – Ed in vero se gli uomini dal nocivo fumo de la mala ambizione e da l’oscure e folte nuvole de la temeraria superbia e del vanissimo e persuasivo gonfiamento del presumere di se stesso piú di quello che si sa e che si vale, e da mille altre taccherelle non si lasciassero accecare, e non dessero talora, per lo piú del dovere stimarsi, il cervello a rimpedulare, averessimo senza dubio questa nostra vita piú tranquilla di quello che abbiamo. Ora, di queste fortunevoli mutazioni, che cosí spesso si vedono avvenire in ogni sorte d’uomini, ragionandosi questi dí in una onorata e sollazzevol compagnia, messer Domenico Cavazza narrò un fiero e crudel accidente avvenuto a messer Marco Antonio suo fratello, che in meno di quindici giorni si trovò esser misero e felice. Piacendomi cotal istorietta per la varietá di molti fortunosi casi che v’intravennero, subito quella scrissi, per accumularla al numero de l’altre mie novelle. Pensando poi a cui donar la devessi, non avendo io altro che dare agli amici miei che carta ed inchiostro, voi a la mente mia in un tratto m’occorreste, come quello che io prima amai che veduto avessi, con ciò sia cosa che madama Gostanza Rangona e Fregosa, padrona mia e de le vostre rare doti indefessa predicatrice, infinite volte di